lunedì 7 maggio 2018

Maurizio Blondet - LA CORTE COSTITUZIONALE HA già SDOGANATO LA FUTURA super-IMPOSTA PATRIMONIALE



1. Di recente, con la pronuncia della Corte costituzionale n.7 del 2017, si è diffuso un certo “entusiasmo” (mediatico) circa la censura che la stessa Corte rivolge al legislatore quando questi si mette all’opera, per rispettare il pareggio di bilancio, cercando ogni mezzo per soddisfare questo principio assurto a grund norm della quasi totalità della legislazione più rilevante degli ultimi anni.
Nel caso, si è trattato della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma emanata dal governo Monti che imponeva un prelievo fisso, a favore dello Stato, sostanzialmente patrimoniale (al di là dell’indice utilizzato per determinare la base imponibile) sulle casse previdenziali “autonome” di determinate categorie professionali (ricorrente era la cassa dei commercialisti).
Cercheremo però di evidenziare con la massima semplicità possibile di come non solo, con tale decisione, non sia stato posto in dubbio il “valore” del pareggio di bilancio come equiordinato, se non in concreto prevalente, su quelli tutelati da altre norme costituzionali, ma come, sempre in applicazione dello stesso principio, si sia preventivamente, (sia pure “in astratto” ma non perciò in modo meno significativo),preannunziata la legittimità di “prelievi eccezionali” da parte dello Stato, autorizzati da un “particolare momento di crisi economica“.
2. Vi riporterò, nella sua apparente incidentalità, il passaggio rappresentativo di tale interpretazione....
Questo passaggio ci dà conto, ancora una volta, non solo della ormai consolidatasi gerarchia (o NON gerarchia) dei valori costituzionali ma, inscindibilmente, del concetto di “crisi economica”, tanto genericamente evocata, quanto ostinatamente trascurata nell’individuare le sue cause efficienti nonché, – elemento veramente decisivo nella comprensione della materia (ovvero nella “incomprensione” della Corte)-, il legame univoco di queste cause con le politiche fiscali ed economiche imposte dall’appartenenza all’eurozona.
E quindi, a ben vedere, nelle stesse ormai “inconsapevoli”, affermazioni della Corte,  sfugge il legame univoco di questa generica “crisi economica” con l’introduzione dell’art.81 Cost. come obbligo derivante dal c.d. fiscal compact, per l’appunto incompreso nella sua autonoma capacità generatrice della crisi: quest’ultima intesa sia come crescita negativa, cioè recessione, sia come crescita ridotta o prossima allo zero, cioè stagnazione, entrambe accompagnate, come riflesso inevitabile del loro manifestarsi, dalla evidenza della crisi occupazionale (cioè dal dilagare della disoccupazione divenuta connotato sociale della realtà italiana proprio in conseguenza dell’adesione alla moneta unica).
3. Ecco dunque il passaggio della sentenza n.7 del 2017:
Se, in astratto, non può essere disconosciuta la possibilità per lo Stato di disporre, in un particolare momento di crisi economica, un prelievo eccezionale anche nei confronti degli enti che – come la CNPADC – sostanzialmente si autofinanziano attraverso i contributi dei propri iscritti, non è invece conforme a Costituzione articolare la norma nel senso di un prelievo strutturale e continuativo nei riguardi di un ente caratterizzato da funzioni previdenziali e assistenziali sottoposte al rigido principio dell’equilibrio tra risorse versate dagli iscritti e prestazioni rese.
L’affermazione, evidentemente a portata generale circa il potere di imposizione fiscale “eccezionale” (appunto: lo “stato di eccezione” dei mercati come neo-detentori della sovranità) considerato legittimo dalla Corte senza mai indagare sulle sue cause, trova ulteriore sviluppo nel periodo immediatamente successivo:
Alla luce di tali considerazioni risultano capovolte anche le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui la fattispecie normativa in esame sarebbe il portato di un’«adeguata ponderazione» delle esigenze di equilibrio della finanza pubblica di cui all’art. 81 Cost. con «gli altri parametri costituzionali richiamati dal Consiglio di Stato […] nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza […] in relazione alla pari necessità di rispetto dell’art. 81 Cost. ed alla luce della necessità di individuare un punto di equilibrio dinamico e non prefissato in anticipo tra tutti i vari diritti tutelati dalla Carta costituzionale».
Una valutazione in termini di proporzionalità e di adeguatezza tra i dialettici interessi in gioco può essere realizzata solo all’interno del quadro legislativo della materia «secondo determinazioni discrezionali del legislatore, le quali devono essere basate sul ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi, compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa» (sentenza n. 119 del 1991).
[Inciso necessario per chi non fosse abituato al ragionamento logico-giuridico: se è “riconoscibile”, in termini di legittimità costituzionale, la possibilità di un prelievo eccezionale su enti previdenziali che si autofinanziano con i contributi degli iscritti, a fortiori, questa diagnosi preventiva di legittimità vale per ogni categoria di soggetto privato, rispetto a cui il potere di imposizione fiscale, a fini di raggiungimento del pareggio di bilancio, si manifesta senza neppure il problema della destinazione del suo patrimonio allo svolgimento della funzione pubblica di erogazione di prestazioni pensionistiche.
D’altra parte, ciò è confermato dall’uso della congiunzione copulativa “anche”utilizzata dalla Corte in termini logici che implicano una serie di soggetti verso cui tale prelievo eccezionale è già presupposto come “possibile”.]

4. Dunque, prendiamo atto: nei valori costituzionali esistono degli evidenti e continui contrastie, sì, questi contrasti derivano dai limiti di bilancio imposti allo Stato fin da Maastricht, e peraltro continui e reiterati e niente affatto episodici o contingenti.
La Corte pare considerare invece ogni singolo “episodio” legislativo sottoposto al suo esame come caratterizzabile dalla già segnalata visione “atomistica” delle questioni che esamina, facendosi sfuggire, ormai da decenni, che lo “stato di eccezione” è permanente e che i“sacrifici” imposti a tutti gli altri valori costituzionali, per dimensione, durata e pluralità praticamente omnicomprensiva di interventi, assumono ormai un carattere non liquidabile come non lesivo del “nucleo essenziale” dei diritti costituzionali fondamentali (in un tempo ormai lontano…).
5. Il problema lo abbiamo già visto esaminando l’altra pronuncia della Corte affrettatamente salutata come fondamentale “stop” alla priorità, in concreto, del principio €uropeistico del pareggio di bilancio, la n.275 del 2016:
“In particolare, la decisione non affronta e non risolve il problema logico pregiudiziale che è inscindibilmente legato alla ratio ed alla giustificazione della norma censurata (che, appunto, non è certo casuale e frutto di una “malvagia” scelta politica della Regione Abruzzo).  Vale a dire, il problema della “guerra” tra poveri ovvero del conflitto tra diversi diritti costituzionalmente fondati che deriverebbe dal mero garantirne uno, quale incomprimibile, all’interno di un finanziamento che, complessivamente e promiscuamente, è comunque non solo limitato ma progressivamente tagliato in omaggio al principio del pareggio di bilancio.  Questo si esprime, ormai da anni (e, prima ancora, nell’ottica della riduzione del deficit al 3%, cioè da decenni) in decisioni finanziarie statali di bilancio adottate per adeguarvisi, e, nello specifico, notoriamente, mediante la riduzione dei trasferimenti da parte dello Stato alle regioni, tutt’al più da compensare con aumenti della imposizione “locale” nel quadro del c.d. “patto di stabilità interno”.  Ma questi meccanismi sono da sempre attuati, per vincolo c.d. “esterno”, nel quadro della generale riduzione del fabbisogno statale verso il pareggio stesso, “voluto dall’Europa” e, dichiaratamente (da parte delle fonti europee), al fine prioritario di mantenere la nostra adesione alla moneta unica, e quindi al di fuori di qualsiasi (comprovato) vantaggio ponderabile con i costi sociali che emergono nelle sempre più numerose fattispecie all’esame della stessa Corte costituzionale.  IV.3. La Corte,garantendo il pieno e non solo parziale rimborso (nel caso) delle spese sostenute per il trasporto scolastico dei disabili, ha tuttavia, in forza dell’inesorabile meccanismo dei saldi di bilancio, vincolati dal patto di stabilità interna, necessariamente inciso sulla (altrettanto “piena”) erogabilità di altri servizi sociali finanziati in tutto o in parte, dalla regione, mediante lo stigmatizzato “indistinto” stanziamento: magari avrà determinato che una madre lavoratrice non avesse più posto nell’asilo nido per il bambino (venendone soppressa la stessa struttura); o che un anziano indigente e affetto da malattia cronica non potesse più vedersi assicurata l’assistenza domiciliare. Non porsi il problema generale di come il pareggio di bilancio incida, in stretta connessione con la questione devoluta alla Corte, sui complessivi livelli di diritti tutti egualmente tutelati dalla Costituzione, porta a comprimerne, o a sopprimerne uno in luogo di un altro, generando un inammissibile conflitto tra posizioni tutelate.   Un conflitto che, secondo un prudente apprezzamento della realtà notoria, non può essere risolto scindendo una realtà sociale composta da elementi interdipendenti; tale realtà viene, nel suo complesso, sacrificata illimitatamente, in una progressione di manovre finanziarie di riduzione, portate avanti pressocché annualmente, dall’applicazione del pareggio di bilancio e dalla graduale (o anche talora drastica) situazione di de-finanziamento che esso comporta. La sua logica, propria dell’applicazione fattane agli enti territoriali, è infatti quella di una prioritaria allocazione delle risorse al risanamento del debito pregresso e dei suoi oneri finanziariIV.4. Non si tratta dunque di tutelare un “pochino” (meno) tutte queste posizioni costituzionalmente tutelate, comunque comprimendole tutte contemporaneamente, ma di un generale e inscindibile piano di “caduta” (in accelerazione), dovuto alla crisi economica indotta dalla euro-austerità fiscale, con la disoccupazione (effettiva) record che essa determina e, dunque, con l’oggettivo e notorio (e drammatico)ampliarsi della sfera dei cittadini aventi diritto alle prestazioni costituzionalmente garantite,cioè tutelandi (secondo la Costituzione)”.
6. Con il sopra riportato percorso argomentativo della sentenza n.7 del 2017, la Corte conferma questo ordine di obiezioni in modo categorico: la discrezionalità del Legislatore – essenzialmente su iniziativa del governo, ormai stabilmente esecutiva di diktat minacciosi provenienti dalle istituzioni €uropee (altro aspetto costantemente ignorato dalla Corte) –  è, secondo lei, interna a una dialettica e tutti i valori costituzionali (originariamente posti dalla Carte del 1948), proprio perché dialetticamente contrapponibili, sono ormai posti su un piano di parità con quello del pareggio di bilancio.
Questo potenziale super-valore – proprio in conseguenza della continua visione atomistica e priva di “memoria” e prospettiva storica del complesso delle misure fiscali e finanziarie adottate dallo Stato italiano come politica ormai permanente e pervasiva –   porrebbe i rapporti tra norme costituzionali in termini “dialettici”: ma nel dir ciò, si finisce inevitabilmente per attribuire a questa disposizione di origine sovranazionale (UEM), un’attitudine caratterizzante dell’intero ordinamento.
E questa funzione caratterizzante del pareggio di bilancio trova poi il suo addentellatonell’accettazione acritica, anzi nella ipostatizzazione (per reiterazione ormai inerziale), dell’idea – tecnico-economica- che esso abbia una funzione risolutiva della (abbiamo visto generica) “crisi economica”.
7. Eppure la Corte dimentica che, nel 2010, alla “vigilia” della grande stagione dell’austerità espansiva, alla cui ideologia la Corte si è ormai ostinatamente adeguata, l’Italia era ormai uscita dalla recessione, era tornata a crescere e avrebbe potuto, senza particolari sforzi, tranquillamente rispettare il limite di deficit del 3%, stabilito dal precedente patto di stabilità dell’eurozona.
Dunque, l’imposizione del fiscal compact, – peraltro da considerare la formalizzazione di unaprecedente costante aspirazione al pareggio di bilancio, che risaliva a periodi in cui non c’era affatto una crisi economica (e già questo dovrebbe portare a qualche riflessione la stessa Corte)-, non pare potersi obiettivamente e ragionevolmente giustificare come rimedio alla recessione o anche solo alla stagnazione: e, con essa, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, .
Di più, l’adozione del paradigma dell’austerità espansiva, non solo è stato messo in dubbio dallo stesso FMI, che l’aveva originariamente diffuso e travasato nelle sollecite spire dei meccanismi di “stabilizzazione” adottati normativamente dall’eurozona,  ma esso, solo che si consultino con un minimo di attenzione i dati dell’Istat, risulta essere la causa diretta della crescente disoccupazione e del suo già visto livello strutturale senza precedenti nella storia della Repubblica.
8. Sul piano della storia economica, abbiamo proprio visto, nel post precedente che tale idea di “stabilizzazione” è in realtà il portato di un’ideologia monetaria, prima “neo-classica”, cioè propria degli anni ’20, e poi esplicitamente adottata dall’unione monetaria €uropea (pp.6-6.1.), che si impernia tutta su un rimedio, e uno solo: cioè quello deflazionista e di traslazione sul mercato del lavoro dei costi del debito estero di una Nazione (che è appunto il perno della dottrina delle banche centrali indipendenti).
La correzione dei conti con l’estero – il vero problema che si voleva ovviare attraverso il fiscal compact- e il pagamento dei creditori esteri dell’eurozona, allarmati dalla crescente posizione debitoria dei c.d PIGS, avviene attraverso lo strumento fiscale, espressamente additato in tale funzione (il caso della Grecia dovrebbe dissipare ogni dubbio, al riguardo, se no si è accecati dallo slogan moralistico che avrebbe “falsificato i conti pubblici”…).
9. Ciò perché si è ben consapevoli che l’austerità fiscale limita i consumi e la spesa interna(anche quella per investimenti) prima di tutto attraverso l’innesco del taglio di quella parte del PIL che è la spesa pubblica, (e lo stesso Padoan ha fatto una rilevante ammissione al riguardo), che a qualsiasi titolo effettuata (piaccia o no), aumenta il reddito dei cittadini.
Tagliato per via fiscale tale reddito – accoppiando ovviamente al taglio della spesa pubblica anche l’aumento della pressione fiscale- si limitano le importazioni: la crescente disoccupazione che discende dal taglio del reddito, e cioè degli incassi delle imprese derivanti dalla domanda interna, a sua volta, induce la forza lavoro ad accettare complessivamente (aiutata da una serie continua di riforme flessibilizzanti e precarizzanti del mercato del lavoro), una minor retribuzione e ciò non solo avvia un circolo vizioso di minori importazioni, ma anche di fallimenti seriali di imprese basate sulla domanda interna, abbassa il costo del lavoro e promuove in una certa misura la competitività di prezzo delle nostre merci.
Ed infatti, l’Italia, oggi, si trova nella paradossale situazione di avere un surplus delle partite correnti, ma una crescente disoccupazione (ove realisticamente rilevata con criteri quantomeno omogenei a quelli utilizzati negli USA per l’aggregato U6, qui p.5) e soprattutto una concomitante deindustrializzazione nei settori non export-led, che è alla base delle diffuse sofferenze delle famiglie e delle stesse imprese che, non può più essere ignorato, produce la situazione di crisi bancaria e di intervento di salvataggio dello Stato, – sempre però soggetto a obbligo di rientro per via fiscale (pp.4-5),!- che si configura ormai come esplosivo.
10. Ora, in questo quadro, le due grandi giustificazioni della “bilanciabilità” del pareggio di bilancio in dialettica (quasi sempre prevalente) con ogni altro valore costituzionale, nelle sparse ma ormai sedimentate affermazioni “atomistiche” della Corte, si giustifica essenzialmente per due ragioni (tecnico-economiche ma mai verificate in ordine alla loro attendibilità): a) il sussistere di una situazione di crisi economica e b) la scarsità delle risorse finanziarie pubbliche.
Entrambe queste premesse di fatto si rivelano strettamente ancorate all’adesione alla moneta unica.
Quest’ultima, negli inequivocabili giustificativi enunciati delle stesse istituzioni UE (p.5), si fonda su un particolare concetto della moneta, che si basa sull’idea della banca centrale indipendente e sul divieto di finanziamento monetario agli Stati che, pertanto, assoggettati ai mercati come debitori di diritto comune, devono rendersi solvibili e “appetibili” attraverso la disciplina fiscale a priori imposta dall’appartenanza alla moneta unica.
Se dunque è il pareggio di bilancio, nelle sue varie tappe e proiezioni imposte di volta in volta dalla Commissione UE, alla base del taglio del reddito nazionale e della disoccupazione strutturale, è in definitiva l’euro la causa di recessione (certamente negli anni 2012-2013) eanche della successiva stagnazione deflattiva del paese. Così com’è l’euro, e la sua disciplina fiscale di automantenimento, alla base della crisi bancaria e dei suoi “drammi” di ricapitalizzazione con intervento dello Stato…in pareggio di bilancio.
11. La “crisi economica” e la “scarsità di risorse” hanno dunque una precisa causa: ma il paradosso estremo è che la Corte costituzionale si ostina, inconsapevolmente, a rinvenire in questa causa…il rimedio (in un paradosso eurisitico da cui rischia di non uscire mai): cioè il pareggio di bilancio e l’austerità fiscale, che, anzichè determinare un ritorno alla crescita e all’occupazione, inducono stagnazione, out-put gap e disoccupazione e caduta deflattiva dei redditi.
Per questo, in ultima analisi, appare vieppiù inquietante, all’interno di questa clamorosa incomprensione della situazione macroeconomica e monetaria italiana, la (quasi) preventiva giustificazione, come rimedio ad una “particolare situazione di crisi economica” di un “prelievo eccezionale“.
La prospettiva di una patrimoniale straordinaria a carico di tutti i risparmiatori, e magari dei possessori di immobili,  per far fronte al “rientro” dei salvataggi bancari, o anche solo per rispettare il parametro del debito pubblico all’interno del fiscal compact, è sempre più incombente.
La Corte costituzionale, però, è sempre più lontana dal comprendere le ragioni della “scarsità di risorse” (un corollario della versione “pura” della banca centrale indipendente applicata alla BCE), e della generazione delle crisi economiche: cioè lontana dal comprendere il valore sintomatico, per una corretta diagnosi, della deflazione, già incombente, delladisoccupazione e precarizzazione del lavoro, e della stessa recessione.
Questa conseguirà immancabilmente all’applicazione del “rimedio” del “prelievo eccezionale” , nei suoi effetti, accontenterà i creditori esteri.
Ma la Corte costituzionale rischia di continuare a dire che ciò corrisponde ad un supremo valore costituzionale “discrezionalmente e ragionevolmente (!)” contrapponibile, – in unadialettica atomistica e svincolata dalla comprensione delle cause della congiuntura cui l’Italia s’è sottoposta col vincolo monetario-, ai diritti costituzionali sanciti dalla Costituzione del 1948….

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