sabato 17 febbraio 2018

Viaggio nel feudo campano dei De LucaPD, dove il seggio va di padre in figlio



Parenti in lista. Fedelissimi. Signoria assoluta. Un sistema clientelare blindato. A Salerno il governatore è tutto. E nel Cilento c’è Franco “frittura” Alfieri a fare incetta di voti.

(di Susanna Turco, foto di Gianni Cipriano – espresso.repubblica.it)
 – Nell’attesa che Piero De Luca, figlio d’arte, s’affacci in Parlamento, al quale è predestinato grazie alla candidatura blindata col Pd, alla campagna elettorale ci pensa papà il governatore. Come avviene per quasi tutto il resto. In queste elezioni dove, sul dorso della Campania, sbalzano come da un legno ritorto gli snodi politici che attraversano il resto del Paese – dalla prova post grillina di Luigi Di Maio candidato a Pomigliano d’Arco, fino alla battaglia tra le anime di Forza Italia sulle spoglie-non-spoglie di Silvio Berlusconi, passando per gli impresentabili in lista e il tramonto dei partiti – è proprio il sistema De Luca a raccontare una linea di frontiera. Del Pd renziano, ma non solo. Parenti in lista. Signorie assolute. Regionalismi. Fedeltà senza cedimenti. Nostalgie di mondi di una volta, mescolate a un populismo che tiene fuori tutti gli avversari. Come raccontano ad Agropoli, a proposito del deluchiano di ferro Franco Alfieri, l’ex sindaco ormai detto «re delle fritture» per una battuta di De Luca sulla sua capacità a fare clientela, anche lui pronto a sbarcare alla Camera: «Non esistono i grigi, o stai con lui, o contro. E se non stai con lui, sei fuori»...


A questo giro di valzer, il sistema fa un passo ulteriore. Con le accortezze del caso. A quattro settimane dal voto, ad esempio, in giro per la regione De Luca junior, 37 anni, avvocato, imputato, e candidato – detto da taluni salernitani «Giovane Favoloso» con un qualche rassegnato sarcasmo – non si trova da nessuna parte. Fa riunioni a porte chiuse in hotel degni di un film di Matteo Garrone, campagna elettorale quasi blindata, concessioni ai media col contagocce: ai quotidiani locali ha dato una triplice intervista nel giorno della discesa in campo; con l’Espresso si è reso inafferrabile («siamo dovuti scappare», l’ultima involontaria ammissione dell’ufficio stampa dopo giorni di inseguimento). In fondo, a mostrarsi troppo, ha tutto da perdere.
Al contrario, De Luca senior, Vincenzo detto Enzo, già sindaco di Salerno modello faraone egizio, dal 2015 governatore, è prontissimo e onnipresente. Conferenze stampa, accordi, benedizioni, taglio di nastri. La campagna elettorale la fa lui. Eccolo a Marcianise, provincia di Caserta, assistere al librarsi in volo degli otto droni che controlleranno la Terra dei fuochi (40 milioni di euro l’investimento). Eccolo inaugurare la posa della prima pietra per l’ampliamento – da 150 a 400 posti letto, progetto da 80 milioni di euro – dell’ospedale privato di Pineta Grande, a Castel Volturno, di nuovo provincia di Caserta. Terra che fu di Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario berlusconiano che ha condanne non definitive per 25 anni complessivi, ritenuto fra l’altro dai giudici di primo grado referente nazionale del clan dei Casalesi.
Collegio, questo di Caserta, dove il primogenito del governatore, De Luca junior, nel listino proporzionale del Pd, è secondo i pronostici destinato ad essere eletto. Una zona della quale il padre parla volentieri. «Un territorio meraviglioso, Caserta, lasciatemi un momento parlare di Caserta: era una delle regioni orfane, oggi sta avendo mai come prima una attenzione straordinaria dal governo regionale», gorgheggia col suo tono baritonale De Luca senior, davanti agli amministratori, al suo pubblico, ai suoi elettori. Un’attenzione concreta, da persona che conosce il valore di una frittura così come quello di una «rivoluzione»: dai «600 posti letto in più per Caserta nel nuovo piano ospedaliero appena approvato dalla Regione» (cioè da lui), fino ai «quasi 200 privati che hanno risposto alla chiamata» (la sua) «e sono pronti a investire sul litorale domizio 5 miliardi e 200 milioni», perché «voi neanche riuscite a immaginare le decine di migliaia di posti di lavoro che possiamo ricavare», conclude fregandosi le mani.
Piena applicazione, insomma, di quel comandamento – «fare la clientela come Cristo comanda» – enunciato alla perfezione a una settimana dal referendum del dicembre 2016. Ora attivo ed operante in una Campania dove De Luca si appresta a fare qualcosa di inedito: non tanto mandare avanti il rampollo, quanto riuscirci stando ancora nel pieno del potere. «Solo Umberto Bossi lo aveva fatto», nota Isaia Sales in un intervento sul Mattino dedicato ai «figli di», nel quale di De Luca manca solo il cognome. Piero De Luca come Renzo Bossi. Dopo il Trota, il Triglia. Erede di una Dynasty che oltre a lui prevede il fratello minore Roberto, assessore al Bilancio a Salerno e predestinato anche lui a salire. Insieme con una manciata di fedelissimi, posizionati a vari livelli, dal comune al Parlamento.
Dove sia il Pd , in tutto ciò, lo dice la geografia meglio di tutto. Nella sede di Salerno, al primo piano di un edificio nascosto alla strada, le tapparelle sono abbassate, la porta chiusa. È giorno pieno, in sezione dominano i neon e il deserto. Sono previste riunioni per la campagna elettorale? «Se vuol lasciare il numero di telefono», è la gentilissima e laconica risposta dell’unica sentinella del fu presidio democratico. Del resto è da anni che De Luca interpreta maggioranza e opposizione, in un sistema che viene descritto come «militarizzato», in cui qualsiasi dissenso interno è ormai scalzato via.
Poco lontano, nella centrale via dei Principati, è in corso una riunione mezza carbonara dei De Luca, al comitato di Piero. C’è il padre, i due figli, il sindaco Enzo Napoli facente funzioni di De Luca al comune, ulteriore notabilato di contorno. Parlano dietro i finestroni di un ex negozio di abbigliamento, al primo piano. I passanti dello struscio li guardano, da sotto in su, come si fa al passaggio delle statue dei santi in processione. «Noi siamo innamorati di Enzo De Luca, e siamo sicuri che votare il figlio sarà come votare il padre», sillaba una signora piena di perle. E sono pochissime, nei bar come tra i giovani dell’università, le voci che si discostano. E quando il consenso manca, vien sostituito da un silenzioso imbarazzo, in questo sud dove la famiglia fa le veci del partito.
«Vincenzo m’è padre a me»: ricordano adesso che, giusto alla chiusura della campagna da governatore, un grosso manifesto ispirato a “Miseria e nobiltà” anticipava così l’oggi. Vincenzo, magari averlo per padre. Quattordici casi di candidature familiari solo in Campania (e non solo del Pd). «Un andazzo che si adatta questa fase fatta di partiti che sono semplici emanazioni del centro e dei potentati locali», e dove «l’abbassamento della qualità politica ha reso le famiglie più audaci nel proporre i rampolli», nota ancora Sales.
Dicono in città che De Luca abbia trattato il suo pacchetto di fedelissimi direttamente con Renzi. E quando si è dovuto chiudere, ha mandato il figlio assieme con la segretaria regionale Pd Tartaglione, in modo che ci si ricordasse di tutto. Il risultato, magnifico. Lui, De Luca jr, rinviato a giudizio nel crack Ifil (ma l’udienza prevista per fine gennaio è appena slittata al 14 marzo, cioè dopo il voto, per indisposizione di un componente del collegio) oltre che a Caserta è candidato all’uninominale a Salerno: sarà nella stessa scheda col ministro dell’Interno Marco Minniti, capolista al proporzionale. Un accostamento che nel Pd salernitano alcuni – in camera caritatis – confessano trovare stridente; «Fa venir voglia di votare Grasso», confessano.
A ogni buon conto, appresso a Minniti c’è Eva Avossa, 25 anni da vicesindaca di Salerno, pronta a fare da segnaposto anche in Parlamento. Al Senato uninominale c’è Tino Iannuzzi, la cui fede deluchiana è alla base della deroga che si è fatta per poterlo ricandidare. A sud di Salerno, blinda il Cilento un fedelissimo ormai dotato di una sua notorietà. È Franco Alfieri, il capo staff che giusto De Luca inchiodò a un destino, volendo elogiare la sua capacità di «fare la clientela» con una battuta sulle «fritture di pesce» che ormai lo insegue («Sta cercando le fritture?», ironizza adesso persino il cameriere che serve crocchette all’inaugurazione di un suo comitato elettorale).
In effetti Alfieri, un De Luca di ascendenza diccì, è abituato al plebiscito, proprio come il governatore. All’inaugurazione del suo comitato a Vallo di Lucania campeggia in rosso una gigantografia della mappa del suo collegio. Novantasei comuni, che lui vuol conquistare tutti: nuovo record dopo essere stato il sindaco più giovane d’Italia a Torchiara, e il più votato con oltre il 90 per cento ad Agropoli, governata direttamente per dieci anni, e indirettamente sia prima che dopo. Indagato, processato, ma sin qui sempre alla fine assolto o prescritto, Alfieri ha anche in questo una storia simile a De Luca.
Adesso la sua candidatura ha fatto infuriare pure Antonio Vassallo, figlio del sindaco pescatore Angelo, ucciso con nove colpi di pistola nel 2010. «È indegna, il Pd non usi più il nome di mio padre», aveva attaccato Vassallo jr contro Alfieri, accusandolo di non aver ascoltato le denunce del padre su un caso di appalti sospetti, all’epoca in cui era assessore della provincia. Lui si dichiara estraneo, comunque è determinato a lasciarsi quella storia alle spalle: «C’è chi mi avversa? Se ne farà una ragione», risponde messo alle strette, con la spietatezza della verità.
Il Pd è questo. Il 76,5 per cento che De Luca mobilita a favore di questo o quel segretario. Lui, loro. E chi lo avversa se ne fa una ragione. Il partito è lui, sono loro, Renzi attira poco, il Pd ancora meno. Persino il «notoriamente clientelare» Afieri potè poco quando in ballo c’era il referendum di Renzi. «Ci provai, ma non ci fu niente da fare nemmeno ad Agropoli». Pensano la stessa cosa gli amministratori locali del Pd che sono andati asentire De Luca jr, in un incontro a porte chiuse all’Hotel Vanvitelli di Caserta, tra i divani in velluto rosso, i lampadari in vetro di murano alti dodici metri, le riproduzioni della primavera di Botticelli. Il partito sono loro, altroché: «Renzi non lo devo nemmeno nominare, altrimenti la gente smette di ascoltare» si confidano l’uno con l’altro dopo la riunione, davanti a un aperitivo. Mentre parlano del figlio, «che però non è come il padre».---

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