mercoledì 28 febbraio 2018

DI MARCO DAMILANO x L'Espresso - L’ultima campagna dei partiti dimezzati

L’ultima campagna dei partiti dimezzati

DI MARCO DAMILANO

È finito in crisi il sistema che si fondava sui partiti e che non è riuscito a darsi un altro principio d'ordine: né il leaderismo, né il presidenzialismo. Per questo il voto del 4 marzo sarà un'altra tappa di questa agonia. A cui dovrà trovare una soluzione Mattarella.

Mancano pochi giorni al voto del 4 marzo, sta per finire la più misera campagna elettorale della storia repubblicana, la più inutile e vacua, in parole, opere e omissioni. Peccato mortale, anzi, elettorale. Vuoti i tabelloni dei manifesti, senza il finanziamento pubblico e i rimborsi elettorali partiti e candidati hanno finito i soldi prima di cominciare, vuoti i programmi, vuote le risposte dei leader sul futuro del Paese. 
Eppure non si può dire che non sia successo nulla. Qualcosa è accaduto, qualcosa è cambiato rispetto a un mese fa, all’inizio della campagna elettorale. I tradizionali strumenti di interpretazione non funzionano per capire, sondaggi compresi. Per comprendere quel che si è mosso bisogna seguire i suggerimenti di un vecchio signore della politica, oggi alla guida di un’importante associazione....

Il primo numero da ricordare, mi spiega, è 130. La quota dello spread tra il Btp e il Bund mai superata durante il mese della campagna elettorale, anzi più volte abbassata, come non accadeva dall’autunno 2016, quando l’attesa dei mercati era concentrata sul risultato del referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi. Si pensava all’epoca che una sconfitta del premier avrebbe devastato l’Italia, spread alle stelle e speculazione scatenata, invece il No ha vinto e non è successo nulla, anzi, dopo Renzi è arrivato Paolo Gentiloni. Non c’è più lo spread che salì a 574 punti e inflisse il colpo di grazia al governo di Silvio Berlusconi il 9 novembre 2011, costringendolo a dimettersi al Quirinale tre giorni dopo. I mercati, questa volta, tacciono. Sono in letargo, prima del risveglio. Oppure pensano che non ci sia più un rischio Italia e quindi l’opportunità di scommettere sul nostro fallimento.

I motivi di preoccupazione, in realtà, sono numerosi: la prospettiva di una lunga stagione di instabilità politica, con i nomi dei candidati premier che si inseguono sui giornali ma vengono taciuti dai capi politici dei partiti in tv, così li definisce la legge elettorale, con la constatazione di rito, «toccherà al presidente della Repubblica dopo il voto», che suona ipocrita in bocca a chi negli ultimi venti anni ha dimostrato di ignorare le regole e il diritto costituzionale. L’uscita del quantitative easing e l’inizio del lungo addio di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea, che arriverà a termine nel novembre 2019 e che è cominciato il 19 febbraio con la designazione alla vicepresidenza della Bce del ministro delle Finanze spagnolo Luis de Guindos. Una scelta che aumenta le probabilità che al posto di Draghi arrivi un esponente dell’Europa del Nord, il falco tedesco presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Un’Italia instabile e senza più l’intervento della Bce dovrebbe scatenare le attenzioni degli speculatori. Invece non è accaduto.

Il secondo numero di questo mese è quattro. Sono le volte che il Consiglio dei ministri si è riunito dopo lo scioglimento delle Camere: il 12 e il 19 gennaio, l’8 e il 22 febbraio. Per avere un’idea, soltanto nel mese di dicembre le riunioni a Palazzo Chigi furono sette. Nel primo caso il Cdm è durato dalle 12.15 alle 12.27 del 12 gennaio, per discutere di leggi regionali da impugnare o non impugnare: dodici minuti. Il secondo Consiglio è durato dalle 11.13 alle 11.43: mezz’ora per parlare di statuti regionali, normativa anti-riciclaggio, ordinamento penitenziario, servizi trasfusionali, zootecnia, Istituto superiore di Polizia, previdenza della Guardia di Finanza, nomine. Il terzo Consiglio dei ministri è durato dalle 15.44 alle 16,24. Fanno 82 minuti in tutto, in due mesi meno di un’ora e mezzo, il tempo di una partita di calcio o di un film, cui va aggiunto l’ultimo Consiglio dei ministri del 22 febbraio. Il governo di Paolo Gentiloni è, come si dice, nella pienezza dei suoi poteri: sul piano formale non ha mai ricevuto un voto parlamentare contrario e non si è mai dimesso. Ma l’assenza di attività governativa durante la campagna elettorale sta a dimostrare che per il suo governo ci sono limiti di azione. In questo limbo, per esempio non sono stati approvati i decreti attuativi della riforma del diritto fallimentare, una delle più importanti della legislatura appena finita. C’è la consapevolezza che il governo Gentiloni non può proseguire oltre il 4 marzo, come se il voto non avesse alcun peso. Non c’è un governo Gentiloni per il dopo-elezioni, senza un reincarico o una reinvestitura da parte di Mattarella.

Anche lo scenario della grande coalizione Forza Italia-Pd, il più gettonato fino a qualche settimana fa, esce indebolito dalla campagna elettorale, forse eliminato. I numeri per l’alleanza non ci sono, stando alle rilevazioni dei sondaggi. E non c’è neppure un contesto politico che possa giustificare un’intesa tra il partito di Berlusconi e il partito di Renzi. C’è, al contrario, un’alleanza di Forza Italia con la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni che si è cementificata nei collegi elettorali e che sarà difficile da spezzare dopo il voto, soprattutto se il centrodestra dovesse raggiungere un risultato vittorioso o quasi. Il modello della grande coalizione è in crisi anche nella sua patria d’elezione, la Germania che il 4 marzo aspetta un altro voto, la consultazione interna tra i militanti della Spd, chiamati a dare il via libera al nuovo governo con la Cdu-Csu di Angela Merkel. Il sì appare ancora scontato, ma la formula si è esaurita. I socialdemocratici porteranno a casa un bottino di poltrone ministeriali insperato, ma i sondaggi li danno in picchiata, superati dai nazionalisti di destra di Afd, Alternative für Deutschland. Un sorpasso che in vista delle elezioni europee del 2019 sarebbe devastante.

Rispetto all’inizio, la campagna elettorale ha cambiato il volto del Movimento 5 Stelle. Incontrare in queste settimane ambasciatori di Paesi europei, presidenti di associazioni, sindacati, imprenditori, dirigenti di partecipate statali significa ripercorrere le orme di Luigi Di Maio. Ovunque ci sia un potere da rassicurare, il candidato premier di M5S è già passato. Qualcuno è arrivato a raccontarmi che lo staff di Di Maio è l’unico ad applicare un rigido cerimoniale agli incontri, lasciando stupiti gli interlocutori che si aspettano una sequela di attacchi e invece si ritrovano di fronte a un’offerta di disponibilità. Da movimento anti-sistema il Movimento 5 Stelle si candida a fare da architrave del sistema. Da forza destabilizzante si è trasformato in soggetto tranquillizzante. Dal giuramento di non allearsi con nessuno è passato alla richiesta di un incarico di governo, alleato forse con tutti.

Di Maio ha fatto una campagna elettorale da visconte dimezzato, metà di lotta in piazza e sui social e metà di governo negli incontri riservati, poi, dopo il 4 marzo, bisognerà scegliere.

Dimezzato, come il personaggio di Italo Calvino, è anche il centrodestra guidato da Berlusconi. Una vittoria lo costringerà a decidere sulla propria identità: un governo Tajani con Salvini vice-premier? Matteo Renzi è il più dimezzato di tutti, per lui il 4 marzo può essere l’ultima puntata sulla ruota della fortuna, poi si cambia, in caso di rimonta e soprattutto in caso di sconfitta. Il partito di Renzi potrebbe uscire ad esempio dal Pse, il Partito socialista europeo, per costruire una nuova formazione in vista delle elezioni del 2019 con En Marche del presidente francese Emmanuel Macron e di Ciudadanos di Albert Rivera in Spagna. I neo-centristi che vogliono riscrivere le regole e i trattati Ue e che sconquassano il bipolarismo popolari-socialisti.

In chiave italiana i partiti e i leader dimezzati sono all’ultimo giro, poi dovranno rimettere insieme i cocci. Ovvero disegnare un nuovo sistema politico, di cui cominceremo a intuire i contorni dopo il 4 marzo: senza più un polo legato alla famiglia della sinistra di governo europea, con un partito populista destinato a trasformarsi in un corpaccione indistinto pronto a tutto, con il centrodestra che si avventura nel dopo-Berlusconi o nel senza Berlusconi.

La scomparsa dei partiti della Seconda Repubblica, dopo quella traumatica dei partiti della Prima venticinque anni fa, nel 1992-93. Con un probabile governo assembleare, un Parlamento che fa partire un governo senza maggioranza o con una maggioranza molto risicata. Fu la formula inventata nel 1976, con il governo Andreotti della non-sfiducia, si reggeva sulle astensioni dei partiti dell’arco costituzionale, Pci compreso. Ma c’era una forte classe dirigente che guidava il processo, nella stagione in cui il sistema dei partiti cominciava a mostrare qualche crepa. Il nostro Stato, il nostro sistema non esiste senza i partiti, nella Costituzione di settant’anni fa sono i partiti la password, il codice di accesso, la formula magica che fa girare tutto, come ha notato il 12 febbraio il costituzionalista Massimo Luciani durante un dibattito con Giuliano Amato: «Il soggetto dell’attuazione della Costituzione è il partito politico, tramite di esso i cittadini associati determinano la politica nazionale. Senza i partiti, l’attuazione della Costituzione è sospesa». Spariti i partiti, ben prima del 1992-93, è finito in crisi il sistema che sui partiti si fondava e che non è riuscito a darsi un altro principio d’ordine: né il leaderismo, né il presidenzialismo. Il 4 marzo sarà un’altra tappa di questa lunga crisi. E al presidente Mattarella sarà richiesto un intervento di carattere non solo politico, ma anche costituzionale.

C’è un terzo numero per leggere la campagna elettorale, è 195. Il prezzo di 195 euro a tonnellata di rifiuto smaltito, fissato dall’ex camorrista Nunzio Perrella con i suoi interlocutori della regione Campania di fronte alle telecamere nascoste di fanpage.it. Discutibile il metodo, anzi discutibilissimo, usare un boss per corrompere politici a fine giornalistico, ma il risultato è quello descritto dal presidente dell’anti-corruzione Raffaele Cantone in un’intervista al “Mattino” (20 febbraio): «Al netto delle valutazioni sul metodo adottato, viene illuminato un sistema opaco. Dal punto di vista del risultato rientra nella cosiddetta funzione del cane da guardia propria del giornalismo d’inchiesta... Dopo l’emergenza della Terra dei Fuochi, abbiamo creduto che certi meccanismi di smaltimento illegale appartenessero al passato. Non stiamo parlando di smaltimento privato, ma di smaltimento gestito dal pubblico. Ciò mi ha lasciato agghiacciato».

Tutto questo avviene al Sud, nella Campania decisiva per il risultato del 4 marzo, in quella terra di mezzo tra criminalità, mafia e politica che è stata dimenticata nonostante il manifesto dell’Espresso per la politica pulita, firmato da tutti i capipartito, o quasi.

Parole, opere, omissioni. Tutti esaltano, giustamente, il boom degli ascolti di Raiuno in queste settimane. Con il festival di Sanremo diretto da Claudio Baglioni, la fiction su Fabrizio De Andrè magnificamente interpretato da Luca Marinelli, la fiction sul commissario Montalbano che attrae quasi uno spettatore su due. E l’informazione? La politica? Meglio Luca di Nicola Zingaretti, ritiene il pubblico, distratto, in fuga da questa campagna elettorale, la più inutile. La più violenta degli ultimi anni, anche: gli spari di Macerata, l’aggressione contro il segretario di Forza Nuova di Palermo seguita da un attacco contro i militanti di Potere al Popolo a Perugia, e poi la moltiplicazione di atti intimidatori, come l’irruzione nello studio tv di Giovanni Floris. Chiamiamo fascismo l’annullamento fisico dell’avversario politico, inerme e disarmato, da qualunque parte arrivi. La rabbia e la violenza che raccontano qualcosa di profondo, sotto la superficie di fine campagna. ---

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