sabato 5 aprile 2014

Guerra e verità La Crimea e il Diritto Internazionale

Le norme internazionali sono esiti negoziali e vincolano in modo inequivocabile poco o nulla. Quel diritto è un'istantanea, suscettibile di ritocchi. 
di Alessandro Cisilin

Fuori, i rulli di tamburi, le minacce, le sanzioni. Dentro, la pacifica festa popolare, ben più estesa e compatta rispetto ai pronostici occidentali calibrati tra retaggi da Guerra Fredda, vuoti di memoria e sociologie inchiodate ai censimenti.
I conti non tornano. La portata plebiscitaria del referendum che ha restituito la Crimea alla Madre Russia, a sessant'anni dal 'dono' di Krusciov a Kiev, è tale da trascendere l'immaginario 'etnico' di una spaccatura nazionalistica locale. Non hanno vinto i russi contro gliucraini. Tutti hanno votato sostanzialmente la stessa cosa. E perfino i cosiddetti tatari, che includono gruppi, perlopiù sunniti, di origine mongola o caucasica, si sono recati alle urne per circa il 50%, optando largamente per Mosca, nonostante il pregresso di numerose guerre e deportazioni, nonché il perdurante timore - ufficialmente ribadito dalla loro assemblea (Qurultay) - di un rinnovamento di antiche persecuzioni......


L'Occidente si rispolvera tale, muovendo compatte, tra le cancellerie euro-americane e il quartier generale della Nato, parole di sdegno, esercitazioni militari, rivendicazioni di un 'diritto internazionale' che sarebbe stato violato dall' 'invasione' russa della penisola.
A parte la volontà quasi unanime espressa dalla popolazione locale, non c'è giurista o diplomatico che sia ignaro dell'inconsistenza del 'diritto' declamato. Le norme internazionali sono esiti negoziali e vincolano in maniera inequivocabile poco o nulla.
In altre parole, quel diritto è sostanzialmente un'istantanea, suscettibile di continui ritocchi, che fotografa i precedenti storici e gli accordi, scritti e non, che li seguono.
Il Cremlino ha più volte tirato in ballo, nelle schermaglie diplomatiche dei mesi scorsi, il caso del Kosovo, dichiaratosi unilateralmente indipendente dalla Serbia solo sei anni fa, con l'immediato riconoscimento formale dalle cancellerie occidentali e il successivo via libera da parte della Corte di Giustizia dell'Onu, sebbene in tal caso lo strappo non passò attraverso un via libera popolare pressoché unanime, bensì da un voto parlamentare boicottato dalla rilevante minoranza serba.
Le suggestioni balcaniche, e le prese di posizione di segno opposto da parte dei paesi della Nato rispetto alla crisi ucraina, vanno anche più addietro, coinvolgendo ad esempio la Croazia. La notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1992 è rimasta uno dei più enigmatici misteri della recente storia diplomatica continentale. I dodici leader dell'allora Comunità Europea giunsero al vertice con un solo sì al riconoscimento della Repubblica secessionista. Era quello della Germania di Kohl, sostenuta per altro dal Vaticano. Gli altri undici titubavano, trainati dal secco no di Parigi e Londra, convinti che un via libera avrebbe trasformato gli scontri in corso nella carneficina di una guerra aperta. Quel che appunto è stato.
Sulle sponde del mar Nero invece le violenze non ci sono state. Erano esplose a Kiev e nell'ovest del paese. Nel contesto di una legittima protesta popolare contro un potere corrotto e in favore di un avvicinamento all'Europa si sono scatenati cecchini di oscura identità e le milizie dell'estrema destra del Pravij Sektor. «Sì, sparavano anche ai poliziotti» ammette perfino Ruslana, la pop-star di 'Euro Maidan'. Allora l'Occidente non batté ciglio dinanzi a mesi di occupazione armata di palazzi governativi centrali e periferici e all'uccisione di decine di poliziotti, e non esitò a congratularsi con l'allontanamento del presidente Yanukovic e a riconoscere il nuovo governo così edificato. Né aveva esitato a trattare un accordo di associazione - pomo della discordia che innescò la rivolta - col precedente esecutivo, ritenendolo a suo tempo parzialmente adeguato ai necessari 'fondamentali democratici', salvo poi includerlo tra i regimi più repressivi.
Naturalmente nessuna democrazia europea avrebbe rinunciato all'uso massiccio della forza dinanzi a tali violenze né all'adozione di leggi speciali per fermarle.
E naturalmente qua il tema è un altro. Non il diritto internazionale ma i copiosi interessi geopolitici e il gioco pericoloso della loro difesa.




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