Mario Giordano 07.01.2018
Marina Ripa di Meana non voleva morire. L’ ha sempre detto, l’ ha sempre testimoniato. Marina Ripa di Meana voleva vivere con la sue colazioni al Grand Hotel, i suoi cappellini a forma di ragno, i suoi eccessi, i suoi entusiasmi sgargianti come le sue mise. Sfruttare la sua estrema debolezza per trasformarla da regina della mondanità a regina dell’ eutanasia è, dunque, il torto più grande che le si possa fare.
Marina Ripa di Meana non voleva morire. L’ ha sempre detto, l’ ha sempre testimoniato. Marina Ripa di Meana voleva vivere con la sue colazioni al Grand Hotel, i suoi cappellini a forma di ragno, i suoi eccessi, i suoi entusiasmi sgargianti come le sue mise. Sfruttare la sua estrema debolezza per trasformarla da regina della mondanità a regina dell’ eutanasia è, dunque, il torto più grande che le si possa fare.
Eppure è quello che è accaduto con il video-testamento registrato a cura dell’ istituto Luca Coscioni e prontamente diffuso da Radio Radicale, a cadavere ancora caldo. Un filmato terribile: faceva impressione, infatti, vedere quella donna sempre così vivace, protagonista, eccentrica ed esagerata, ridotta lì, immobile e silente, puro fantoccio di uno spot altrui. Evidentemente neppure lei, che pure ha rotto ogni regola e ogni convenzione, è riuscita a ribellarsi all’ ultimo conformismo dominante. Il conformismo del Viva la Morte e dei suoi avvoltoi.
Se li vedete ronzare attorno a voi, fate attenzione: gli avvoltoi della morte sono implacabili. Appena intravvedono qualcuno che sta malaccio (un dj paralizzato, un barista con la sclerosi multipla, una signora delle terrazze distrutta dal cancro) piombano nella sua stanza di dolore e si occupano che il trapasso avvenga a favor di telecamera, in modo che possa diventare un spot per l’ eutanasia....
E, ovviamente, per la loro istituzione. Dona il 5 per mille e accompagnane un altro alla tomba: per quanto mi riguarda vorrei lasciare detto fin d’ ora che, quando verrà la mia ora, voglio dentro la mia stanza chiunque tranne quelli dell’ istituto Luca Coscioni. Soprattutto se hanno in mano un microfono per raccogliere la voce che non ho più. E ancor di più se fanno parlare un altro al posto mio, magari dicendo cose che non avrei mai detto. Se qualcuno vorrà seguirmi, oserò anche proporre un’ associazione anti-Coscioni. La chiameremo No Av, no agli avvoltoi attorno ai letti di dolore.
Trovo, infatti, che sia ripugnante intrufolarsi nelle stanze di uno che sta morendo, sfruttare la sua debolezza, l’ inevitabile prostrazione, la fragilità estrema in cui versa chi sa di essere arrivato all’ ultimo passo, per trasformare tutto in una réclame: Dash lava più bianco, con Coscioni si muore meglio. La figura di Maria Antonietta Coscioni, vedova di Luca, che legge quel testo così conformista, così banale, così lontano dall’ esplosiva originalità di Marina Ripa di Meana, usando come predellino il corpo devastato di quest’ ultima, è veramente ripugnante.
Oltre che di una violenza spaventosa. Membra sofferenti in attesa di diventare cadavere ridotte a muto elemento di scena per uno spot a favore della morte: è intollerabile, non vi pare? Eppure siccome lo si fa in nome della nuova funebre ideologia, viene fatta passare come iniziativa nobile. In grado di nobilitare tutto il resto.
Infatti, ci avete fatto caso?
Marina Ripa di Meana, all’ improvviso, viene trattata dagli editorialisti nostrani come se fosse una fine ideologa, un’ intellettuale sopraffina, una specie di Norberto Bobbio del fine vita, il biotestamento applicato al jet set.
Quelli che fino a ieri la sbertucciavano e la consideravano meno di nulla, ora le dedicano devoti omaggi. Il messaggio è chiaro: se in extremis ti converti all’ eutanasia, ti saranno perdonati i peccati di un’ intera vita frou frou.
Avanti, che aspetti? Firma il trapasso con le Onoranze Coscioni e puoi guadagnarti il paradiso del Politicamente Corretto, sarei perfino riabilitato e santificato nel Pantheon di Repubblica. Una volta accadeva così con i peccatori mangiapreti, ricordate?
In punto di morte entrava il prete e usciva annunciando la conversione. «È morto in grazia di Dio». Magari anche lì non era vero, si capisce. Però, almeno, i sacerdoti non hanno mai preteso di filmare il tragico epilogo e di trasformarlo in un carosello Tv.
Gli avvoltoi della morte invece sì. Filmano tutto. Filmano e diffondono. Il mondo deve sapere che Marina Ripa di Meana ha pensato al suicidio assistito, il mondo deve sapere che Marina Ripa di Meana si è affidata alla sedazione e alle cure palliative, anche se – dice la lettera-testamento – non sapeva che cosa fossero.
Cosa che, per altro, appare abbastanza improbabile: possibile che una persona che da 16 anni combatte contro il cancro, e che dunque conosce ospedali e reparti oncologici come le sue tasche, non sia a conoscenza delle cure palliative? Davvero ci vuole l’ associazione Coscioni per scoprirle? Qualche giorno fa una mia amica mi ha raccontato di suo padre, appena morto per un tumore nel reparto cure palliative di Brescia. Lui era carabiniere, lei è una semplice impiegata. Nessuno dei due ha mai girato il mondo, né frequentato intellettuali, né scritto libri. Eppure sono stati informati di tutto. Dai medici. Senza bisogno di girare in cambio nessuno spot a favore dell’ associazione degli Avvoltoi, da cui per fortuna sono riusciti a sfuggire.
Il momento del trapasso è sacro, bisogna averne rispetto. I medici ce l’ hanno, almeno nella stragrande maggioranza dei casi. La signora Coscioni che legge la lettera di una donna che sta per morire, invece no. E questa corsa al cadavere da esporre per mettere un tassello in più nella cultura della morte mi fa paura. Anzi, mi fa orrore.
Fra l’ altro di tutto quel discorso quello che più rimane in testa, quello su cui più non a caso hanno titolato i giornali, è il fatto che Marina Ripa di Meana avesse pensato al suicidio in Svizzera. E può anche essere vero, si capisce: chi nelle sue condizioni non avrebbe fatto un pensiero terribile come quello? Ma doveva rimanere un pensiero, per l’ appunto. Una confidenza, un momento di fragilità.
Non andava messo in mostra, accanto a quel corpo straziato. Non andava fatto, se non altro, per rispetto di quello che Marina Ripa di Meana ha sempre testimoniato e raccontato. E cioè della sua voglia di vivere, della sua voglia di lottare, fino all’ ultimo, per non morire, per guarire o almeno per resistere, della sua voglia di combattere, insieme ai medici, contro i ciarlatani, sottoponendosi alle cure più dure, ma aggrappata fino in fondo alla vita di cui è stata sempre una straordinaria, prorompente, esagerata testimonial. Almeno fino a quando non è caduta nelle braccia degli avvoltoi della morte. Che l’ hanno usata senza pietà.----
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