mercoledì 26 aprile 2017

di Luigi Copertino - PATRIOTI CONTRO GLOBALIZZATORI – IL NUOVO LEPENISMO –

Risultati immagini per foto insieme di La Pen e macron

PATRIOTI CONTRO GLOBALIZZATORI
sul nuovo Lepenismo: radici storiche e prospettive future
E’ molto improbabile, anche se non impossibile, che Marine Le Pen riesca a conquistare l’Eliseo. L’Union Sacrée socialista-liberale si è già compattata contro di lei, anche se il candidato di estrema sinistra Mélenchon non si è esplicitamente pronunciato contro la Le Pen lasciando i suoi elettori alla loro coscienza. Del resto, non deve apparire strano, dato che – a parte il multiculturalismo e l’ecopacifismo – il programma della Gauche di Mélenchon coincide per molti aspetti con quello del Front National, dall’uscita dalla Nato alla riconquista della sovranità monetaria, dall’antieurocratismo al controllo governativo sulla Banca centrale, dall’anticapitalismo finanziario alla difesa del patrimonio pubblico.
Quel che, però, è emerso di importante in questa tornata elettorale francese, comunque essa vada, è l’affermazione di una forza politica nazionale e sociale la quale, a parte la strumentalità della questione immigrazione (1), si denota come inserita in una consolidata tradizione politica francese ed europea, vicina al patriottismo putiniano, e, quindi, molto più genuina del vuoto simulacro del trumpismo americano...
.
Perché se è vero che il Front National nasce negli anni settanta del secolo scorso da fuoriusciti di Ordre Nouveau, affondando dunque le sue radici nella destra radicale antigollista dell’Oas, il piccolo fascismo pied-noirs dei rimpatriati algerini di nazionalità francese che si opponevano alla decolonizzazione, e se è vero che Jean Marie Le Pen, il padre di Marine ed indiscusso leader del partito fino alla successione della figlia, proviene dal poujadismo (2), è pur vero che il Fronte rappresenta l’erede ideologico della destra radicale socialista nazionale transalpina.
Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell la culla di nascita dell’ideologia fascista è proprio la Francia a cavallo tra il XIX ed il XX secolo (3). E’ in Francia che i maurassiani incontrano i proudhoniani in nome della critica alla Rivoluzione borghese del 1789. E’ sempre in Francia che il sindacalismo rivoluzionario, nato dall’elaborazione filosofica di Georges Sorel, Hubert Lagardelle, Gustave Hervé ed Édouard Berth ed influenzato dal vitalismo irrazionalista del filosofo ebreo Henri Bergson, si incontra con il nazionalismo integrale, monarchico ma “ateo-cristiano” a base filosofica comtiana, di Charles Maurras. Ed è ancora in Francia che le leghe fasciste, fuoriuscite dalla più conservatrice Action Française, come il Faisceau del maurassiano proudhoniano Georges Valois ed il Parti Populaire Français dell’ex comunista Jacques Doriot ma anche il neo-socialismo di Marcel Déat, fanno propria l’ideologia economica pianificatrice, il “pianismo”, del socialista belga Henri De Man.
La migliore intellettualità francese del tempo civettò apertamente con il fascismo transalpino, dallo scrittore Pierre Drieu La Rochelle al giornalista poeta Robert Brasillach, dal pensatore Thierry Maulnier al romanziere Lucien Rebatet, dal futuro storico cattolico Daniel-Rops al futuro maestro del pensiero liberale d’oltralpe Bertrand de Jouvenel, dal filosofo cattolico Jacques Maritain allo scrittore anch’egli cattolico Georges Bernanos, dal visionario nichilista anarco-nazionalista Louis-Ferdinand Céline al medievalista Philippe Ariès e altri ancora. Al clima mistico-politico nel quale emerse il fascismo francese – storicamente i fascismi si sono sempre imposti a seguito di una crisi spirituale ed ad un tempo sociale – un grande contributo, involontario ma determinante, lo diede anche il grande Charles Peguy, soprattutto con la sua opera “La Città armoniosa” nella quale espose le idealità di un socialismo non marxista ma sindacalista, comunitario, spirituale, molto vicino alle idee di Sorel e Lagardelle ma anche, per certi profili, a quelle di Maurras. Molti intellettuali, pur non esponendosi troppo, condivisero, segretamente, simpatie fasciste per via del sindacalismo rivoluzionario. Tra questi la filosofa troskista e “spiritualista” Simone Weil, chiamata ad immaginare l’organizzazione della società francese del secondo dopoguerra, indicò nel suo saggio “La prima radice” una prospettiva indubbiamente di tipo sindacal-corporativo sebbene anarchico-libertario-comunitaria piuttosto che statalista.
Il 6 febbraio 1934, a seguito di un grande scandalo di corruzione ministeriale, a Parigi, il parlamento francese fu assalito da manifestanti in rivolta che volevano espugnare il luogo del potere finanziario ed antipopolare e del malaffare. Nei libri di storia, usati nelle nostre scuole, è ancora scritto che la rivolta fu organizzata dalle leghe fasciste, in un tentativo di rovesciare la legalità democratica. Durante quei moti di piazza caddero sedici dimostranti uccisi dalla polizia. Robert Brasillach fu testimone oculare dell’evento nel quale egli vide la possibile realizzazione del suo “fascismo immenso e rosso” (4). In quella giornata, infatti, Brasillach ebbe modo di assistere alla non impossibile convergenza ideale e rivoluzionaria tra militanti fascisti e comunisti. Sì, perché non furono solo le leghe fasciste a scendere in piazza, a Parigi, quel giorno ma anche il Partito Comunista Francese, fianco a fianco con i fascisti per colpire il comune ed odiato nemico liberal-borghese.
Brasillach si ricordò di quella epica giornata quando – costretto a consegnarsi a causa del ricatto dell’arresto dell’anziana madre – fu processato per collaborazionismo (il processo durò un solo giorno e la sentenza emessa in soli venti minuti) e condannato a morte (De Gaulle rifiutò la grazia, pur sollecitata da un pubblico appello di tutta la cultura francese, compresa quella antifascista) e, la sera prima della fucilazione – fu passato per le armi il 6 febbraio 1945 – in una delle sue ultime poesie, lasciò scritto «Con undici anni di ritardo sarò dunque fra voi? Penso a voi, stasera, o morti di febbraio» (5).
Pierre Drieu La Rochelle descrisse, a sua volta, le speranze incendiarie di quella giornata attraverso il protagonista autobiografico del suo, forse, più noto romanzo, Gilles, facendo esprimere dal suo alter ego l’entusiasmo del militante fascista nel ritrovarsi accanto, uniti nelle medesima lotta, ad uno sconosciuto membro del Pcf e la delusione, che seguì all’entusiasmo, per le incertezze di Charles Maurras e dei vertici del partito Comunista, timorosi di un moto spontaneo ed incontrollato delle masse, a siglare un patto comune di azione per rovesciare il governo corrotto. A seguito di quegli eventi, Drieu, che intanto aveva aderito al Partito Popolare di Doriot, pubblicò il suo saggio “Socialismo fascista” nel quale confessò «So perfettamente di essere fascista, dal 6 febbraio. E so bene in cosa consista. Consiste nel voler fare il socialismo senza sbraitare che lo si farà, ma al contrario nel farlo, senza un programma astratto, realizzando tuttavia qualcosa ogni giorno. Essere fascista significa sapere che non si può far altro che il socialismo, che bisogna mettere in galera i capi attuali dell’economia, irresponsabili di fronte alla politica, e i capi politici, irresponsabili sul piano economico, rimpiazzandoli con capi che faranno responsabilmente l’una e l’altra cosa».
Secondo Sternhell le radici ottocentesche del nazionalismo sociale francese devono essere cercate nel bonapartismo e nel boulangismo ed in particolare nel nazionalismo popolare di Maurice Barrès e nel coagulo di umori, istanze sociali, revanscismo nazionalista, che si realizzò intorno all’“Affaire Dreyfus”.
«il nuovo nazionalismo – scrive lo storico israeliano – esprime bene, sin dalla fine dell’ottocento, il diffuso senso di rivolta contro lo spirito della rivoluzione francese. Il fossato che separa Corradini da Mazzini, oppure Barrès, Drumont, Maurras da Michelet, dà la misura della distanza che intercorre tra il nazionalismo giacobino e quello “della terra e dei morti”, secondo la definizione di Barrès» (6).
Si tratterebbe, quindi, di un nuovo nazionalismo, agli antipodi di quello che aveva tentato, dalla Rivoluzione dell’89 alla Comune, una sintesi tra la “religione della patria” e la “religione dell’umanità”. Questo nuovo nazionalismo considera la nazione come una comunità organica fondata su criteri di appartenenza culturale e non più una collettività contrattualista di liberi individui.
Su questo giudizio sternhelliano, tuttavia, non siamo affatto concordi. E’ possibile, infatti, affermare questa antitesi – fascismo vs modernità – solo se si confonde il Sovra-razionale con il Sub-razionale, il Metafisico con il Sub-fisico (l’elementare di cui parla Ernst Jünger), l’Anti/Ante-illuminismo con il Post-illuminismo, l’Anti/Ante-Moderno con il Post-moderno. Errore che fanno in molti, anche, ad esempio, Zygmunt Bauman, i quali non si avvedono della continuità tra moderno e postmoderno nel senso che l’ultimo porta alla luce ciò che il primo semplicemente nascondeva sotto la dura, ma esterna, corazza razionalista.
L’irrazionalismo, l’anti-illuminismo, l’antimaterialismo, dei movimenti fascisti non sono un recupero della Tradizione metafisica, del Sovra-razionale, ma sono l’esito naturale – sebbene imprevisto da Voltaire e soci – del razionalismo, dell’illuminismo, del materialismo, del moderno. I fascismi nascono dal dissolvimento post-razionalista delle certezze della modernità razionalista. Essi rappresentano l’annuncio, all’interno della modernità ancora solida, dell’imminenza della post-modernità liquida, nascente dalla stessa modernità come l’acqua nasce dal ghiaccio desolidificante, che avrebbe poi trovato la sua più ampia realizzazione, dopo la loro sconfitta politica e militare, in quella che Augusto Del Noce ha chiamato “epoca profana della secolarizzazione” ossia in quelli che sono i nostri giorni, l’età del neo-spiritualismo nichilista di massa. Non a caso i fascismi e gli intellettuali fascisti attingevano ampiamente alle psicologie del profondo.
I fascismi non sono, dunque, una reazione alla Modernità illuminista ma ne sono l’esito irrazionalista, sub-razionalista, persino a modo loro nichilista (Hermann Rauschning definì il nazismo una “rivoluzione del nichilismo”) sicché la loro è la contestazione del figlio – degenere quanto si vuole ma pur sempre figlio legittimo – contro il padre. Il volontarismo, l’antimaterialismo, lo spiritualismo cui si richiamano i movimenti fascisti volgono ad una “mistica vitalista” che non è storicamente e filosoficamente pensabile senza la “mistica razionalista” dell’illuminismo radicato nella tradizione spuria risalente al panteismo spinoziano, all’alumbradismo, al rosacrucianesimo ed alla sua derivazione massonica.
Il richiamo di Barrès alla “terra ed ai morti”, nonostante le apparenze, è molto diverso dallo scenario invocato, per spiegare la differenza tra la nazione giacobina e la patria reale, dal leggendario capo vandeano monsieur de Charette: «La nostra patria – egli proclamò – per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. (…). Ma la loro patria cos’è per loro? … Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi».
In apparenza siamo di fronte allo stesso richiamo alla “terra ed ai morti” e non è escluso che Barrès avesse attinto alle parole di Charette. Ma, in realtà, siamo agli antipodi perché Charette aggiungeva lapidario: «La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro Re (…). E’ vecchio come il diavolo, il mondo che essi dicono nuovo e che vogliono fondare senza la presenza di Dio … Ma di fronte di questi demoni che rinascono ogni secolo, noi siamo la giovinezza, Signori! Siamo la giovinezza di Dio» (7).
Per Charette, è evidente, la patria, la terra, non si dava senza il Dio trascendente mentre per Barrès, come più tardi per Maurras l’“ateo-cristiano” ed il “positivista cattolico”, quel che residua è solo la “terra”, il solo popolo nel senso sociologico con il quale Ernest Renan aveva affermato che “la Nazione è un plebiscito quotidiano”.
Ecco perché ha ampie ragioni Pierre Chaunu, il noto storico docente della Sorbona e di fede protestante, quando fa osservare che: «La reazione della Vandea è religiosa. Il detonatore fin dal giugno del 1790, prima ancora della Costituzione Civile del Clero – 12 luglio 1790 –, è costituito dalla pretesa da parte delle autorità dei distretti di regolamentare e di programmare il culto secondo le norme di una religione civica. L’affare dell’“incensamento”, che deve essere riservato all’“Essere Supremo”, rivela l’“erastianismo” dei piccoli capi politici che si credono dei riformatori, felici di umiliare la pietà degli umili» (8).
Ha visto giusto, invece, Sternhell a proposito dell’orientamento sociale, se non addirittura socialista, del nuovo nazionalismo di fine ottocento precursore dei fascismi novecenteschi. Perché, nell’ottica di questo nuovo nazionalismo, se il popolo è la sostanza vitale della comunità nazionale fondata sui vincoli etnici e della tradizione culturale (che ricomprende, ma solo strumentalmente quale elemento storico e culturale, anche quella religiosa), questo tipo di nazionalismo non può accettare che resti senza soluzione la questione sociale. Secondo Sternhell, il boulangista e bonapartista Maurice Barrès è uno dei primi a comprendere che un movimento nazionale può esistere solo se è in grado di assicurare l’integrazione di tutti i ceti sociali nel corpo organico della Nazione. Marxismo e liberalismo sono rifiutati, come due aspetti dello stesso male, proprio perché alimentano il conflitto sociale e favoriscono così la disgregazione dell’unità nazionale. Il nuovo nazionalismo si presenta apertamente come un nazionalismo sociale o un socialismo nazionale.
Il termine “socialismo nazionale” avrà successo. Nel 1910 è usato, nell’ottica del “socialismo per tutte le classi della nazione italiana”, dal padre del nazionalismo italiano, Enrico Corradini, cui corrispose dal versante sindacalista rivoluzionario l’“arcangelo del lavoro” Filippo Corridoni. Questo “socialismo per tutta la nazione” è esattamente lo stesso che ritroveremo tra gli slogan delle leghe fasciste francesi negli anni ’30 del XX secolo (9). A partire dal secondo decennio del secolo scorso, con qualche accenno già ottocentesco, ritroviamo il termine “socialismo nazionale” in Germania nell’elaborazione culturale della “Konservative Revolution”, il movimento politico e culturale, intellettuale e di massa, di orientamento comunitarista, che ebbe un ruolo fondamentale nella delegittimazione della Repubblica di Weimar e nella preparazione del clima epocale che favorì l’ascesa del nazional-socialismo.
«sul piano dell’ideologia, – scrive ancora Sternhell – il fascismo rappresenta la sintesi di un nazionalismo organico e tribale con quella revisione volontaristica e anti-materialistica del marxismo iniziata, alla fine del XIX° secolo, da Georges Sorel e dai sorelisti di Francia e d’Italia. Alla nuova sintesi socialista-nazionale, i seguaci di Sorel apportano anche elementi tratti da Proudhon: il culto della guerra, naturalmente, ma anche quello della famiglia (in cui Proudhon vede un’istituzione mistica), dell’indissolubilità del matrimonio, del rispetto della proprietà privata frutto del lavoro», laddove tuttavia Sternhell non sottolinea abbastanza che la difesa proudhoniana della proprietà era la difesa della piccola proprietà, concreta e reale, frutto della fatica intellettuale e manuale, dall’avidità del grande capitale di rapina ed in particolare del capitalismo finanziario (10).
Da questa sintesi, che vede confluire nei movimenti fascisti i nazionalisti, i futuristi, i monarchici, i repubblicani, i sindacalisti rivoluzionari ed i socialisti massimalisti, deriva l’impossibilità di incasellare il fenomeno fascista nelle tradizionale classificazione destra-sinistra. Quindi non è né un caso né un pretesa abusiva che la maggioranza dei movimenti della destra radicale da sempre rifiutano la collocazione a destra nello scacchiere politico, dato che in detto scacchiere la “destra” è la destra economica, liberale, conservatrice, anti-popolare, capitalista.
La stessa Marine Le Pen, nel suo discorso immediatamente dopo i risultati del primo turno elettorale in Francia, ha fatto esplicito cenno alla sua come ad una destra di popolo che si oppone al “regno sporco del denaro” rappresentato dal suo avversario Macron, il banchiere lib-lab (una sorta di Blair o Renzi francese) e uomo dell’establishment globalista.
Ma c’è un altro passaggio del discorso della Le Pen che dovrebbe essere fortemente sottolineato e si tratta del richiamo esplicito, a suo modo sorprendente date le radici anti-golliste del Front National, al generale Charles De Gaulle, preso ad esempio di statista cosciente del primato della Comunità Nazionale contro le forze transnazionali del capitalismo finanziario e dell’eurocrazia globalista.
La citazione di De Gaulle – allievo ed amico/nemico del maresciallo Philippe Petain, eroe di Verdun e collaborazionista di Vichy, che il Generale, a differenza di quanto non fece per il povero Brasillach, graziò dalla condanna a morte a guerra finita – non è stata solo una captatio benevolentiae verso l’elettorato gollista. E’, invece, molto significativa dell’orientamento che Marine Le Pen vuole dare al Front National.
Infatti il Gollismo, nel secondo dopoguerra francese, ha rappresentato, sotto diversi profili, la continuazione democratica di almeno alcune delle linee ideali e culturali del nazionalismo sociale della prima parte del secolo scorso. Secondo Lawrence D. Kritzman «il gollismo può essere visto come una forma di patriottismo francese», il cui “principio fondamentale” è una “certa idea della Francia” aspirante ad uno Stato forte che De Gaulle vedeva come “un’entità indomabile”.
Non è un caso che il gollismo si è, a suo tempo, caratterizzato in politica estera come opposizione all’asservimento della Francia agli organismi sovranazionali, siano essi l’Onu o la UE o la NATO, ed alle superpotenze, USA ed URSS, ma anche ai poteri economici e finanziari globalisti – che il Generale chiamava “sinarchismo” – in nome di un rinnovato nazionalismo francese, anche se democratico, e del sovranismo. In politica interna, anche in questo in silenziosa continuità con il “socialismo nazionale”, il gollismo ha messo l’accento sul rafforzamento dell’esecutivo e sulla sfiducia verso i partiti tradizionali e soprattutto sull’elaborazione di una concezione dei rapporti sociali ed economici incentrata sulla “partecipazione” delle forze produttive alla gestione economica e politica della Nazione, che contemplava anche la partecipazione dei lavoratori alla gestione, agli utili ed all’azionariato delle imprese.
Tuttavia messo fuori gioco nel 1968 il vecchio generale, a seguito del maggio parigino – nella sua caduta c’è stato anche lo zampino americano dato che De Gaulle aveva tentato di rendere la Francia indipendente dall’egemonia internazionale del dollaro (i sessattottini, che lo abbiamo compreso o meno, sono stati gli utili idioti del potere globale statunitense) –, i suoi successori, come George Pompidou e Jacques Chirac, hanno spostato il programma gollista su posizioni neoliberiste allineandolo più o meno su quello della destra liberale europea (capitalismo liberista, conservatorismo, atlantismo, europeismo sovranazionale). Il “neo-gollismo”, benché predicasse una Francia forte in un’Europa indipendente, si è dimostrato in realtà globalista e atlantista. Da forza politica della destra sociale, benché democratica, il neo-gollismo è diventato un partito conservatore di destra economica.
Ma il Gollismo originario era altra cosa proprio perché si portava dietro molto della stagione del fascismo francese (11).
Ora, a nostro giudizio, è evidente che Marine Le Pen stia cercando di ricostruire una forza di tipo gollista nel senso originario della parola che ricomprenda anche ampie posizioni del “gollismo di sinistra”, quello, forse, più simile al “socialismo nazionale” dell’anteguerra ma sicuramente aggiornato ai tempi attuali.
Il Front Nazional attualmente, pur non disdegnando di definirsi un partito nazionalista, rifiuta invece la dispregiativa etichetta di “destra populista” per dichiararsi, al contrario, “un grande movimento patriottico né di destra né di sinistra”, categorie politiche che sono ritenute dai lepenisti proprie del paradigma “neoliberale” da rigettare. Alla dicotomia destra/sinistra, Marine Le Pen contrappone quella “élites/popolodominanti/dominatialto/basso” ed ha, in proposito, ottenuto perfino la “benedizione” del nostro Fausto Bertinotti il quale, dandole ragione, ritiene che il successo del Front National, che elettoralmente raccoglie consenso tra i ceti medi impoveriti dal grande capitale finanziario e nella classe lavoratrice abbandonata dal globalismo alla disoccupazione, sia dovuto “alla comprensione di questo cambiamento” del paradigma politico e sociale.
Marine Le Pen, in altri termini, è riuscita a fare, in Francia, quel che la imbelle classe dirigente ex missina di Alleanza Nazionale, irretita dal liberismo godereccio e gaudente berlusconiano, non ha saputo fare in Italia ossia costruire un “neo-gollismo” social-nazionale con forti propensioni di sinistra nazionale.
Se sull’uscita dall’euro, per ragioni elettorali, la Le Pen ha abbassato un po’ i toni, affermando di voler lasciare la decisione al popolo sovrano mediante un referendum, la riconquista della sovranità monetaria resta tra i primi punti del programma del Front National che comprende esplicitamente anche il protezionismo economico e l’uscita dalla NATO in un’ottica euroasiatica alla quale certo guarda con interesse Putin. Sotto questo profilo Marine Le Pen riprende esattamente il programma del Generale De Gaulle che sognava uno spazio di nazioni sovrane e cooperanti da Brest a Vladivostok. Un programma che se punta all’asse “Parigi-Berlino-Mosca”, una sorta di “Nuovo Ordine Europeo”, ricomprende il superamento, proprio in quest’ottica euroasiatica, delle politiche eurocratiche di austerità nonché la pianificazione strategica della reindustrializzazione. Insieme a questo, nel programma del Front National della Le Pen c’è anche, inevitabilmente, quale eredità giacobina tipicamente francese, l’accentramento del potere statale all’insegna della laicità repubblicana ma pure l’accesso ad una sanità di qualità per tutti i cittadini francesi, la priorità nazionale e un piano di sdebitamento pubblico verso i mercati finanziari, ossia verso il capitale finanziario transnazionale privato, da attuare mediante il controllo della Banca centrale per il finanziamento dello spesa statale di investimento. C’è anche, senza dubbio, la revisione degli Accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone ma del resto detti accordi, come ha dimostrato la crisi degli immigrati, non sono stati rispettati quasi da nessuno nell’UE. Su questo versante, il Front National è, tuttavia, esposto alla grave confusione tra problema immigratorio e islam ossia all’incomprensione, pericolosa in politica estera, dei rapporti storici e culturali della Francia e dell’Europa con il mondo mussulmano, da secoli nostro dirimpettaio mediterraneo.
Sotto il profilo del programma economico, quindi, il Front National è senza dubbio antiliberista opponendosi alla mondializzazione dei mercati ed alla finanziarizzazione dell’economia. Non a caso i mercati finanziari tifano apertamente per il loro uomo, Macron. Il Front National auspica ampi piani di investimento pubblico, il ripristino dell’età pensionabile a 60 anni, la redistribuzione dei redditi per via fiscale con l’aumento fortemente progressivo della tassazione, limiti alla circolazione dei capitali e alle speculazioni finanziarie, innalzamento di pensioni e salari minimi e loro indicizzazione mediante un meccanismo di “scala mobile”. Si tratta, con tutta evidenza, di un programma fortemente orientato a sinistra e per questi motivi alcuni osservatori definiscono il Fronte Nazionale economicamente su posizioni “keynesiane” o addirittura apertamente “di sinistra”. Secondo Éric Zemmour, giornalista ed editorialista del quotidiano conservatore Le Figaro, «il FN, dalle presidenziali del 2012, è divenuto un partito di sinistra». Ma in realtà esso non ha fatto altro che recuperare in chiave di gollismo originario il “socialismo nazionale” degli anni ’30, epurato da tutto ciò che di impresentabile poteva sussistervi quale inutile e controproducente strascico dell’epoca ad iniziare dall’antisemitismo.
Sotto questo profilo il Front National ha abbandonato il reaganismo del suo fondatore Jean Marie Le Pen, che nel 1974 si presentava come un “privatizzatore”, per abbracciare l’interventismo sociale ed economico della figlia Marine Le Pen. In proposito, il “parricidio”, ossia l’espulsione dal partito che Marine ha fatto comminare al padre Jean Marie, è stato troppo frettolosamente interpretato come una ripulitura dal tendenziale antisemitismo paterno quando, se senza dubbio è anche quella, ha invece a che fare molto di più con la ritrovata sensibilità social-nazionale del partito. La svolta è datata 2007. In quell’anno aderisce al Front National il comunista Alain Soral, che vi fonda la sua corrente Egalité & Réconciliation, in nome della “sinistra del lavoro, destra dei valori” che in opposizione alla destra finanziaria ed alla sinistra libertaria. A noi italiani lo slogan coniato da Soral dovrebbe ricordare, irresistibilmente, quello un tempo missino che definiva il vecchio Msi come il partito della “destra politica” e della “sinistra sociale”.
I nostri media, espressione della paura dell’establishment eurocratico e globalista, hanno sovente insistito sui rapporti di simpatia e solidarietà tra Marine Le Pen e Vladimir Putin. Il quotidiano Le Monde , giornale dell’intellighenzia globalista di sinistra come il nostro “La Repubblica”, ha pubblicato una inchiesta comprovante il finanziamento del Front National da parte della First Czech-Russian Bank,  di proprietà di Roman Jakubovič vicino al primo ministro russo Dmitri Medvedev ed al presidente Vladimir Putin, in cambio del sostegno all’annessione della Crimea da parte della Russia. Il finanziamento ricevuto è stato del resto pubblicamente dichiarato dal Front National ma l’inchiesta mirava a dimostrare che la cifra ottenuta era maggiore di quella dichiarata. Miserie della nostra stampa sempre pronta a servire personaggi come George Soros, nascondendo i loro misfatti ed i destinatari dei loro finanziamenti, ed ad osteggiare chi si pone contro l’establishment come Marine Le Pen. Che, poi, tra culture politiche affini ci siano intese e che tra partiti e movimenti politici anti-globalisti ci siano collaborazioni ed anche aiuti economici non dovrebbe meravigliare nessuno dato che dall’altra parte, quella delle culture e delle forze politiche pro globalizzazione, si fa e c’è di molto peggio in termini di speculazioni finanziarie e di riciclo del denaro sporco.
Solo gli ingenui ed i moralisti, che di solito sono tali per nascondere le loro nefandezze, possono credere che la lotta politica sia una cosa che escluda mezzi poco etici. Perché, anche se la moralità del fine è cosa sempre fondamentale (una cosa è farsi finanziare per speculare, una cosa è accettare aiuti per un progetto politico di liberazione nazionale e popolare), sui mezzi, data l’imperfezione della natura umana, il vecchio Machiavelli non aveva, purtroppo, tutti i torti.
Ma, al di là dei tentativi di infangamento che il potere mette in atto, quel che più ora conta è osservare attentamente gli sviluppi ideali, culturali programmatici del lepenismo, anche se il Front National non dovesse, come probabile, conquistare l’Eliseo. Perché da quegli sviluppi, sempreché non ci siano annacquamenti e deviazioni filo-liberiste, potrebbero, in futuro, anche sorgere meglio attrezzati movimenti nazionali e sociali, in versione schiettamente democratica, e chissà, forse, dalla loro cooperazione anche una “Jeune Europe”.
Chi vivrà vedrà.
Luigi Copertino
NOTE
  1. Strumentalità non tanto sugli aspetti economici, essendo l’immigrazione il nuovo esercito industriale di riserva che piace al grande capitale per abbattere le tutele sociali dei lavoratori occidentali, quanto invece sulla confusione tra immigrazione ed islam nell’ignoranza dei rapporti storici e teologico-culturali da millenni intrattenuti dall’Europa con il mondo mussulmano.
  2. Si tratta di un movimento piccolo borghese generato da una rivolta anti-fiscale di artigiani, contadini e commercianti, negli anni ’50, e capeggiato da Pierre Poujade un sindacalista che, a suo tempo, aveva militato nel Partito Popolare Francese dell’ex comunista, passato al nazional-socialismo, Jacques Doriot.
  3. Cfr. Zeev Sternhell “Né Destra né Sinistra – la nascita dell’ideologia fascista”, Akropolis, Napoli, 1984; “La Destra rivoluzionaria. Le origini francesi del fascismo 1885-1914”, Corbaccio, 1997; “Nascita dell’ideologia fascista”, Baldini e Castoldi, Milano, 2002. Sternhell, di famiglia ebreo-polacca, bambino ha perso i genitori, vittime dei nazisti, e salvato da un ufficiale polacco, insieme agli zii ed ad un cugino, fu battezzato cattolico a sette anni e fece il chierichetto nella cattedrale di Cracovia fino agli 11 anni. Nel dopoguerra riuscì ad emigrare dalla Polonia in Francia e poi in Israele conseguendo la cattedra di storia contemporanea all’Università Ebraica di Gerusalemme.
  4. E’ molto interessante, sotto un profilo storico ma anche psicologico, esaminare cosa dei fascismi affascinava gli intellettuali non conformisti degli anni ’30. Forse la migliore spiegazione la si trova in queste parole di Brasillach: «Un accampamento di giovinezza nella notte, l’impressione di essere un tutt’uno con la propria Patria, il collegarsi ai santi e agli eroi del passato, una festa di popolo, ecco taluni elementi della poesia fascista, in cui è consistita la follia e la saggezza del nostro tempo. Ecco ciò, ne sono sicuro, cui la gioventù tra vent’anni, dimentica di tare e di errori, guarderà con oscura invidia e con inguaribile nostalgia…». Si trattava, con tutta evidenza, di una mistica della comunità nazionale, non priva di rischi idolatrici per un sincero cattolico come era il poeta francese. Ed, infatti, egli, che da inviato speciale del suo giornale aveva assistito alle grandiose parate di massa, veri e propri riti pagani, nella Norimberga del Terzo Reich, di fronte all’ambiguo fascino delle mitologie naziste, se ne rendeva perfettamente conto tanto che non esitò a qualificare come un “Babbeo nel Walhalla” Alphonse de Chateaubriant, un altro degli intellettuali sedotti dall’ideologia fascista, il quale nel suo libro reportage “Il Fascio di Forze” aveva esaltato il regime nazista.
  5. Cfr.Robert Brasillach, “I poemi di Fresnes”, edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1970. Anni dopo, Albert Camus ammise la stupidità di questo crimine contro un poeta e riconobbe che «Se Brasillach fosse ancora tra noi, avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicarci».
  6. Cfr. Z. Sternhell, “La destra rivoluzionaria” op. cit., p. 42.
  7. La citazione di Charette è tratta dall’“Introduzione” a Francesco Mario Agnoli “Le Pasque Veronesi”, Il Cerchio, Rimini, 1998, p.22.
  8. Cfr. Pierre Chaunu “Presentazione” a Reynald Secher “Il genocidio vandeano”, Effedieffe, Milano, 1989, p. 19.
  9. Cfr. Z. Sternhell, “Nascita dell’ideologia fascista”, op. cit., p. 23.
  10. Cfr. Z. Sternhell “Nascita dell’ideologia fascista”, op. cit., p. 19.
  11. E’ pertanto interessante la voce “gollismo” dell’enciclopedia informatica “Sapere.it” che ci piace citare per intero (i puntini di sospensione riguardano alcuni giudizi negativi sull’antieurocratismo del gollismo che sono del tutto parziali e soggettivi di chi detta voce ha redatto): «Indirizzo e movimento politico francese ispirato dalle posizioni assunte da Charles De Gaulle fin dal 18 giugno 1940, quando da radio Londra lanciò l’appello alla Resistenza. Il movimento ebbe il suo punto di forza e di diffusione in concomitanza del periodo in cui Ch. De Gaulle, alla presidenza della Repubblica (1958-69), attuò le sue tesi di politica interna volte a instaurare innanzitutto un potere presidenziale con maggiori attribuzioni sovrane, autonomo dal controllo del Parlamento (Costituzione del 4 ottobre 1958), e a stabilire un rapporto diretto tra il presidente e la sovranità popolare con ricorso al referendum, essendo i partiti interpreti infedeli del Paese ed essendo fallito l’esperimento del Rassemblement du Peuple Français inteso come sovrapartito. In campo economico il gollismo si impegnò nella ricerca di una politica di mediazione tra capitale e lavoro, con forme di azionariato operaio nelle aziende nazionalizzate, ampliando i poteri e le responsabilità dei Comités d’Entreprise. In politica estera il gollismo ebbe il merito di portare a compimento il processo di decolonizzazione, mentre … nel quadro della politica europea …, a differenza degli sforzi degli altri Stati per il superamento delle barriere nazionali, si limitò a sostenere un programma di alleanze interstatali all’insegna del principio dell’“Europa degli Stati” con una misura politica superiore alla dimensione dei sei o dei nove Paesi occidentali, ma volta a conglobare un grande spazio “dall’Atlantico agli Urali”. Negli intenti del gollismo questa Europa funzionale avrebbe dovuto inserirsi come terza forza tra i due blocchi (USA-URSS), autonoma in temi di difesa militare (si veda l’esempio francese di un proprio armamento atomico, la force de frappe)».

Nessun commento:

Posta un commento