sabato 17 gennaio 2015

Massimo Fini - Rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del Mullah Omar

Tutto ha inizio con l'Afghanistan. In questi giorni il Corriere ripubblica le corrispondenze di Tiziano Terzani nei primi mesi dell'occupazione americana in cui il giornalista si pone dei dubbi sulla validità di quella operazione che sono da sempre anche i miei.
L'occupazione dell'Afghanistan non aveva, una volta tanto, delle motivazioni economiche (quella terra non ha il petrolio ed è povera di tutto) ma squisitamente ideologiche. Si voleva spazzar via il progetto del Mullah Omar e dei suoi giovanissimi Talebani (14-27 anni) di riportare i costumi dell'Afghanistan all'epoca di Maometto (VII sec.),  costumi peraltro mai venuti meno nella vastissima area rurale del Paese, senza però rinunciare ad alcune, poche, mirate, conquiste della Modernità soprattutto nel campo della salute e dei trasporti. Una sorta di 'Medioevo sostenibile'. L'Afghanistan non costituiva alcun pericolo per l'Occidente perché gli afgani, talebani o no, non si sono mai interessati d'altro che del loro Paese. E Bin Laden? I Talebani se lo erano trovato in casa, ce lo aveva portato Massud. Omar non lo vedeva di buon occhio, lo definiva «un piccolo uomo», ma doveva tener conto che Bin Laden godeva di un certo prestigio fra la popolazione perché, con le sue ricchezze, aveva costruito strade, ponti, ospedali, infrastrutture di cui il Paese aveva estremo bisogno dopo i dieci anni di devastazione sovietica (quello che avremmo dovuto far noi, che vi abbiamo invece portato una disoccupazione al 40%, corruzione e, grandiosa conquista della democrazia, i bordelli e X Factor). Comunque quando nel dicembre del 1998, dopo gli attentati in Kenya e Tanzania, Bill Clinton chiese al Mullah Omar di far fuori Bin Laden, si disse disponbile purché la responsabilità dell'assassinio se la assumessero gli americani (Documento del Dipartimento di Stato del 2005). Ma all'ultimo momento Clinton, misteriosamente, si tirò indietro.......

Dopo l'attentato alle Torri Gemelle, mentre le folle arabe scendono in piazza giubilanti, il governo talebano manda un messaggio di cordoglio a quello degli Stati Uniti: «Nel nome di Allah, della giustizia e della compassione. Noi condanniamo fortemente i fatti che sono avvenuti negli Stati Uniti al World Trade Center, condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso i loro familiari e i loro cari. Tutti i responsabili devono essere assicurati alla giustizia». Ma non basta: gli americani hanno deciso che il 'Mostro' deve essere cancellato dalla faccia della terra. Eppure non c'erano afgani nel commando che abbatté le Torri Gemelle, né afgani sono stati trovati nelle cellule di Al Qaeda. E, oggi, non si ha notizia di afgani che combattano nelle file dell'Isis, pur essendo anch'essi sunniti. E così sono stati tredici anni di guerra, una guerra particolarmente vigliacca (macchine contro uomini) e le violenze degli americani e della Nato hanno colpito l'immaginario collettivo dell'Islam più radicale suscitando un odio irrefrenabile contro gli occidentali. Che tutto parta da lì lo dicono quelle tute arancioni (imposte ai guerriglieri talebani a Guantanamo, per umiliarli) fatte indossare dai carnefici dell'Isis alle loro vittime mentre le giustiziano, in un orrendo miscuglio di ferocia ancestrale e sofisticata tecnologia. Anche qui c'è un abisso culturale. Gli afgani non sono arabi. Sono un antico popolo tradizionale. Tutti quelli che sono stati loro prigionieri, da Daniele Mastrogiacomo, alla giornalista inglese Yvonne Ridley, alla cooperatrice Céline Cordelier, al giovane sergente americano Bowe Bergdahl, hanno detto di essere stati trattati con rispetto, quasi come ospiti, e le donne con particolare attenzione alle loro esigenze femminili.
Aveva previsto un talebano intervistato da Terzani: «Io non so chi sia Osama, non l'ho mai incontrato, ma se Osama è nato a causa delle ingiustizie commesse in Afghanistan, queste ingiustizie faranno nascere tanti altri Osama». E così è stato. Di fronte alla spietatezza senza se e senza ma dell'Isis rimpiangeremo la moderazione e la saggezza del Mullah Omar. 'Il Mostro'.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2015

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