sabato 18 ottobre 2014

La guerra nella guerra. Le donne di Kobane nuovo mezzo di propaganda

Sono belle le combattenti curde. Figure romantiche, coraggiose. E quanto piacciono agli scribacchini d'Occidente. La retorica nasconde vergognose rimozioni.  di Alessia Lai.

Sono belle le combattenti curde. Figure romantiche, coraggiose, a difesa della loro Kobane contro i tagliatori di teste dell'Isis.
E quanto piacciono, ora, a tutti gli scribacchini d'Occidente che fino a ieri avevano descritto i fanatici islamisti come dei ribelli in cerca di libertà e democrazia.
Senza un minimo di vergogna oggi dipingono con toni ammirati, a tratti vergognosamente sdolcinati, le vite delle ragazze curde che hanno rinunciato a fare l'Università per andare a combattere. Università che frequentavano, magari, ad Aleppo, nella seconda città di quella Siria retta dal «crudele Assad» che, per inciso, tre anni fa, dopo anni di rapporti difficili con questa comunità, aveva dato ai curdi la cittadinanza siriana. Sembra poco, forse, per chi ha scelto fin dal principio della crisi siriana lo sport del tiro al presidente. A chi ha deciso di prendere le parti di una rivolta studiata a tavolino e poi alimentata dall'estero allo scopo di distruggere l'ultimo paese che nell'area si opponeva ancora fermamente alla ingerenze statunitensi, che rappresentava un mosaico irripetibile di culture e religioni.........
Non si può certo dire che i curdi siriani fossero o siano alleati di Assad, col quale hanno avuto rapporti altalenanti e difficili, ulteriormente raffreddatisi negli anni di avvicinamento tra il presidente siriano e la Turchia. Non hanno sofferto la dura repressione dei loro vicini turchi, ma nemmeno hanno mai avuto i diritti e l'autonomia ottenuti da quelli iracheni abituati a gestire un potere che derivava dall'essere seduti su immensi giacimenti petroliferi anziché dal tentativo di tutelare un'identità e un modello sociale.
Non a caso i curdi iracheni sono stati più volte divisi al loro interno e molti di loro sono ostili al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan che agisce in Turchia e che invece ha ottimi rapporti con i curdi siriani.
Non ci si deve stupire, quindi, se il presidente turco Erdogan ha rifiutato di mettere a disposizione le sue basi militari per bombardare le fila dell'Isis - da Ankara addestrato e finanziato - contro cui oggi combattono i curdi siriani.
Prima della guerra la Siria rappresentava la negazione del ben noto - e artificioso - «scontro di civiltà» che tanto piace ai democratizzatori occidentali.
Ora, dopo tre anni di devastazioni, Damasco ha perso questa sua peculiare caratteristica grazie all'appoggio che lo stesso Occidente ha dato fin dal principio a dei "ribelli" che in realtà rappresentavano il braccio armato della Fratellanza Musulmana e che poi si sono "evoluti" nelle bande di islamisti che ora seminano il terrore tra la Siria e l'Iraq.
Ma fino a quando le teste infilzate sulle picche erano di soldati dell'esercito regolare siriano o di civili cristiani, o di chiunque si fosse rifiutato di unirsi ai "ribelli", il silenzio mediatico era assoluto. Salvo continuare a raccontare di massacri indiscriminati da parte di Assad e indignarsi per l'apporto militare fornito dai combattenti Hezbollah.
Il sacrificio dei miliziani sciiti libanesi che hanno combattuto contro i jihadisti dell'Isis non valeva la considerazione di commentatori e politici nostrani. Anzi, la loro presenza i Siria veniva raccontata come un'invasione "al servizio" del carnefice Assad.
Ora che sono iniziate a cadere teste evidentemente più importanti - ilpassaporto fa sempre la differenza - è scattata la mobilitazione internazionale contro i fanatici islamisti, non senza precisare, però, che non si tratta certo di prendere le parti del presidente siriano.
Addirittura si parla ancora di finanziare i ribelli accertandosi che il denaro e le armi finiscano in mano a quelli "buoni", a loro volta nemici dell'Isis e dei gruppi integralisti che sono andati a formare questa entità inquietante.
Le bandiere nere, però, sventolavano già tempo fa in Siria. Solo che nessuno le voleva vedere. Nella migliore delle ipotesi, gran parte dei "ribelli" addestrati dai marines nei campi in Giordania e dalla Turchia, sono migrati tra le fila dei gruppi integralisti. Il pensiero peggiore, e non improbabile, è che già ne facessero parte. E ora, dopo anni di violenze alimentate con armi e denaro proveniente dall'Occidente e dai suoi alleati arabi, l'ennesima capriola prevede di ergersi a difensori di quello stesso Occidente dall'integralismo. Per rimpolpare la retorica della guerra al terrore, del bene contro il male, c'è bisogno di trovare degli eroi. E cosa c'è di meglio di donne combattenti per solleticare un nuovo interesse e spostare l'attenzione da cause, complicità e responsabilità della guerra siriana?
Sono settimane che si leggono papiri su ragazze in armi, giovani madri che tengono per se l'ultima pallottola nel caso venissero catturate dai jihadisti che già hanno dimostrato di non fare differenze di genere quando si tratta di torturare e decapitare.
C'era bisogno di trovare del buono contro il terrore Isis in questa nuova guerra. E dato che non era possibile vederlo nei soldati regolari siriani che da anni difendono villaggi cristiani, sunniti, sciiti dalla furia integralista, la resistenza curda contro i jihadisti sembra essere diventato l'ultimo bastione di civiltà contro la barbarie nera. Sulla carta, ovviamente, visto che si parla di dare loro armi e equipaggiamenti, ma ancora combattono con vecchi arnesi.
Il membro Nato Erdogan non gradisce che i curdi siriani, vicini al Pkk, vengano armati eccessivamente.
Intanto l'importante è dipingere il quadretto eroico e romantico delle militanti in armi, che tanto piacciono a noi donne - e uomini - occidentali.
Così emancipate, le donne curde, tanto da fare la guerra in prima linea, come gli uomini. Finisce qua, però: nell'abisso di differenza che c'è tra chi legge (o scrive) un articolo e chi indossa la mimetica e saluta i figli prima di andare al fronte, probabilmente a morire per mano di un tagliagole o grazie all'ultima pallottola conservata nel taschino della divisa.
Figure belle, romantiche, ma qui, nel democratico Occidente, diventa tutto retorica buona per lavarsi la coscienza: c'è qualcuno lì, simile a noi, che combatte l'orrore integralista. E non si va oltre.
La realtà è che i curdi, uomini e donne, combattono da tempo contro gli integralisti sunniti e lo fanno per proteggere non il nostro Occidente ma i loro territori e un modello politico-sociale che verrebbe spazzato via senza complimenti se dovessero cedere alla violenza dell'Isis. Un modello sicuramente più vicino al laicismo della Siria pre-crisi che ai principi di Al Baghdadi e soci, e pure a quelli del turco Erdogan, il presidente neo-ottomano che con i "suoi" curdi non usa certo i guanti di velluto e che freme per intervenire in Siria e realizzare il sogno imperialista targato Fratellanza Musulmana. Un sogno nel quale per la comunità curda, che si al di là o al di qua del confine, non ci sarebbe alcun posto né diritto.
Quel che emerge, ma che in pochi vogliono vedere, è che dopo tre anni di crisi siriana i mutamenti di scenario dipinti dai media negli ultimi tempi sono in realtà fittizi. Che gli schieramenti erano, e sono, solo due: il governo siriano e i suoi nemici, dentro e fuori il paese. E in questo quadro c si chiede se i curdi sono amici o nemici, di chi e di quale schieramento.
Sono amici dell'Occidente, ma non di Erdogan? Nemici dell'Isis e nemici di Assad? Alla propaganda di guerra occidentale poco importa.
La realtà è che i curdi rappresentano oggi più che mai quel che è stata la Siria: un insieme di comunità e etnie che abitavano la stessa terra. E ora difendono il loro pezzo di quella terra, nella speranza di non rimanere stritolati in una guerra che è molto più grande del fronte di Kobane.-------------------


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