sabato 30 settembre 2017

dott.ssa Nadia Marabese - Ma… e se la salute fosse un valore e non un costo?




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Di seguito l’articolo uscito ieri su La Stampa, in cui vengono evidenziate ancora una volta le falsità dette da chi parla a nome del Governo − che si definisce di centrosinistra, lo voglio ricordare − e le modalità con cui vengono fatte pagare ai malati e ai lavoratori le incapacità di gestire un sistema. O forse non sono incapacità? Perché alla fine dell’articolo e facendo due conti, si vede che con aumenti di tasse locali e non solo, gli italiani si sono ben pagati la sanità, ma a fronte di questa riduzione dei servizi, tagli al personale, alla qualità del lavoro, al decadimento delle strutture… qualcosa non quadra.
Dopo questo articolo, ho inserito due stralci di articoli usciti sul Granma, giornale cubano, che parlano di sanità pubblica. Quello che colpisce e dovrebbe far riflettere è la diversità dell’approccio alla questione sanità e salute. La sanità pubblica in Italia è come fosse una sporca necessità, un costo, una sorta di voragine creata dai cittadini che, osando ammalarsi oggi più di qualche anno fa, dato che è aumentata l’indigenza e la povertà a tal punto che la vita media si sta abbassando per la prima volta dal dopoguerra, creano un costo. I lavoratori della sanità pubblica italiana sono considerati di serie B o C. Unici intoccabili i Direttori Generali con i loro compensi....

Nelle parole del giornale cubano si parla di sanità pubblica come scienza, come un valore collettivo in cui ciascun cittadino e lavoratore si può e deve impegnare e riconoscere e viene a sua volta riconosciuto. Come mai un Paese così in difficoltà come Cuba può scegliere di deliberare − non a parole quindi, ma lo ha fatto − tanto denaro per ristrutturare il sistema sanitario, formare i lavoratori e farli lavorare meglio, ottenendo importanti risultati e l’Italia piangnucolando sui costi della sanità continua ad aumentare tasse ma anche a spendere in armi e spese militari?
Sono scelte politiche. Questa è la politica, cioè la gestione della polis, dello Stato diremmo oggi. Quali sono le questioni importanti per questo Stato Italiano, sempre che ancora esista la possibilità di decidere a casa nostra (o non siamo già colonia dell’Europa)? Dipende dalla politica, da chi noi cittadini votiamo per governarci, ossia per fare quelle scelte. Dipende anche purtroppo da tutti quei cittadini che non andando a votare determinano − con ignavia e ignoranza − la vittoria di un certo tipo di governo.
Le scelte: e se sanità, scuola, servizi fossero centrali? Se non fossero costi, ma valori? E se i lavoratori fossero un bene per la nostra Italia? E non un costo? E se la salute e il benessere dei cittadini fossero un valore positivo, un investimento per un futuro migliore e non un costo?
L’unico modo per cambiare le cose è modificare profondamente il paradigma politico, cioè il modello con cui si decide come e dove distribuire le risorse. Che ci sono. Quando lo avremo chiaro in tanti, insieme potremmo farlo.

Ospedali in bancarotta

Riportiamo qui integralmente l’articolo pubblicato su La Stampa il 23 settembre 2017, scritto da Paolo Russo con la collaborazione di Flavia Di Pasquale, reperibile al seguente link:
Un dossier inedito del ministero della Salute svela: buco da 1,5 miliardi. Bilanci ripianati grazie all’aumento delle tasse e al taglio di servizi, personale e macchinari.
«Il bilancio della sanità è in attivo di 312 milioni». Così, solo tre mesi fa, la Corte dei Conti annunciava per Asl e ospedali la fine dei conti in rosso dopo anni di spending review. Ma un documento top secret del ministero della Salute svela ora che solo nelle aziende ospedaliere italiane c’è un buco da un miliardo e mezzo, ripartito tra 42 nosocomi dei 100 sparsi lungo lo Stivale. Mentre altri 9 hanno i conti in ordine ma non garantiscono i livelli essenziali di assistenza.
Le perdite sono state quantificate valutando entrate da una parte e valore delle prestazioni sanitarie fornite dall’altra, senza conteggiare quei contributi regionali che spesso finiscono per nascondere i deficit sotto il tappeto. In pratica ripiani a pie’ di lista, che finiamo per pagare noi attraverso l’aumento delle tasse locali e il degrado dei nostri ospedali. Il tasso di obsolescenza delle strutture, dice l’ultimo rapporto Oasi della Bocconi tanto per dire, è del 29%, mentre quello dei macchinari come Tac e risonanze, è addirittura del 74%.
 l record delle perdite ce l’ha la Campania, con oltre 350 milioni, 102 dei quali del solo Cardarelli di Napoli. Segue poi a ruota il Lazio, dove il buco è di 257 milioni, 77 dei quali attribuibili all’ospedalone romano San Camillo-Forlanini. Al terzo posto della classifica si piazza la Sicilia, con 231 milioni. In pratica tre sole regioni generano ben oltre la metà del deficit ospedaliero nazionale. Segue poi la Lombardia con otto ospedali che sommano un rosso da 216 milioni. Al quinto posto il Piemonte con 163 milioni, tutti attribuiti alla Città della Salute di Torino. Quantificazione che stride con i soli 15,8 milioni iscritti in bilancio con la matita rossa. Una forbice che la dice lunga sui diversi modi di valutare i conti tra Stato centrale e Regioni.
La verità, secondo i tecnici della salute, è che nei bilanci ospedalieri si nascondono contributi regionali, come quelli sulle funzioni non tariffabili, tipo pronto soccorso, terapia intensiva e trapianti, che in molti casi non corrispondono al valore delle prestazioni erogate. E stesso discorso vale per le tariffe su ricoveri e interventi chirurgici, che variano sensibilmente da una regione all’altra. Insomma, ripiani a pie’ di lista non propriamente indolori per contribuenti e assistiti.
I numeri parlano chiaro. In un decennio Asl e ospedali sono passati da una perdita di 5,7 miliardi a un attivo di quasi 400 milioni. Lotta agli sprechi, si dirà. Ma guarda caso nello stesso arco di tempo le addizionali regionali sull’Irpef hanno subito un’impennata del 59%, passando da un gettito di 7,4 miliardi a uno di 11,8, che ci è costato in media 158 euro a testa. Di più per chi abita in regioni in piano di rientro dai deficit sanitari.
Quindi il grosso della falla lo si è tamponato aumentando le tasse. Ma si è anche tirata la cinghia, risparmiando soprattutto su personale sanitario e farmaci, per i quali la spesa ha fatto il passo del gambero, diminuendo rispettivamente dell’1,2 e del 5,5%. Riduzioni che qualche ricaduta sui livelli di assistenza avranno anche avuto se calcoliamo che a furia di non sostituire medici e infermieri che vanno in pensione oramai per le corsie si aggirano in maggioranza sanitari con i capelli bianchi, che faticano a sostenere lo stress di servizi come quelli di emergenza. Sui farmaci poi si saranno anche spuntati prezzi più favorevoli, ma è difficile immaginare che con le nuove super pillole, del valore medio di 100mila euro a terapia, qualche razionamento non ci sia stato, come mostra la vicenda dei farmaci anti epatite, inizialmente mutuabili solo per i malati più gravi.
Questo non vuol dire però che sia finito il lavoro di taglio agli sprechi. Uno studio dell’Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, due anni fa ha messo a confronto quattro grandi ospedali, assimilabili anche per la complessità delle prestazioni offerte e, tra spese per riscaldamento, lavanderia e mensa che triplicano da un nosocomio e l’altro ed infornate di amministrativi mentre medici e infermieri scarseggiano, ha tracciato una mappa degli sprechi del valore di circa un miliardo.
Per questo la titolare della salute, Beatrice Lorenzin, si è battuta per inserire una norma nella legge di stabilità del 2016, poi un po’ annacquata in quella dello scorso anno, che obbligava i manager degli ospedali con un rosso pari almeno al 7% del loro bilancio (o a 7 milioni in valore assoluto) a predisporre piani di rientro triennali. Pena la perdita della poltrona di direttore generale.
Solo due mesi fa, però, la Consulta ha accolto un ricorso della Regione Veneto, affermando che la norma in sé è legittima, ma che la quantificazione degli sfondamenti di spesa va accertata insieme alle Regioni. Di fatto uno stop che potrebbe portare brutte nuove per i tartassati del federalismo fiscale e sanitario.
Di seguito riportiamo due estratti di due articoli apparsi sul Granma nelle scorse settimane, che ci espongono un altro modo di guardare alla salute pubblica.
Dall’articolo «El liderazgo de la enfermería cubana es un paradigma en América Latina», di Lisandra Fariñas Acosta, comparso sul Granma il 21 settembre 2017, reperibile al seguente link:
«La salute pubblica è una scienza e si realizza attraverso gli sforzi organizzati della società e dello Stato in azioni di promozione, prevenzione, recupero e riabilitazione, con un obiettivo centrale: la salute, il benessere e l’estensione della vita delle persone con qualità. In questo concetto il lavoro di cura in tutte le sue funzioni è fondamentale, poiché costituisce la spina dorsale del sistema sanitario pubblico e rappresenta l’asse intorno al quale tutti i processi in questo settore ruotano», ha dichiarato a Granma il dottore in Scienze Pastor Castell-Florit Serrate, direttore della scuola nazionale di sanità pubblica (ENSAP) [traduzione nostra]
Dall’articolo «Salud “renovada” que ahora es tiempo de preservar», di Lisandra Fariñas Acosta, comparso sul Granma il 12 agosto 2017, reperibile al seguente link:
Da parte sua, il direttore dell’ospedale [Ospedale Pediatrico Marquez, Ndt], il dottor Mario Pérez Álvarez, ha sottolineato che questa istituzione ha concluso il primo semestre del 2017 con una diminuzione del tasso di mortalità infantile di 4 morti in meno rispetto all’anno precedente e indicatori di eccellenza nell’occupazione dei letti ospedalieri e loro rotazione, con conseguente maggiori e migliori opportunità per il recupero rapido ed efficace dei nostri bambini e adolescenti […] Ha sottolineato la volontà del governo e del sistema sanitario, in quanto per la riparazione e la manutenzione nel 2016 sono stati investiti 13 milioni di pesos, 3,593 milioni di pesos per la prima metà del 2017 e già approvati 5 milioni di pesos per il secondo semestre, che garantisce il recupero totale delle nostre camere di ospedalizzazione con 410 posti con cui è stato inaugurato l’ospedale […] Inoltre, questo intervento non solo include il miglioramento delle infrastrutture, ma riguarda anche il recupero di mobilio clinico e non, la riparazione di apparecchiature mediche e l’aggiunta di un maggiore livello di attrezzature mediche. Tutto ciò, ha affermato il titolare della sanità pubblica, con lo scopo fondamentale, oltre al recupero dello stato costruttivo, di migliorare notevolmente le condizioni di lavoro del personale che lavora nelle strutture ciò che si traduce in qualità e soddisfazione per l’assistenza ricevuta [traduzione nostra]----

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