- Marco Bordoni -
Avrebbe potuto essere facile, alcuni erano certi che lo sarebbe stato, ma non lo sarà. La difesa della sovranità nazionale per la Russia nel ventunesimo secolo sarà lo stesso affare doloroso e penoso dei secoli precedenti. Da una parte si potrebbe dire che i Russi ci sono abituati, che il sacrificio fa parte della loro dimensione spirituale e tutte le altre bellissime teorie che abbiamo sentito mille volte, ma dall’altra parte, accidenti, perché sempre a loro? La risposta è complessa e ha a che fare con il rifiuto della Russia di sciogliersi in qualcosa di più grande, con la sua irriducibilità culturale, politica ed economica. Un rifiuto giustificato dal fatto che l’altra strada (quella integrazionista) si è dimostrata anche peggio (fanno fede il decennio degli anni novanta e l’Ucraina odierna). Comunque, sia come sia, questo secolo presenta al popolo russo il solito menù di sacrifici, disciplina, sopportazione. Con l’unica consolazione di potere fare a modo proprio. A noi Italiani pare folle, ma c’è qualcuno che trova questa idea accettabile, persino seducente. Soffrire per la propria libertà. Pazzi Russi........
A questo giro di valzer il problema non sono tanto le sanzioni, la guerra, il (vero o supposto) isolamento internazionale. Il problema è il prezzo del petrolio, che era intorno a 100 dollari al barile quando tutto il travaglio ucraino è iniziato, e che è poi precipitato come una incudine fino a raggiungere gli odierni 40/50. Non è che la Russia, come dice Obama, “non produca niente” a parte le materie prime, ma di fatto l’export energetico supera la metà del totale ed è tutta valuta pregiata con cui non solo si tiene su lo stato sociale e la ricerca militare, ma si puntella la compattezza nazionale foraggiando le minoranze etniche e le regioni periferiche. Negli anni grassi ne avanzava anche, e con queste eccedenze si è ripianato il debito pubblico, si è costituito un prezioso fondo di emergenza e ci si è concessi anche un paio di costosi giocattoloni come le Olimpiadi di Sochi o il Mondiale del 2018. Oggi tira aria diversa e per adempiere i propri obblighi sociali la Russia deve svalutare il rublo a rotta di collo, in modo da mantenere invariati i capitoli di spesa in dollari, con l’ovvia conseguenza di accendere l’inflazione che si mangia i redditi specialmente di quelle classi medie urbane sempre scontente e con qualche velleità di accedere alla maggiore qualità (vero o supposta) dei prodotti importati.
Situazione temporanea? Non pare. Intorno a ferragosto il Presidente del Kazakhistan Nazarbayev ha detto che è “tempo di adattarsi ad un prezzo del greggio intorno a 30/40 dollari al barile” per il prossimo quinquennio. Poi ha fatto fluttuare il tenge, la moneta nazionale, che è andata giù come un fuso. La settimana dopo il Ministro Iraniano dell’industria estrattiva, Bijan Namdar Zahganeh ha dichiarato che l’ Iran “aumenterà la produzione di petrolio a tutti i costi” per conservare la propria quota di mercato. C’è da scommettere che potrà farlo, vista la probabile espansione delle capacità estrattive conseguente alla cessazione delle sanzioni.
In una situazione del genere al Ministero delle Finanze russo sudano freddo e tracciano scenari riservati e “da incubo” che ipotizzano una quotazione di quaranta dollari per il triennio 2016 – 2018. Risultato: dollaro stabilmente oltre i 75 rubli, recessione economica fino al 2017 ed erosione sostanziale del potere d’acquisto dei redditi. Toccando ferro e sperando che tutto questo non succeda, tocca comunque rivedere al ribasso le previsioni di bilancio per il 2016, basate su un prezzo ipotetico (60 dollari) ormi irrealistico. Certo, sono ipotesi estreme, ma vi ricordate le teorie dei gufi di Stratfor? Quelli secondo cui la Russia si sarebbe dissolta entro 10 anni per la fluttuazione del costo delle materie prime? Significano che queste difficoltà sono ben presenti ai nemici della Russia. Sarà bene che anche gli amici ne tengano conto.
E’ chiaro che in circostanze simili il profilo in politica estera si appanna. Se il biennio 2014 – 2015 è stato quello della sfida lanciata all’occidente, che ha attirato molte simpatie ma che ha fatto della Russia il nemico pubblico numero uno mettendola nel mirino di uno dei più poderosi sistemi imperiali della storia, il prossimo potrebbe essere caratterizzato da un profilo meno esposto, da meno proclami, da una politica più guardinga e sparagnina. Le partite aperte sono tutte in stallo, e in queste condizioni lo stallo è onestamente il miglior risultato possibile. Vediamone alcune.
Il Donbass. Cosa vuole fare la Russia del Donbass?
Per stabilirlo dobbiamo prima capire cosa non vuole farne. Di certo non lo vuole consegnare ai fascistoidi che oggi governano Kiev. Di certo vuole fare in modo che la gente non muoia di fame. Si farà anche in modo che livello di preparazione militare di Donetsk sia sempre sufficiente a respingere un assalto di Kiev.
Di certo non vuole annetterlo in tempi brevi. Si era parlato di una distribuzione su larga scala di passaporti russi (una notizia che ha fatto starnazzare parecchio Kiev), ma le voci non hanno avuto seguito. Si era parlato di un referendum per chiedere l’annessione alla Russia, ma Zakharchenko ha chiarito che non se ne fa nulla. Mosse del genere manderebbero in fumo Minsk 2, una conseguenza che Mosca non può permettersi.
In profondità si scorge un processo di graduale integrazione alla Russia ed allontanamento dall’Ucraina: le Repubbliche hanno già rispedito al mittente la riforma Costituzionale di Poroshenko per cui si sono rotte inutilmente delle teste sui portoni della Rada il 1 settembre. Il 25 ottobre si terranno le amministrative nel Donbass come nel resto dell’Ucraina, ma il Donbass le farà secondo le leggi delle Repubbliche, non secondo quelle ucraine, e la convergenza sarà solo di facciata. Il rublo ormai ha scalzato la grivna come moneta di uso corrente in un sistema nominalmente a doppia valuta, i sistemi educativi sono integrati (i titoli del Donbass valgono nelle Università e viceversa) e gli oneri sociali delle Repubbliche sono di fatto sostenuti dai Russia.
Abbiamo quindi la nostra risposta (che ci piaccia o no): la Russia vuole mantenere il Donbass nel limbo in cui si trova, facendo le mostre di lasciare aperta la porta di Minsk 2, e in realtà integrandolo alla chetichella, passettino dopo passettino, nel proprio organismo politico, economico e culturale.
L’ Ucraina. Il meglio che si possa dire della politica Russa in Ucraina degli ultimi 2 anni è che il 90% di questo pozzo senza fondo, capace di divorare quantità di danaro apparentemente infinite senza produrre alcuna luce in fondo ad alcun tunnel, è rimasto alle amorevoli cure dell’occidente. Il grande casinò dalle ruote truccate del Fondo Monetario Internazionale è l’unico che può mantenere il paese sul ciglio del precipizio evitando che vi sprofondi con i suoi 40 milioni di abitanti, almeno per il tempo necessario a consentire alle multinazionali occidentali di comprare a prezzi stracciati qualsiasi cosa, senziente o inanimata, si trovi lungo le rive del Dnepr.
Rifilare agli avversari strategici la rogna di tenere a galla questo ferro da stiro ha anche un prezzo. Il prezzo consiste nel tollerare la presenza di quello che strategicamente è un incubo (truppe USA installate nel ventre della profondità strategica russa) e culturalmente un cancro nazionalista incistato nel corpo stesso del gigante russo, potenzialmente capace di propagarsi in tutto l’organismo con esiti fatali. “Astuti piani” che possano risolvere in problema in poche mosse non si intravedono: l’unica opzione è aspettare che l’occidente si stanchi di accudire il mostriciattolo politico che ha creato e lo abbandoni al suo destino: in quel momento forse la congiuntura economica consentirà alla Russia qualche mossa più spregiudicata.
E il Risiko energetico? Anche qui andiamo malino. Turkish Stream è un progetto a tutti gli effetti in coma. Non solo,
come sanno i lettori di Saker Italia, le trattative con il governo turco si complicano sempre più e sembrano ostacolate anche dai numerosi antagonismi che oppongono le politiche dei due paesi ma si moltiplicano le voci di una pressione statunitense sul sempre più vacuo governo greco (mentre già da tempo la Macedonia, altro paese di transito, ha comunicato la propria disponibilità a procedere solo in caso di un improbabile via libera da parte di Bruxelles). Guardando la mappa di Tukish Stream ci si rende facilmente conto che basta il no di uno fra Turchia, Grecia e Macedonia e salta tutto. L’ipotesi Turkish Stream, se mai è esistita, sta quindi velocemente evaporando, mentre prende quota quella del TAP, il gasdotto transanatolico che dovrebbe portare in Europa meridionale il prodotto dell’Azerbaidjan e forse anche quello del Turkmenistan sottraendoli, oltre tutto, alla mediazione di Gazprom. Per rifornire i clienti europei resta quindi solo il maledetto transito ucraino. I russi continuano a dire che lo cesseranno nel 2019, ma a questo punto non si capisce proprio dove vorrebbero fare passare il prodotto.
Quindi: stallo nel Donbass, stallo in Ucraina, stallo nelle strategie energetiche. Il tutto favorito dalla crisi economica che rischia di avvitarsi in una recessione seguita da un lungo periodo di stagnazione. In una situazione simile la Russia ha tutto l’interesse a congelare lo status quo in attesa di tempi migliori, concentrandosi sui passaggi veramente importanti del prossimo periodo: le presidenziali in Bielorussia dell’11 ottobre 2015 e le legislative russe del 16 settembre 2016. Ovviamente il timore non riguarda tanto l’esito delle consultazioni, che appare scontato, quanto eventuali tentativi delle quinte colonne di colpire il quadro istituzionale in occasione degli appuntamenti elettorali. Se il crollo del prezzo del petrolio e del rublo inizieranno a mordere seriamente sui redditi delle classi medie urbane il passaggio del settembre 2016 potrebbe divenire a rischio. Tutto che possiamo dire al riguardo è che per ora la situazione pare sotto pieno controllo: i sondaggi mostrano che la popolarità di Putin è stabile oltre l’80% e meno del 20% degli intervistati crede alla possibilità di una rivoluzione colorata in Russia.
Momento di difficoltà, dunque, e tuttavia questo momento verrà superato. La Russia soffrirà, la gente dovrà rinunciare a consolidare, nei prossimi anni, il notevole aumento di tenore di vita del decennio scorso. Ma alla fine, potete scommetterci, la Federazione Russa non farà la fine dell’URSS, colpita a morte dal calo del greggio degli anni ’80.
Patrick Armstrong ha fatto su Russia Insider un divertente elenco delle profezie di sventura fatte sulle Russia dai commentatori occidentali negli ultimi anni. Ecco l’elenco dei pezzi:
Andy Henion Una società aperta condanna la Russia al fallimento? (2012)
Zachary Kech La Russia è condannata (marzo 2014)
David Francis Perché l’avventura di Putin in Ucraina è condannata (aprile 2014)
Ivan Sukhov Il nazionalismo e la strategia di espansione di Putin sono destinati a fallire (settembre 2014)
Matt O’ Brien Spiacente, Putin, la Russia è condannata (dicembre 2014)
Matt O’ Brien Ricordate la Russia? E’ ancora condannata. (gennaio 2015)
Morgan Stanley (ricerca) La Russia è condannata. (marzo 2015)
Nessuno, però, si è preoccupato di informare l’orso del fatto che l’hanno ucciso, e chi vive in Russia sa bene che, a dispetto dei profeti di sventura e delle statistiche che parlano di flessioni spettacolari del PIL, la vita quotidiana per chi tira a campare con redditi bassi e non aspira a prodotti di importazione o a vacanze all’estero rimane grosso modo il bicchiere mezzo pieno degli ultimi 10 anni.
Come le disgrazie del Donbass rappresentano un ammonimento che scoraggia la rivolta nel restante sud est dell’Ucraina, la vita da fame degli Ucraini, che compaiono nelle città russe a lavorare per salari miserabili con la scadenza trimestrale consentita dal regime dei visti, è ben presente ai Russi, che possono toccare con mano le conseguenze dolorose di scelte avventate compiute in nome di nobili ideali proposti strumentalmente dai soliti noti. In ogni caso i Russi si terranno ben stretta l’attuale dirigenza per una ragione che solo adesso appare in tutta evidenza: Putin non ha tentato di ricostruire un impero.
Da quando la Russia è finita sotto i riflettori come il principale antagonista dell’ unipolarismo, quante mani hanno bussato alla sua porta sollecitando in buona o mala fede la costruzione di un secondo impero? Non ci riferiamo solo agli Ucraini del sud est, ma anche alle opposizioni europee di destra e di sinistra, alla Grecia, alle nazioni sudamericane, alla Siria, all’Egitto, all’Iran giusto per fare un elenco. Tutti nomi che richiamano altrettante tentazioni di avventure neo imperiali presentatesi negli ultimi due anni.
Oggi la prospettiva di un intervento russo nel sud est Ucraina sembra una follia: per convincersene basta evocare l’immagine di una Russia che attraversi le attuali difficoltà impantanata in una guerriglia strisciante in una Ucraina occupata, nel pieno isolamento internazionale e 40 milioni di bocche senza uno straccio di economia da sfamare e riscaldare. Cosa ne pensano i critici di ieri, quelli che gridavano allo scandalo per l’atteggiamento “rinunciatario” della presidenza Putin? Per lo più tacciono, o si concentrano su nuovi motivi di critica.
Una volta deciso di non impegnarsi direttamente in Ucraina le altre scelte sono conseguenti.
La Russia non ha soldi per la sfilza dei questuanti politici europei che vengono a piazzare la propria mercanzia di dubbia qualità a Mosca.
La Russia non è disponibile a concedere prestiti a fondo perduto di miliardi di euro a precari esperimenti come quello greco mentre è costretta a svalutare le pensioni ai propri anziani.
La Russia non salverà il Venezuela di Maduro (la prima probabile vittima del crollo dei prezzi petroliferi) dilapidando le poche risorse stanziate nel tentativo di creare una industria sostitutiva dei prodotti sanzionati.
La Russia non manderà i propri jet a difendere Assad e i propri soldati a morire con la bandiera in terra siriana. Tutt’al più verranno inviati rifornimenti e qualche istruttore molto discreto: quel tanto che basta a difendere il proprio appoggio di Tartus, tenendo sempre la porta aperta ad un possibile esito negoziale.
Tutto sommato si limiterà ad un sostegno circoscritto nelle aree di interesse immediato, come la Bielorussia ed il Kazakhistan. Concluderà accordi sulla base del reciproco interesse con i grandi cooperatori strategici del BRICS e con alcuni alleati regionali accuratamente scelti e a fronte di contropartite geopolitiche attentamente soppesate. Ma non ricostruirà un impero e non si farà svenare dalle spese necessarie a mantenerlo: per questo sopravviverà. Vladimir Putin ha sempre criticato i sistemi imperiali. Ecco un paio di estratti del suo pensiero:
“Noi, da parte nostra, ci atteniamo rigorosamente alle norme del diritto internazionale e agli impegni presi con i nostri partner, e ci aspettiamo che altri Paesi, unioni di Stati e di alleanze politico-militari facciano lo stesso. La Russia non è fortunatamente un membro di alcuna alleanza. Questa è anche una garanzia della nostra sovranità. Ogni nazione che fa parte di un’alleanza cede parte della sua sovranità.” (22 luglio 2014)
“Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo provato ad imporre il nostro modello di sviluppo a molti paesi dell’Europa orientale e lo abbiamo fatto con la forza. Dobbiamo ammetterlo. Non c’è nulla di positivo in questo, e noi ne patiamo ancora le conseguenze ancora oggi. Detto per inciso, questo è grosso modo quello che gli Americani fanno oggi, visto che cercano di imporre il loro modello praticamente al mondo intero, e anche loro, come noi, falliranno.” (9 aprile 2015)
Questi discorsi non sono mai stati creduti dai commentatori occidentali. Ma in fin dei conti: chi sono i commentatori occidentali? Gentaglia che ha sempre segretamente pensato (per ignoranza) o desiderato (per malafede) che la Russia si comportasse come l’URSS, mandasse i carri armati e i jet ai quattro angoli del pianeta, si assumesse obblighi di alleanza insostenibili, per finire disintegrata come era finita l’URSS. Tromboni e lucidastivali sempre pronti a rilanciare qualche panzana sui militari russi “che invadono” questo o quell’ altro paese, andando in estasi all’idea che Putin potesse davvero cadere in queste trappole.
Non è successo. Forse Putin ha avuto davvero la possibilità di creare un impero: ma ha resistito alla tentazione. La politica estera della Russia di oggi consiste in aiuti reali ad un paio di piccoli interlocutori strategici, contratti sostanziosi e di reciproco vantaggio con chi ha soldi da spendere o qualcosa di utile da offrire, discreti aiuti di basso profilo nelle zone calde, e grandi foto con sorrisi e pacche sulle spalle a volontà per tutti gli altri.
I Russi, dicevamo, sono disposti soffrire per la libertà. Solo che questo giro preferiscono farlo per la propria. Difficile dargli torto.-----------------
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