domenica 5 agosto 2018

Marcello Veneziani - Quella mitica estate del ’68...


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(Marcello Veneziani – Il Tempo) – 
Azzurra. Era azzurra l’estate del ’68. Azzurra come la Nazionale di calcio che aveva da poco vinto il campionato europeo. Azzurra come la canzone di Paolo Conte cantata da Celentano, e il pomeriggio troppo azzurro e lungo… Azzurra come l’estate ragazza di cielo, di mare e cicale. Azzurra come la gioiosa euforia di quei giorni intensi di vita e di luce, appena contornati di sera. Il ’68 mi parve una lunga vacanza in paradiso, tra l’oleandro e il baobab. S’allinearono in quell’estate tutti i pianeti del corpo, della mente, della vita. Marciava trionfale verso lo scudetto la mia amata Fiorentina con Amarildo, Albertosi e Chiarugi (potrei dirvela tutta, la squadra).
In quell’estate scoprii che l’amore per il mare poteva essere consumato attraverso infinite nuotate dalla Testa a Salsello, le nostre spiagge più mitiche, e ritorno. Ma soprattutto avevo da poco scoperto che quando vedi una ragazza che ti piace, e ci balli stretto, ti cresceva qualcosa di piacevole davanti, che accresceva l’autostima e la voglia di abbracciare il mondo. Da poco avevo avuto quel che si diceva Lo Sviluppo, era un piacere sentirsi appena sbarcati nel pianeta maschi, vedere gli effetti solidi e liquidi di quella virilità appena inaugurata, seppure in solitudine. Le ragazze prendevano il posto della Fiorentina. Ah, i balli appassionati, coi pantaloni a vita bassa e la zampa d’elefante, la camicia da ciaciacco sbottonata fino al terzo bottone o addirittura traforata, stringersi al buio, canta Lucio, tu chiamale se vuoi... erezioni…

E tornare da mare e mangiare fichi fioroni e cibi del paradiso, le speciali albicocche del paese mio, le pesche bianche piccole e le gigantesche gialle, i gelsi bianchi e rossi, micidiali sui vestiti, e il melone rosso che era poi l’anguria, ma i fruttivendoli non capivano se la chiamavi in quel modo asburgico, e l’uva baresana; i caroselli, che sono i cetrioli da adolescenti, e altro. Allora scopri i piaceri della tavola, non solo la pasta al forno e gli spaghetti sfritti, ma anche riso, patate e cozze – la mitica tiella – il sangicchio del porco e i lampascioni…

In quel tempo era malefica e rara l’aria condizionata, si viveva sudando, si godeva del vento o dell’ombra, dell’acqua fresca delle fontane, si pativa il sole ma con voluttuoso piacere. No, magari non era più bello il mare pieno di bambini, tegami e salvagenti, le canzoni fesse di quegli anni, Piero Focaccia e Gianni Meccia, le sere al balcone a cercare il fresco e godere la penombra, la sete sedata con l’acqua della fontana, i coni gelato da 30 lire, 50 con la panna. Non erano più belli i balli col mangiadischi, le luci spente per stringere il corpo delle minenne, la meraviglia di far tardi. Non era più bello sudare al pallone per le strade, scappare quando arrivano le guardie, la gita in campagna a rubare i fichi e le ciliegie, i pomeriggi a far controra a letto in cerca del lenzuolo più fresco, le voci delle zie nel tinello. No, forse, non era più bella l’estate del ’68; erano più belli i nostri occhi. Limpidi, non ancora miopi, non ancora presbiti né stanchi. Era bello come vedevano quegli occhi, non cosa vedevano. L’incanto dell’infanzia che si scopre poi adolescenza, i primi peli, i primi baci, la prima goccia bianca che spaventa (Morandi dixit, un altro ragazzo di quegli anni e di oggi). È bella la magia del passato perché aveva tutto davanti e niente dietro, tutti vivi i nostri cari, e gagliardi. “Occhi di ragazza, quanti mari, quanti cieli che mi aspettano”.
Non rimpiangi la seicento di casa, l’acqua della fontana, le sere ingenue e primitive, le sudate, i primi, imbranati amori. Hai nostalgia dei tuoi occhi carichi di vita, pieni di futuro. L’estate festeggiava i corpi, esaltava i sensi. Resta, oltre te, animale estivo, l’incanto dell’estate, quando gli angeli si fanno cicale, quando gli attimi passano lenti e i giorni volano via, e tu cogli l’attimo e perdi i giorni, e ti rattrista l’idea che presto finirà, e preso da nostalgia preventiva, la nostalgia del presente di cui parla Borges, ti barrichi dentro il costume da bagno. Ma poi ti resta nel cuore degli inverni il ricordo di un’invincibile estate (Camus), quando toccavi il cielo con un’infradito.
P.S. Dicono che nel ’68 sia anche accaduto altro e tanto importante. Ma forse non val la pena ricordarlo. Vale più Azzurro, una granita e due occhi di ragazza che ti guardano e ti fanno sognare.

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