Decine di attuali ed ex membri del Comitato degli ebrei del Regno Unito – l’organizzazione suprema della comunità ebraica britannica – hanno pubblicato una lettera sul Financial Times in cui si afferma che non possono più chiudere gli occhi e tacere di fronte alla guerra a Gaza e le violenze in Cisgiordania, avvertendo che «l’anima di Israele è stata dilaniata».

I firmatari condannano la ripresa dei combattimenti nella Striscia e la violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, definendo l’attuale governo israeliano «il governo più estremo della storia di Israele», che incoraggia la violenza contro i palestinesi e danneggia la democrazia israeliana. Poi la solidarietà alle famiglie dei rapiti e alle migliaia di manifestanti per le strade d’Israele: «Noi siamo con loro. Resistiamo alla guerra. Conosciamo e piangiamo la perdita di vite palestinesi. Desideriamo che arrivi presto il “giorno dopo” di questo conflitto, quando si potrà iniziare una riconciliazione».

 

Il testo della lettera

«Scriviamo in qualità di rappresentanti della comunità ebraica britannica, spinti dall’amore per Israele e dalla profonda preoccupazione per il suo futuro.

La tendenza a distogliere lo sguardo è forte, poiché ciò che sta accadendo è insopportabile, ma i nostri valori ebraici ci spingono a prendere posizione e a parlare apertamente.

Questo è ciò che vediamo: gli ultimi 18 mesi di guerra straziante ci hanno dimostrato che il modo più efficace per riportare a casa gli ostaggi e creare una pace duratura è attraverso la diplomazia. Alla fine della prima fase del secondo accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi, 135 ostaggi sono stati rilasciati tramite negoziati, solo otto con azioni militari, e almeno tre sono stati tragicamente uccisi dalle Forze di Difesa israeliane.

America, Qatar ed Egitto si sono assunti la responsabilità di garantire il rilascio di tutti gli ostaggi rimanenti nella seconda fase di questo accordo, in cambio del ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza. La comunità internazionale ha approvato e sostenuto un solido piano per la ricostruzione di Gaza, da affidare alla leadership palestinese, che costituirebbe una valida alternativa ad Hamas, piano finanziato dalla Lega Araba.

Ma in quel momento, il governo israeliano ha scelto di rompere il cessate il fuoco e tornare in guerra a Gaza con l’«offensiva di Itamar», così chiamata perché era la condizione posta da Itamar Ben-Gvir per il ritorno nella coalizione, consentendo in questo modo l’approvazione del bilancio del governo israeliano entro la scadenza ravvicinata necessaria per evitare le elezioni. Da allora, nessun ostaggio è tornato. Centinaia e centinaia di altri palestinesi sono stati uccisi; cibo, carburante e forniture mediche sono stati nuovamente bloccati all’ingresso a Gaza; e siamo di nuovo piombati in una guerra brutale in cui l’uccisione di 15 paramedici e la loro sepoltura in una fossa comune rischia di essere la normalità. Simili incidenti sono troppo dolorosi e scioccanti da accettare, ma sappiamo in cuor nostro che non possiamo chiudere un occhio o rimanere in silenzio di fronte a questa nuova perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza, con le speranze di una riconciliazione pacifica e del ritorno degli ostaggi che si stanno esaurendo. Il più estremista dei governi israeliani sta apertamente incoraggiando la violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, strangolando l’economia palestinese e costruendo nuovi insediamenti più che mai.

Questo estremismo prende di mira anche la democrazia israeliana, con l’indipendenza del sistema giudiziario nuovamente sotto feroce attacco, la polizia sempre più simile a una milizia e leggi repressive in atto, mentre un populismo partigiano provocatorio sta profondamente dividendo la società israeliana. L’anima di Israele viene strappata via e noi, membri del Board of Deputies of British Jews, temiamo per il futuro di Israele, Paese che amiamo e con cui abbiamo legami così stretti.

Il silenzio è visto come un sostegno a politiche e azioni contrarie ai nostri valori ebraici. Guidati dalle famiglie degli ostaggi, centinaia di migliaia di israeliani stanno manifestando nelle strade contro il ritorno in guerra di un governo israeliano che non ha dato priorità al salvataggio degli ostaggi.

Siamo al loro fianco. Siamo contro la guerra. Riconosciamo e piangiamo la perdita di vite umane palestinesi. Aneliamo al “giorno dopo” di questo conflitto, quando potrà iniziare la riconciliazione. Mentre celebriamo la festa della libertà con così tanti ostaggi ancora prigionieri, è nostro dovere, come ebrei, far sentire la nostra voce».

Firmano Harriett Goldenberg, Baron Frankal. Sophie Hasenson. Robert Stone e altri.

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Un amico scrittore, Bruno Ballardini, ha scritto questa lettera aperta a Liliana Segre, in relazione al suo articolo sul Corriere della Sera.

 

Gentile signora Segre,

Lei ha recentemente scritto una lettera al Corriere della Sera per invitare a non abusare del termine “genocidio” ed ha affermato che “a Gaza non è genocidio”. Le ricordo qui di seguito alcune definizioni del termine che collidono alquanto con le sue affermazioni.

«Scriviamo in qualità di rappresentanti della comunità ebraica britannica, spinti dall’amore per Israele e dalla profonda preoccupazione per il suo futuro.

Il termine genocidio designa la «distruunità Ebraiche Italianezione» di un gruppo etnico, nazionale, religioso, un crimine commesso contro una collettività e non contro un individuo. La parola è stata inventata da Raphael Lemkin, giurista ebreo polacco, nel 1944, per designare un evento per il quale non esisteva ancora – nel diritto -una formulazione adeguata. Pur avendo riflettuto fin dai tempi dei massacri degli armeni, mentre era studente di legge, su come poter chiamare un atto simile di violenza collettiva, è la distruzione degli ebrei d’Europa (la sua stessa famiglia ne è stata largamente colpita) che ha luogo durante la guerra che gli offre la possibilità di inventare un nuovo termine, che è anche un nuovo concetto. Questo, iscritto nella Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidi, approvata dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948 (il giorno prima del voto sulla Dichiarazione universale dei diritti umani), intende sottolineare l’intenzione – da parte di chi commette il genocidio – di voler distruggere un gruppo umano «in quanto tale», per quello che è e non per altri motivi (di conquista, di sottomissione, di vendetta). È questa, la volontà di sterminare senza motivo se non l’odio per un gruppo, a rendere il crimine di genocidio diverso da quelli da più tempo presenti nel diritto internazionale, dai crimini di guerra ai crimini contro l’umanità, introdotti nel processo di Norimberga proprio mentre la parola genocidio iniziava a essere dibattuta per diventare presto una legge internazionale.

Secondo la Treccani

[…] Nel 1948, con la Convenzione sul genocidio redatta dalle Nazioni Unite, assistiamo a un tentativo più rigoroso di definire il fenomeno in esame. Delle caratteristiche della Convenzione e delle sue implicazioni diremo dopo (v. cap. 5); per il momento limitiamoci a ricordare la definizione in essa adottata all’articolo II: “Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) adozione di misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro” (v. Barsotti, 1981, pp. 234-236).

[…] 2. In che cosa consiste il genocidio? Qui la gamma delle risposte possibili nella letteratura specializzata è molto più ampia: si va dallo sterminio fisico dei membri di un gruppo, alla distruzione della loro cultura (nota, più propriamente, come ‘etnocidio’) e, infine, alla semplice persecuzione. Etnocidio e persecuzione, in realtà, sono categorie a sé stanti, che non devono essere confuse con il genocidio. Domandiamoci, piuttosto, che cosa si debba intendere per distruzione fisica di un gruppo. Mentre vi è chi si riferisce all’uccisione diretta dei membri di un gruppo (v. Chalk e Jonassohn, 1990, p. 23), vi è anche chi, invece, sostiene che occorre considerare anche altre forme di distruzione biologica intenzionale (v. Fein, 1993, pp. 13 e 24), come del resto è previsto nella definizione della Convenzione.

[…] Comunque, mettendo insieme vari contributi, possiamo individuare i più importanti tipi di genocidio.

1. Il genocidio ‘punitivo’. Si tratta di un genocidio compiuto per vendetta: Roger Smith (v., 1987) cita, come esempio, i massacri effettuati da Genghiz Khān nel corso delle sue conquiste. Alcuni autori chiamano genocidio punitivo anche l’eliminazione cruenta di un gruppo avversario percepito come una minaccia (v. Fein, 1984). Dato, però, che questo tipo di genocidio deriva da un evento qualificabile come ‘lotta per il potere tra gruppi’, verrà qui considerato, ai nostri fini, come assimilabile al tipo ‘monopolistico’ o ‘dispotico’, di cui diremo tra breve.

2. Il genocidio ‘istituzionale’. Questo tipo di genocidio è legato alle conquiste territoriali nel mondo antico e medievale (v. Smith, 1987) ed è compiuto tanto per eliminare nemici pericolosi quanto per terrorizzare altri gruppi (v. Chalk e Jonassohn, 1990).

3. Il genocidio ‘utilitaristico’. In questo genere di genocidio, detto utilitaristico in quanto volto allo sfruttamento di certe risorse economiche (v. Fein, 1984; v. Smith, 1987; v. Chalk e Jonassohn, 1990), rientrano l’eliminazione di popolazioni indigene avvenuta nel corso del processo di colonizzazione e la scomparsa di gruppi etnici e razziali che ha accompagnato il processo di modernizzazione, soprattutto in America Latina, nel secondo dopoguerra.

4. Il genocidio ‘monopolistico’ o ‘dispotico’. È il genocidio dettato dall’esigenza di un gruppo di rafforzare il proprio potere sterminando gruppi rivali. Casi di questo tipo di genocidio si sono verificati soprattutto in alcuni Stati multietnici del Terzo Mondo (v. Smith, 1987; v. Fein, 1984).

5. Il genocidio ‘ideologico’. È quello perpetrato in nome di certi miti o valori fatti propri da uno Stato, nel tentativo di riformare profondamente la società (v. Fein, 1984; v. Smith, 1987; v. Chalk e Jonassohn, 1990).

A questo tipo vengono ricondotti il genocidio degli Armeni, quello degli Ebrei e quelli di vari gruppi perseguitati ed eliminati da regimi comunisti quali l’Unione Sovietica staliniana e la Cambogia di Pol Pot.

Secondo la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio

Art. 2 – Il genocidio è definito come qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o religioso:

– uccidere membri del gruppo

– causare gravi danni all’integrità fisica e psicologica dei membri del gruppo

– sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita che ne provochino la distruzione fisica, totale o parziale

– porre misure destinate a prevenire le nascite all’interno del gruppo

– trasferimento forzato dei figli del gruppo a un altro gruppo

Il genocidio si configura come crimine internazionale e si distingue dai crimini di guerra perché può avvenire anche in tempo di pace.

—In conclusione, vorrei farle notare che, stando alla letteratura citata, la maggior parte delle fonti concorda di sicuro su un punto: e cioè che non è necessario che si arrivi all’estinzione di un gruppo perché si possa dire che è genocidio. Lo dimostra il fatto che si parla di genocidio degli ebrei nonostante non si sia mai arrivati allo sterminio totale. E lo stesso vale per i palestinesi. Perché mai allora soltanto agli ebrei sarebbe concesso di usare questa parola o, secondo lei, non andrebbe usata nel caso dei palestinesi? Non voglio pensare che dietro alle sue affermazioni si celi ancora l’ideologia di Golda Meir che, in un’intervista pubblicata sul “Sunday Times” del 15 giugno del 1969, disse: «I palestinesi non sono mai esistiti. Non è che ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considerava tale e noi siamo venuti a cacciarlo e a portargli via il Paese. Non esistevano…»

Ora, a rigor di logica, non si può attuare il genocidio di un popolo che non esiste. Era questo quello che voleva dire?

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Questo post pubblicato su X relativo a un articolo pubblicato su Il Foglio:

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Questo post è di Inside Over:

 

Domenica 20 aprile l’IDF ha pubblicato la sua inchiesta sull’uccisione di operatori umanitari avvenuta il mese scorso nel sud di Gaza, durante la quale i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un convoglio di ambulanze e un veicolo delle Nazioni Unite.

Secondo l’inchiesta non ci sono prove “a sostegno delle affermazioni di esecuzione o che qualcuno dei deceduti sia stato legato prima o dopo la sparatoria”.

L’indagine, guidata dal Maggior Generale Yoav Har-Even, sostiene che i soldati sul campo hanno agito in modo “ragionevole rispetto alla situazione operativa”.

Nel massacro di Rafah, le forze israeliane hanno ucciso 15 paramedici e membri della protezione civile, tutti protetti dal diritto internazionale, a sud della Striscia di Gaza. I 15 operatori umanitari sono stati sepolti in una fossa comune e i loro veicoli nascosti.

Un video diffuso dal giornale statunitense The New York Times il 5 aprile disvelava come l’attacco al convoglio umanitario fosse assolutamente deliberato, smascherando le bugie dell’IDF che aveva parlato di un incidente. Il filmato è stato rinvenuto per caso sul cellulare di uno dei paramedici trovato insieme agli altri 14 operatori umanitari uccisi e sotterrati poi in una fossa comune.

Pochi giorni dopo, sempre il New York Times rivelava i risultati delle autopsie sui corpi degli operatori umanitari: il risultato metteva in evidenza che si è trattato di un’esecuzione in quanto 11 delle vittime presentavano ferite da arma da fuoco, in particolare colpi diretti alla testa, al torace o alla schiena.

Ora, nel tentativo di scagionare i suoi soldati, l’esercito israeliano ha dichiarato che si è trattato di “un’incidente avvenuto in un campo di battaglia ostile e pericoloso” e che accuse secondo cui “le sue forze commetterebbero tali atrocità sono “voci, calunnie e orribili menzogne”.

#gazagenocide #palestine #israel #idf

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Questo post pubblicato su Instagram:

 

 

Il tono che sta diventando comune tra certi personaggi, con migliaia o milioni di followers è davvero preoccupante e fuorviante: accusano la resistenza di essere responsabile della morte dei civili!
Ma che discorso è questo?
Chi uccide i civili è l’occupazione israeliana, con una macchina militare che non distingue tra bambino, donna o anziano.

Non abbiamo mai sentito dire che la resistenza algerina è stata la causa della morte di un milione di algerini, né che la resistenza vietnamita è stata responsabile delle stragi del suo popolo, né che la resistenza in Italia o in Francia abbia massacrato civili.
Tutti sanno che i veri colpevoli erano i nazisti e le forze d’occupazione, non i partigiani.

Come può, allora, un “intellettuale” o un personaggio importante , ragionare in questo modo?
O è un infiltrato o stupido o opportunista che serve la narrazione dell’occupazione, oppure è del tutto privo di cultura e consapevolezza storica e politica.

E la cosa più grave è che queste persone influenzano l’opinione pubblica, trascinando la gente con discorsi emotivi, privi di logica e riflessione, come se ciò che dicono fosse verità assoluta.

È l’occupazione che uccide i palestinesi da più di cento anni.
Ed è dovere di ogni popolo sotto occupazione resistere con ogni mezzo, perché la libertà non si concede: si conquista.

Parlo in generale….

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