Uffa, che barba, che noia. I radicali e i loro seguaci, anche strumentalizzando la scomparsa del nostro carissimo nemico Massimo Bordin, hanno ricominciato a piangere. Il chiagni e fotti è il loro sport preferito, che rende petulante e insopportabile ogni loro battaglia, anche la più nobile.
Sempre lì a lacrimare contro il “regime”, di cui fanno parte integrante da cinquant’anni. Non chiedono mai per favore: pretendono, anzi esigono, come se tutto fosse loro dovuto, dalle amnistie alle svuota-carceri ai soldi per Radio Radicale. E, quel che è bizzarro per dei soi disant “liberisti e libertari”, lo esigono dallo Stato “illiberale e partitocratico” contro cui si scagliano dalla notte dei tempi.
L’ultima loro battaglia meritoria fu il referendum (vinto, anzi stravinto e subito tradito) del 1993 per abolire il finanziamento pubblico dei partiti: noi, ingenuamente, pensavamo che comprendesse il finanziamento pubblico agli organi di partito. Invece no: Radio Radicale fa sempre eccezione. Infatti costa ai cittadini una media di 14 milioni di euro all’anno, in virtù di due diverse fonti di finanziamento: una (circa 4 milioni l’anno) dal Dipartimento editoria di Palazzo Chigi per le “fonti d’informazione di interesse generale”; l’altra (una decina di milioni l’anno) dal ministero delle Poste (ora assorbito dallo Sviluppo economico), in seguito a una convenzione stipulata da Pannella con l’allora ministro Tatarella, sotto il primo governo Berlusconi (regolarmente appoggiato da Pannella, Bonino & C.), poi sempre rinnovata dal centrosinistra (regolarmente appoggiato da Pannella, Bonino & C.)....
Il refrain dei radicali è che la loro non è una radio di partito, anzi sarebbe un “servizio pubblico”. Può essere: ma lo stesso potrebbe sostenere una qualsiasi emittente dedita all’informazione. Tipo Sky o La7: che facciamo, diamo soldi pubblici pure a loro? Anche noi del Fatto abbiamo la presunzione di svolgere un servizio pubblico: informare senza padroni. Ma non ci sogniamo di chiedere soldi allo Stato, anzi siamo nati quando molti altri li incassavano e li abbiamo sempre rifiutati per difendere la nostra indipendenza. E seguitiamo a respingerli, diversamente da concorrenti che non esisterebbero se, con vari escamotage, non prelevassero fior di milioni dalle tasche di chi non li legge. Lo stesso ci attenderemmo dai “liberisti” radicali, che invece son tornati a piagnucolare e battere cassa sotto Palazzo Chigi col cappello in mano. Anche senza dirci “liberisti” prima e dopo i pasti, ci piace farci giudicare dalla capacità di stare sul mercato dell’informazione.
Chi ha dei lettori, o dei telespettatori, o dei radioascoltatori sopravvive; chi non ne ha chiude. Si dirà: Radio Radicale trasmette le dirette delle sedute parlamentari. Vero, è un obbligo previsto dalla convenzione con le Poste. Ma ormai ha poco senso: lo stesso servizio, in video, già lo svolge la Rai, che paga profumatamente (con i soldi del nostro canone) le riprese esterne. Allora si dice: Radio Radicale segue da decenni i principali processi giudiziari e ha accumulato un archivio unico e prezioso. Verissimo, onore al merito. Anzi, sarebbe un peccato se l’archivio andasse disperso: fossimo nei vertici Rai, lo acquisteremmo per metterlo gratuitamente a disposizione del pubblico; e creeremmo un analogo canale audio-video per proseguire anche quel servizio.
Ciò detto, come ogni emittente privata, Radio Radicale fa lavorare i giornalisti vicini al Partito radicale, non certo scelti con pubblici concorsi (come deve fare ogni “servizio pubblico”); e in questi anni non ha trasmesso solo dibattiti parlamentari, processi e rassegne stampa, ma anche interminabili comizi di Pannella, Bonino & C. contro i loro avversari politici, il cui interesse pubblico sfugge ai più. Come sfugge ai più il servizio pubblico reso dai vari Taradash.
Ora non si capisce perché mai i 5Stelle (la Lega non cambierebbe nulla nemmeno sui fondi all’editoria), dopo aver sempre promesso l’abolizione dei soldi pubblici a testate private e raccolto anche su questo il 33% dei voti, dovrebbe rimangiarsi tutto per fare un’eccezione su Radio Radicale. Né si comprende il senso degli appelli per “salvarla dalla chiusura”. Come se il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi avesse deciso di chiuderla per “spegnere una voce scomoda” (certo, come no). Radio Radicale può continuare le trasmissioni, in parte meritorie e in parte opinabili o detestabili (come quelle di ogni testata), finanziandosi da sé. Anziché promuovere appelli al governo per continuare a farla pagare dai cittadini, i gruppi Repubblica-Espresso e Cairo-Corriere hanno mezzi sufficienti per finanziarla e pure per comprarsela: il segnale – uno dei migliori su piazza, come Radio Maria – costa 3,7 milioni l’anno. Perché non lo pagano loro?
In Rete è molto diffuso l’autofinanziamento collettivo (crowdfunding), con cui si sostengono in tutto il mondo molte nuove realtà d’informazione indipendente. Invece degli appelli al governo, delle mobilitazioni retoriche di Federazione della stampa e intellettuali vari, degli alti lai per la libertà di stampa minacciata, dei soliti strilli della Bonino per “l’insofferenza dei gialloverdi alla libertà di espressione”, del diktat dell’Agcom (ma che diavolo c’entra?) e degli scioperi della fame, basta aprire una sottoscrizione e cominciare a raccogliere fondi. Gli ascoltatori non sono moltissimi (l’ultima rilevazione del primo semestre 2014 ne dava 275 mila al giorno, oltre il doppio di Radio Padania). Ma, se ci tengono tutti davvero, possono pagare un abbonamento annuale, come fanno tanti lettori del Fatto e di altri giornali. Tra i firmaioli ci sono editori e scrittori piuttosto facoltosi: perché non mettono mano al portafogli?
“Liberisti coi soldi altrui” di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 24 aprile 2019
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