domenica 2 settembre 2018

Maurizio Blondet - DA CHEMNITZ ALLA (NUOVA) WEHRMACHT


    

Esattamente una settimana fa iniziavano i cosiddetti fatti di Chemnitz. Riepiloghiamo la vicenda per chi non l’avesse seguita: verso le 03:00 di notte di domenica 26 agosto un tedesco di origini cubane di 35 anni viene accoltellato a morte da due stranieri, uno siriano e l’altro iracheno, dopo un vivace scambio di offese tra diversi gruppi di persone lì presenti. E’ un vero peccato che ancora una volta i liberi media tedeschi non abbiano adempiuto al loro dovere di informazione, fornendo maggiori dettagli che invece sono stranamente mancati. E’ probabile che a quell’ora della notte l’alcool unito alla stanchezza abbiano fatto il resto. Fatto sta che il giorno dopo gruppi di tedeschi, che nel frattempo si sono organizzati con il solito tam tam di Facebook ed altri social, hanno diffuso col passaparola la notizia dell’accoltellamento in piazza e sono scesi in strada a protestare. La rabbia per la morte di uno di loro era incontenibile e, sempre secondo i liberissimi media tedeschi, si è verificata una vera caccia allo straniero oltre che a giornalisti, che notoriamente sono presenti numerosi la domenica mattina a Chemnitz ed ovviamente riconoscibili da lontano, così come ad attivisti di sinistra. Le proteste sono continuate il giorno dopo; come da tradizione i cittadini tedeschi per protestare si riuniscono il lunedì sul tardo pomeriggio e difatti puntuali si sono assembrati migliaia di arrabbiati assieme a gruppi riconducibili all’estrema destra identitaria. Quest’ultimi come da rituale sono stati etichettati da tutta la stampa tedesca e non come nazi. Dall’altra parte della strada, anche qua come da tradizione in eventi del genere, sono accorsi anche da fuori Chemnitz gruppi dei centri sociali e cittadini di sinistra. I manifestanti sono stati divisi da un cordone di polizia che ha evitato che ne scappasse un altro morto anche se non hanno potuto evitare lanci di pietre ed altro. Per ora fermiamoci un attimo qui...

Come italiano mi sento orgoglioso di non aver mai letto nè udito di episodi simili avvenuti nella nostra penisola. Vi sono stati di sicuro episodi di violenza singola, ronde di cittadini che volevano sostituirsi in maniera sincera ma grottesca alla polizia contro il degrado delle loro città od anche più di recente improbabili cacciate di vu cumpra nella spiagge vicino Roma da parte di attivisti di Casa Pound, che sono sicuro non abbiano mai letto le opere di quest’ultimo poeta americano. Tuttavia cacce all’uomo e pogrom, vera tradizionale secolare in diversi paesi dell’Europa orientale, in Italia non hanno mai trovato spazio anche forse grazie alla presenza della Chiesa Cattolica che ancora oggi funge da istituzione che spesso si sostituisce allo Stato colmandone le lacune.
Manifesti che invitano ad arruolarsi nelle forze armate merkeliane.
Detto questo, cerchiamo di analizzare in maniera razionale quanto è accaduto. Innanzitutto se a scendere in piazza sono stati migliaia di nazi e nostalgici del Terzo Reich intenti ad inneggiare col saluto romano, allora qualcuno mi dovrebbe spiegare come mai i nazisti dell’Illinois, anzi della Sassonia, non abbiano nemmeno sfiorato l’imponente busto di Karl Marx situato nella piazza principale da loro scelta per manifestare. Infatti c’è da sapere che la città  di Chemnitz si trovava nella DDR comunista, ossia la Germania dell’Est. Difatti il nome modificato dal ’45 in poi della città, nel frattempo distrutta dai bombardamenti angloamericani, fu Karl Marx Stadt, letteralmente la città di Karl Marx Stadt. Il maestoso monumento ritraente il vecchio Karl venne inaugurato nel 1971 di fronte ad una folla di 250mila persone, che aspettarono imperterrite ore prime che il velo che copriva il monumento venisse svelato. Poi nel 1991 la città riprese l’originario nome di Chemnitz, previo regolare referendum locale, ma il monumento non venne toccato, anzi possiamo affermare che esso sia il vero simbolo della città sassone. Per curiosità dietro il busto è presente una facciata di un palazzo governativo su cui è scritto Proletari di tutto il mondo unitevi!” in tedesco, russo, inglese e francese. Ebbene dicevamo che qualora ad aver manifestato siano stati in effetti migliaia di camice brune assettate di sangue, per quale strana ragione non hanno pensato come primo gesto di imbrattare il monumento simbolo del fondatore del Comunismo, loro principale ideologia nemica? In Ucraina ed altri paesi orientali le bande naziste (quelli veri e non inventati) sono arrivati spesso a distruggere o rimuovere statue di Lenin e del periodo bolscevico; questo è avvenuto in epoca recente soprattutto nell’Ucraina vittima del colpo di stato anti-russo e filo-occidentale del 2014 ma purtroppo sono notizie presenti solo su qualche oscuro blog complottistico.
[….]
A questo punto si apre la seconda fase di lettura dei fatti, quella più importante. Chi segue questo blog, sa che molto spazio è stato dato alla questione orientale. Mentre tutti i media all’unisono vogliono convincere ed autoconvincere che gli unici responsabili dei disordini siano stati i nazisti, considerando il problema orientale come una mera questione d’ordine pubblico, le vere cause del disagio sono ben altre. Dal 1989 la DDR è stata fagocitata dal governo occidentale; intere fabbriche, molte delle quali ancora efficienti e produttive, vennero smantellate o chiuse per poi essere acquistate a prezzi scandalosamente bassi dai gruppi industriali dell’Ovest capitalistico. Sempre a partire dalla riunificazione delle Germanie, in verità mera annessione da parte di quella occidentale nei confronti di quella orientale come vedremo tra un po’, milioni di lavoratori orientali persero da un giorno all’altro il loro lavoro e furono costretti ad emigrare all’Ovest per richiedere un’occupazione. Tuttavia i loro salari furono sempre più bassi rispetto a quelli dei loro “fratelli” occidentali; ancora oggi il reddito dei länder ex comunisti corrisponde mediamente al 75% delle regioni ad Ovest. Il fatto di dover emigrare e dover accettare paghe più basse a parità di mansione fu un vero e proprio shock ancora oggi mai studiato con sufficienza; ad aumentare la delusione fu l’abitudine perfidamente comunista di costringere tutti i cittadini, anche e soprattutto le donne, a lavorare. Pertanto fenomeni come la disoccupazione di massa ed altre misure che sarebbero state introdotte negli anni seguenti, come il sussidio Hartz IV, non erano concepibili nemmeno mentalmente in regioni dove il lavoro ed una casa erano diritti costituzionalmente garantiti, mentre la disoccupazione e la pigrizia sul posto del lavoro crimini sociali condannati da tutti anche solo nell’immaginario collettivo. Senza contare che la parità tra i due marchi delle rispettive Germanie voluta dal Cancelliere Kohl costrinse appunto molte aziende orientali a chiudere bottega e molti cittadini ex comunisti si ritrovarono ad avere i propri risparmi di una vita senza un reale valore, come fossero carta straccia. Questo provocò sofferenza, umiliazione e rabbia che durano fino ad oggi. Per chi volesse approfondire il tema delle problematiche legate alla cosiddetta riunificazione tedesca, consiglio il seguente video dell’economista Vladimiro Giacchè.
Quest’ultimo intellettuale si è laureato in Filosofia alla Normale di Pisa, ha studiato anche a Bochum, è presidente del Centro Europa Ricerche e negli ultimi anni si è concentrato nei suoi scritti sulle crisi del capitalismo e dell’Unione Europea che sono ben lungi dall’essere risolvere. Abbiamo definito la riunificazione con l’aggettivo cosiddetto, anche dal momento che Giacchè stesso ha voluto impiegare nel suo libro e nel video citato di presentazione un termine che in Germania viene considerato tabù ed evoca memorie oscure: Anschluss. Questa parola venne impiegata nel 1938 non appena l’Austria venne annessa dalla Germania nazista, che così inaugurò una lunga serie di annessioni territoriali in Europa che avrebbero dovuto porre le basi per la fondazione del proprio Reich (impero) millenario. Capisce bene il lettore come il termine Anschluss non possa venire liberamente usato in Germania come se niente fosse, ma è proprio per provocare una reazione ed anche curiosità che lo studioso ha deciso di usarlo come titolo del suo libro; la sua opinione è che dopo il Crollo del Muro nel ’89 non sia avvenuta una riunificazione tra due soggetti con pari diritti e dignità, bensì un’annessione da parte del soggetto capitalistico più forte ad Ovest nei confronti del più debole ad Est, il quale è stato presto fagocitato, umiliato e privato per sempre anche di quei istituti giuridici ed apparati industriali che comunque garantivano diritti ed un certo grado di benessere maggiore rispetto a quello degli altri paesi del Patto di Varsavia.
Nel video in questione lo studioso cita pochi ma eloquenti dati: a causa della parità 1:1 tra i due marchi decisa anzi imposta dal governo occidentale di Bonn la maggior parte delle aziende all’Est venne dichiarata insolvente in pochi giorni. Ciò ebbe delle conseguenze devastanti in termini economici; sempre Giacchè afferma che tra il 1989 e il 1991 il prodotto interno lordo della Germania Est era sceso del 44%, crollo che non ha molti precedenti nella storia moderna. Inoltre la produzione industriale era calata nello stesso periodo di tempo del 65%! Se teniamo conto che durante i governi europeisti di Monti, Letta e Renzi che avrebbero “salvato” l’Italia, la nostra produzione industriale è calata del 25% causando un’emigrazione senza precedenti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale di centinaia di migliaia di italiani all’anno, allora forse riusciamo a capire le proporzioni del collasso economico verificatosi all’epoca nelle regioni orientali tedesche. Una vecchia conoscenza dei greci come l’ex Ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, all’epoca Ministro degli Interni della Germania Ovest oltre che responsabile delle negoziazioni per la riunificazione economica prima e finanziaria poi delle due Germanie, ebbe ad annotare nelle sue memorie: “A Lothar de Maizière era ben chiaro che con l’introduzione della moneta occidentale le imprese della DDR di colpo non sarebbero più state in grado di competere.” Per la cronaca politica De Maizière era stato l’ultimo Presidente del Consiglio della Repubblica Democratica Tedesca per poi passare alla CDU guidata all’epoca da Kohl.
Questi tremendi dati macroeconomici raramente vengono snocciolati dai media tedeschi. Sarebbe in un certo senso come ammettere il fallimento di un progetto politico voluto e guidato esclusivamente dal governo tedesco e mai messo in discussione. Molto più facile etichettare gli oppositori e i delusi della politica degli ultimi 30 anni come nazisti e razzisti ignoranti. Infatti anche quel che rimane della sinistra in questo momento rappresentata al Bundestag e le sue frange radicali di fatto scendendo in piazza e scandendo stantii slogan antifascisti, difendono il governo Merkel e le politiche liberistiche operate nei länder orientali, senza comprendere le ragioni ed il disagio profondo di milioni di persone che anni dopo la riunificazione votavano ancora i partiti di sinistra. A questo punto definire come puro caso l’affermazione elettorale dell’Afd ad est del paese oppure bollarlo come sintomo di razzismo ed ignoranza delle popolazioni locali, risulterebbe un insulto all’intelligenza. Non sarà nemmeno un caso che i partiti di estrema destra abbiano raccolto voti a piene mani nelle regioni facenti parte della vecchia DDR e che non sono contrassegnate da una maggior presenza di stranieri, che invece sono più numerosi ad Ovest, bensì­ da più alti tassi di disoccupazione rispetto al resto del paese. Ancora una volta le statistiche ufficiali ci vengono incontro: secondo la fonte Statista.de, il quale viene considerato il sito maggiormente affidabile in Germania per la raccolta di statistiche e rilevamenti di sondaggi, il tasso ufficiale di disoccupazione in Germania è del 5,2%, mentre quello per le sole regioni orientali raggiunge quota 6,8%. In tutti i länder ad est la disoccupazione si mantiene su livelli più alti di quello nazionale: nel Sachsen (regione di Chemnitz) è del 5,8%, nel Brandenburg del 6,2%, nel Mecklenburg-Vorpommern (regione di nascita della Merkel) addirittura del 7,5% ma il culmine di disoccupati viene raggiunto nella regione della Sachsen-Anhalt con il 7,6%. Tutti questi länder, come detto, facevano parte della DDR e tutti hanno conosciuto le medesime difficoltà  economiche ben raccontate da Giacchè. In verità  le cifre sarebbero ben diverse in senso negativo se includessero anche i lavoratori a salari bassi (geringfügig entlohnte Beschäftigte). La Bundesagentur für Arbeit, che altro non è che l’Agenzia Federale col compito di erogare i sussidi di disoccupazione e di trovare dei lavori per gli inoccupati, ha pubblicato sul suo sito ufficiale un report che attesta come in Germania vi siano qualcosa come 4.734.500 persone che vivono solo con un salario basso (per esempio Minijobs da 450 Euro al mese ma non solo) mentre ve ne sono altre 2.834.600 che associano alla loro attività lavorativa oppure al sussidio Hartz IV un lavoro sussidiario (Nebenjobs). In totale fanno la bellezza di 7 milioni e mezzo di lavoratori poveri nel paese considerato da tutti gli autorevoli analisti come il più ricco d’Europa. Senza contare che molti di questi nuovi poveri tengono moglie e figli, che di sicuro non vivono di agiatezza, e senza poi dimenticare quei 4 milioni di persone, tedesche e straniere, che ancora oggi percepiscono il sussidio sociale cosiddetto Hartz IV (400 Euro netti al mese con l’aggiunta della copertura statale di alcune spese come parte dell’affitto e l’assicurazione sanitaria). Parliamo perciò di un “indotto” di povertà  crescente, che trova il suo epicentro proprio in quelle regioni orientali interessate dal voto di protesta di milioni di elettori verso Alternative für Deutschland, partito bollato in maniera volutamente superficiale da tutti gli organi di stampa tedeschi come populista e razzista.
Potremmo concludere citando che ancora nel 2018, alla vigilia cioè del trentennale della riunificazione o annessione che dir si voglia, nella busta paga di ogni singolo lavoratore in Germania è presente una trattenuta progressiva alla fonte sul salario lordo che viene definito “Solidaritätszuschlag”. Quest’ultima trattenuta sulla busta paga altro non è che un contributo di solidarietà che ogni lavoratore obtorto collo versa per le regioni povere della Germania, quelle insomma citate sopra. Allora forse la riunificazione non è stato un successo totale se i costi li devono sostenere tutti i lavoratori odierni, sia stranieri che tedeschi, dopo quasi trent’anni dagli eventi. La bomba sociale situata ad Est è ormai esplosa e ritengo che le proteste violente a cui abbiamo assistito altro non sia che la punta di un iceberg che rischia di risalire completamente dalle acque in cui è stato sapientemente tenuto sommerso dai partiti governativi e dai media complici. L’uccisione di un tedesco da parte di due richiedenti asilo, uno dei quali da anni illegalmente residente in Germania, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso costruito ad arte nel 1989. Un’altra certezza è che la sindrome da accerchiamento della Germania moderna, già descritta in precedenti articoli e che riguardava prevalentemente il combinato disposto della Russia ad est e delle potenze anglosassoni ad ovest, è ormai entrata dentro i confini germanici coinvolgendo i cittadini tedeschi mai come ora divisi tra di loro. Già  si parla pubblicamente di clima da guerra civile, di società parallele fisiche o virtuali che devono essere smantellate e di partiti estremisti da sciogliere o almeno da tenere sotto costante osservazione poichè incostituzionali. Non male davvero per un paese ritenuto cardine di stabilità e che, assieme alla Francia del sempre meno popolare Macron, dovrebbe trascinare tutti noi europei fuori dalle paludi della crisi economica che quest’anno ha festeggiato  il suo decennale. Per tutto il resto c’è il perenne antifascismo in assenza di fascismo. E la guerra, natürlich.

Nessun commento:

Posta un commento