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Non so voi, ma io sono seriamente preoccupato per le condizioni di Giovanni Tria, Vincenzo Boccia e Carlo Calenda. Di Tria sappiamo che è nato a Roma, ha appena compiuto 70 anni, insegna a Tor Vergata, e fin qui tutto bene. Ma ha pure lavorato con Brunetta, siede nella Fondazione Craxi, scriveva sul Foglio, e non si sa quale delle tre cose sia peggio. Nella sua prima e unica intervista, concessa a Federico Fubini del Corriere appena insediato al Mef, apprendemmo dall’intervistatore che “Tria è un professore dal sorriso ironico dietro il quale s’intuisce la capacità di irrigidirsi per le cose in cui crede”. E dall’intervistato che la manovra “sarà del tutto coerente con l’obiettivo di proseguire sulla strada della riduzione del rapporto debito-Pil… Non devono esserci dubbi… L’attenzione a far scendere il debito non è opportuna perché ce lo dice l’Europa, ma perché non è il caso di incrinare la fiducia sulla nostra stabilità finanziaria… Confermo l’obiettivo di un calo del debito nel 2018 e nel 2019… Per quest’anno è già tutto determinato e presidierò perché nulla cambi. L’obiettivo del 2019 è di proseguire”....
Invece poi è cambiato tutto: deficit-Pil al 2,4% per tre anni e più debito. A suggerire Tria come ministro dell’Economia era stato Paolo Savona, respinto da Mattarella perché sospettato di volersi far esplodere come i kamikaze alla prima riunione a Bruxelles, poi fatto brillare dagli artificieri del Colle nel deserto del Nevada e dirottato agli Affari europei (sic). Eppure, inspiegabilmente, Tria era subito divenuto il beniamino di opposizioni e giornaloni al seguito, che lo incensavano come uno di loro (o di Mattarella, o dell’ignaro Draghi): “Garante”, “argine”, “baluardo”, “diga” contro gli scavezzacollo “populisti” che l’avevano scelto. Ora che li ha così amaramente delusi, i suoi fan inventano scuse: bullizzato e brutalizzato da quegli energumeni di Salvini e Di Maio, anche con l’uso delle armi, poi rinchiuso per ore a pane e acqua nelle segrete di Palazzo Chigi per costringerlo alla resa e infine liberato in cambio della firma sul Def, l’Uomo Diga aveva dato le dimissioni. Ma una straziante telefonata di Mattarella l’aveva poi bloccato sulla soglia, costringendolo a restare ostaggio di quella gang di bruti. E lui s’è immolato. Non per la poltrona, ma per il bene supremo della Nazione. Ma tu guarda come deve ridursi un professore dal sorriso ironico dietro il quale s’intuisce la capacità di irrigidirsi per le cose in cui crede. L’altroieri, per dire, gli è toccato “partecipare a riunioni al mattino e al pomeriggio nonostante fosse il giorno del suo 70° compleanno” (Corriere).
Una vita d’inferno. “E chissà se il break per il brindisi di auguri e il regalo ricevuto dai suoi collaboratori (tutta la squadra scelta da Padoan e astutamente confermata da Tria, ndr) lo avranno aiutato a riprendersi”. Ah saperlo. Ciò che conta è che è “rimasto per non aggravare la corsa dello spread”. Perché si sa com’è fatto, questo spread: se non c’è Tria galoppa, se c’è Tria rallenta. E così, pur “provato”, “Tria continuerà a osservare la reazione dei mercati”. Compleanni, onomastici e feste comandate inclusi. La piccola vedetta romana non è la sola, del resto, a vigilare. Alle sue spalle – informa sempre il Corriere – altri due occhi han trascorso “una mattinata a sorvegliare il barometro di mercati e finanza”: quelli di Mattarella, a cui imprecisati “interlocutori” ripetono, per fargli coraggio, che “passeremo giorni anche peggiori”. Lui però è “preoccupato anche della ‘tenuta’ del ministro Tria”, che è un po’ come certi rubinetti un po’ vecchiotti: alla lunga, non tengono e sgocciolano. Figurarsi che “giovedì era stato spregiudicatamente minacciato da Di Maio e Salvini” e alla fine aveva dovuto “arrendersi”, perché ci tiene alla pelle, “per carità di patria e sensibilità nei confronti di Mattarella”. Fortuna che il presidente “nella sua storia politica ne ha viste tante”, tipo i suoi vari partiti (Dc, Ppi, Margherita e Pd) che moltiplicavano i pani e i pesci del debito predicando rigore e austerità. Lui comunque “già si prepara a un supplemento di sorveglianza”. E sono soddisfazioni.
Poi c’è Boccia, presidente di Confindustria. A raccomandare questo oscuro tipografo salernitano, nel 2016, era stato Renzi, allora padrone d’Italia, che sognava – scrisse il Foglio – “la Confindustria della Nazione”. Boccia lo ripagò spalmando la corporazione su di lui e facendo l’uomo-sandwich del Sì al referendum e delle altre “riforme” renziane (quasi tutte copiate da quelle confindustriali). Diramò una presunta ricerca dell’Ufficio studi che vaticinava la bancarotta dell’Italia in caso di vittoria del No, infatti il 2017 fu l’anno migliore degli ultimi 10. La Lega, con Calderoli, lo definì “il nuovo portavoce del governo Renzi”, senza offesa per Filippo Sensi. Un anno fa si parlava di lui come ministro dello Sviluppo nell’auspicato governo Renzusconi, senza offesa per Carlo Calenda (sempre presente e tonitruante alle assemblee di Confindustria, da cui del resto proveniva e non riusciva a staccarsene). Poi il 4 marzo le cose andarono come andarono. Boccia, sul governo giallo-verde, partì critico, e minacciò addirittura di scendere in piazza. Ieri, sorpresa: “Confindustria crede fortemente nella Lega”. Ohibò: dev’essergli bastata la parolina magica “condono”. Ora Calenda, l’amante tradito, è affranto: “Vergogna, mai un presidente aveva fatto un endorsement a un partito (fuorché al Pd, ndr)”. E Boccia: “Zitto tu che non riesci nemmeno a organizzare una cena”. Che Confindustria sarebbe diventata governativa, non avevamo dubbi. Ma che avrebbe seppellito Calenda questo no, proprio non potevamo immaginarlo. Sono sempre i migliori quelli che se ne vanno.
“Tre uomini in barca”, di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 30 settembre 2018
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