di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Ormai da oltre un decennio, i Paesi membri dell’Unione Europea hanno provveduto alla modifica del quadro contrattuale che disciplina le negoziazioni del gas con le nazioni produttrici, formalizzata con il passaggio dal modello take or pay oil-link a quello spot, vigente nel mercato regionale americano.
Quantomeno in un’ottica di breve termine, perché sul medio periodo il discorso cambia radicalmente. Interpellato dal sempre lucido e acuto Demostenes Floros, Sergeij Komlev, direttore del settore contratti e prezzi di Gazprom, ha spiegato in proposito che, a differenza del modello take or pay oil-link, foriero per oltre un quarantennio di «grandi opportunità di sviluppo e prosperità», per il settore del gas, il paradigma spot «genera prezzi al di sotto dei livelli ottimali, a causa delle carenze di mercato caratteristiche del gas naturale come materia prima unica […]. Quando i prezzi del gas scendono al di sotto dei costi di liquefazione, le vendite di Gnl [più costoso del gas trasportato via conduttura] coprono soltanto i costi marginali a breve termine. Sebbene i flussi di Gnl possano proseguire in questo solco per molto tempo, a vantaggio degli utenti finali, il ribaltamento dell’equilibrio di interessi tra acquirente e venditore è pericoloso per il settore del gas nel suo complesso. Prezzi al di sotto dei valori ottimali pregiudicano la capacità del settore di attirare finanziamenti esterni e, di conseguenza, mettono a rischio il successivo ciclo di investimenti a lungo termine». Vengono così a mancare le risorse finanziarie necessarie alla messa a punto di tecniche estrattive e di lavorazione del gas in grado di incrementare la produzione, con ovvie ripercussioni in termini di incremento del prezzo finale in presenza di un aumento della domanda.
Contributi supplementari a quello apportato dal circolo vizioso descritto da Komlev ma parimenti determinanti ai fini della risalita vertiginosa del prezzo del gas a cui gli europei hanno assistito a partire dalla fine del settembre 2021 sono venuti dall’incremento forsennato della domanda cinese successivo alle quarantene pandemiche e, soprattutto, dalla speculazione incontrollata resa possibile dalla caratteristiche strutturali del mercato spot. Il prezzo del gas come materia prima viene infatti determinato presso hub fisici di negoziazione come il Title Transfer Facility di Amsterdam soltanto in misura molto parziale dal rapporto tra domanda e offerta. Nella capitale olandese, il prezzo originario dei contratti di durata giornaliera – cioè proprio quelli caldeggiati dall’Unione Europea – viene spesso definito da rivenditori che immettono sul mercato le quote di gas precedentemente acquistate dalle grandi compagnie energetiche a prezzi inferiori, ai sensi di contratti segreti. A questo primo livello di speculazione va però a sovrapporsene un altro, di gran lunga più incisivo: quello costituito dalle scommesse sul prezzo del gas definito presso l’hub di Amsterdam o su altri listini effettuate spesso a leva da hedge fund, società di investimento e grandi banche. Nel marzo del 2022, sul Ttf di Amsterdam erano esposti 218 soggetti finanziari, tra cui 164 fondi speculativi, a fronte di appena 134 soggetti commerciali concretamente preposti alla compravendita di gas a fini produttivi.
Naturalmente, in corrispondenza di congiunture storiche caratterizzate da un elevato livello di conflittualità internazionale, la prospettiva di una disarticolazione più o meno grave delle tradizionali catene di approvvigionamento acquisisce inesorabilmente credibilità e verosimiglianza. L’insicurezza generalizzata che ne deriva alimenta giocoforza la speculazione al rialzo sul prezzo delle materie prime, trainata come sempre dai grandi operatori globali.
L’incremento forsennato dei prezzi verificatosi a partire dall’inizio del terzo trimestre del 2021 e protrattosi fino alla fine del 2022 rifletteva proprio l’esasperazione delle tensioni geopolitiche, alimentata dapprima dal tintinnio di sciabole lungo il confine russo-ucraino dell’aprile del 2021, e successivamente dell’invasione russa dell’Ucraina e delle sanzioni che ne sono seguite. Allo stesso modo, il crollo verticale dei prezzi registratosi da metà dicembre del 2022 era imputabile all’inversione delle tendenze speculative, dovuta soprattutto alle aspettative fortemente negative riguardo all’impatto che le implicazioni energetiche della guerra avrebbero prodotto sulle economie europee. Più specificamente, la sostituzione degli approvvigionamenti di metano russo via conduttura con le ben più costose forniture di Gas Naturale Liquefatto di origine statunitense e/o qatariota avrebbe sbattuto fuori mercato buona parte dell’industria del “vecchio continente”, e segnatamente quella tedesca.
La Germania è ormai entrata pienamente in recessione tecnica: nel primo trimestre del 2023, infatti, il Pil tedesco ha segnato il secondo calo consecutivo, pari allo 0,3%, in seguito alla diminuzione dello 0,5% registrata nel quarto trimestre del 2022. La forte dipendenza energetica dagli approvvigionamenti russi, che coprivano il 50% del fabbisogno tedesco, ha reso il Paese vulnerabile allo shock in misura addirittura maggiore rispetto all’Italia, comunque alle prese con una riduzione continua della produzione industriale che si protrae dalla metà del 2022 ed è all’origine della contrazione del Pil pari allo 0,4% nel secondo trimestre del 2023.
La stagflazione attanaglia tuttavia non solo Germania e Italia, ma anche gran parte dei Paesi europei, integrati al pari del “bel Paese” nella catena del valore tedesca in qualità di subfornitori, di “periferia fordista” dell’hub industriale teutonico. La combinazione tra inflazione alle stelle e deficit di bilancia commerciale pari a 432 miliardi di dollari registrato dall’Unione Europea nell’arco del 2022 rappresenta una eloquente “cartina tornasole” delle difficoltà in cui va imbattendosi il “vecchio continente”.
La speculazione al ribasso sul prezzo del gas che ha cominciato a prendere corpo verso la metà del dicembre 2022 nasceva quindi dalla previsione che l’economia europea sarebbe finita in recessione, con conseguente caduta verticale della domanda di metano da parte del “vecchio continente”.
È interessante notare che il passaggio dal modello take or pay oil-link a quello spot, gravido di ripercussioni letteralmente devastanti per famiglie e imprese a partire dalla seconda metà del 2021, era stato caldeggiato dalle istituzioni comunitarie europee dietro forti pressioni degli Stati Uniti, che intendevano sia alleggerire la dipendenza energetica europea dalla Russia attraverso una diversificazione dell’offerta, sia comprimere la quotazione del metano per privare la Federazione Russa di una primaria fonte di introito. Ma puntando allo stesso obiettivo perseguito nell’estate del 2014 con lo scatenamento del cosiddetto “oil crash”, gli Usa e i loro alleati/sottoposti hanno finito per alterare gli ormai consolidati e relativamente bilanciati rapporti di forza vigenti a favore del fornitore russo, che ai sensi del nuovo sistema di contrattazione dell’energia ha potuto presentarsi a propria discrezione alle aste quotidiane e negoziare al rialzo al fine di incassare il “prezzo marginale”, sistematicamente elevatissimo. Detto altrimenti, l’aumento vertiginoso delle quotazioni degli idrocarburi ha accresciuto quasi proporzionalmente il volume di entrate non soltanto di un colosso russo del gas come Gazprom, ma anche di giganti russi del petrolio del calibro di Rosneft e Lukoil, dal momento che, con una quota del 25% rispetto all’import complessivo, la Russia rappresentava – e rappresenta a tutt’oggi, anche se in maniera “ufficiosa” per effetto delle sistematiche triangolazioni volte ad aggirare le sanzioni – il principale fornitore singolo di “oro nero” in Europa.
Resta il fatto che l’interruzione degli approvvigionamenti di gas russo, imputabile alle sanzioni irrogate sulla scia del conflitto russo-ucraino ed emblemizzata dal sabotaggio del gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, ha comportato un indebolimento strutturale dell’economia europea, con particolare riferimento al comparto industriale. Lo si evince chiaramente da uno studio realizzato recentissimamente dalla Banca d’Italia, in cui si evidenzia come gli shock da offerta del gas abbiano una capacità di alimentare l’inflazione di gran lunga superiore rispetto a quella propria delle crisi da offerta di petrolio. Nel dettaglio, il documento valuta l’impatto delle variazioni nell’offerta di gas naturale sull’inflazione e sull’attività economica all’interno dell’Eurozona, evidenziando che il calo dell’offerta di gas causa «un rallentamento dell’attività economica e un rialzo dell’inflazione» e che «la peculiare struttura del mercato del gas fa sì che tali effetti si materializzino molto gradualmente, con un picco dell’inflazione per i beni non energetici che segue di oltre due anni lo shock iniziale».
A differenza degli shock petroliferi del passato, quali quelli del 1973 e del 1979, gli effetti negativi ascrivibili a una strozzatura delle forniture di gas tendono a rivelarsi più pesanti e duraturi, dal momento che, recita il rapporto, «un aumento dei prezzi del petrolio all’ingrosso viene immediatamente incorporato nell’indice dei prezzi dell’energia, mentre un aumento dei prezzi del gas impiega circa un anno per propagarsi pienamente, con un impatto finale circa cinque volte più grande di quello iniziale», nonostante gli sforzi profusi dai Paesi europei per riempire in anticipo gli stoccaggi e sostituire le forniture russe con quelle statunitensi, qatariote e australiane.
Anche, come certificato da numerosissimi episodi, dirottando verso di sé carichi di Gnl destinati a Paesi come Pakistan e Bangladesh. I relativi contratti prevedevano sia l’applicazione di tariffe estremamente ridotte in confronto ai prezzi che il Gnl aveva raggiunto sul mercato spot, sia penali relativamente modeste a carico dei fornitori per le mancate consegne. Dietro pressione delle nazioni europee, le compagnie energetiche hanno quindi pagato le penali e riorientato legalmente le spedizioni verso i nuovi acquirenti, incrementando a dismisura gli utili e assicurando al “vecchio continente” regolari approvvigionamenti di gas. Questo gioco al massacro ha tuttavia alienato all’Europa il favore degli Stati dell’Asia meridionale, per i quali la mancata consegna delle forniture già regolarmente acquistate ha comportato un forte incremento dei blackout e il rallentamento dell’attività economica. «L’Europa sta cercando di accaparrarsi ogni molecola di gas ovunque sia disponibile», ha commentato amaramente l’ingegner Mohammad Tamim dell’Università di Dacca. «Sta acquistando di tutto, dal gas attuale a quello futuro. E il suo potere d’acquisto è molto più alto di quello dei Paesi in via di sviluppo. Quindi, ovviamente, nazioni come il Bangladesh, l’India e il Pakistan sono state colpite molto duramente». Saul Kavonic di Credit Suisse si è espresso in termini ancora più espliciti, affermando che «le preoccupazioni per la sicurezza energetica europea stanno alimentando la povertà energetica nel mondo emergente. L’Europa sta risucchiando gas dagli altri Paesi a qualunque costo».
«Le nostre stime – scrivono gli specialisti della Banca d’Italia nel loro rapporto – suggeriscono che la scarsità di gas causata dalla guerra sia stata un fattore chiave all’origine dell’impennata dell’inflazione in Europa nel 2022, e che probabilmente le sue ripercussioni si faranno sentire per tutto il 2023».
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