PS: <<Dovremo accontentarci di inorridire per stragi epidemiologiche più modeste, come i 5mila morti l’anno d’influenza in Italia o gli 11mila che muoiono di polmonite (il triplo degli incidenti stradali), che non si guadagnano manco un trafiletto a pagina 17.>>
umberto marabese
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Ripubblichiamo il post con cui Pino Cabras, capogruppo M5S della Commissione esteri della Camera dei deputati, ha aderito alla campagna #nonabbiamopauradeicinesi contro il razzismo crescente e la sinofobia alimentata da tante fake-news e isteria di massa.
di Pino Cabras
*Aderisco anche io alla campagna #nonabbiamopauradeicinesi*
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Dopo un po’ che non mi era più capitato di andarci, sono tornato in un ristorante cinese. Avevo voglia di riasaggiare quei cibi, ma volevo soprattutto manifestare contro la psicosi del contagio e in disprezzo di chi cerca gli untori e ricorre alle peggiori armi nell’arsenale ben rifornito delle paure irrazionali.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato l’epidemia da nuovo coronavirus 2019-nCoV un’emergenza sanitaria internazionale, la cui gestione è affidata alle prassi ben rodate di sistemi sanitari abituati al trattamento delle malattie infettive. Pochi giorni fa, mentre ero intervistato da Byoblu...
(https://youtu.be/JihpuK5w6v0, al min. 58’10’’) lodavo la scelta del governo di fare affidamento all’Istituto Spallanzani, che definivo quanto di meglio esista a livello globale in questo campo. E già ieri, proprio questo ospedale ha segnato una svolta mondiale con l’isolamento del virus. Insomma, se guardo le cose senza gli occhiali deformanti della cronaca, tutto è già pronto a rientrare in protocolli molto consolidati, con numeri tristi ma banali. La Peste Nera può attendere anche stavolta....L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato l’epidemia da nuovo coronavirus 2019-nCoV un’emergenza sanitaria internazionale, la cui gestione è affidata alle prassi ben rodate di sistemi sanitari abituati al trattamento delle malattie infettive. Pochi giorni fa, mentre ero intervistato da Byoblu...
Dovremo accontentarci di inorridire per stragi epidemiologiche più modeste, come i 5mila morti l’anno d’influenza in Italia o gli 11mila che muoiono di polmonite (il triplo degli incidenti stradali), che non si guadagnano manco un trafiletto a pagina 17.
Chiediamoci dunque perché scattino i cortocircuiti dell’allarmismo, delle notizie urlate, della paura, fino alle congetture più ardite sulle gestioni politiche della crisi sanitaria.
A dispetto delle differenze geopolitiche, esiste in modo trasversale e a livello planetario una forte condivisione di metodi, reti organizzative e interessi nel mondo medico-farmaceutico che ha ereditato i successi di qualche decennio fa contro le malattie infettive. La sconfitta di tante vecchie malattie è un vanto duraturo. Tuttavia è anche vero che ogni mega-apparato - che potrebbe essere ridimensionato una volta raggiunto l'obiettivo - sviluppa una tendenza all'autoconservazione. Come se dicesse: “abbiamo fatto cose indispensabili con risorse eccezionali, vogliamo sempre risorse normalmente eccezionali per continuare a essere indispensabili”. Ogni nuovo fenomeno reale viene perciò visto come eccezionale. E nessuno può fermare la macchina.
I cacciatori di virus mobilitano risorse cognitive potenti per interpretare i fenomeni con un filtro selettivo. Lo psicologo Abraham Maslow diceva che «se l’unica cosa che hai è un martello inizierai a trattare tutto come fosse un chiodo». Parafrasandolo, potremmo dire che «se il più grande successo della medicina è stata la sconfitta mondiale di tante malattie infettive, tratterai ogni virus come una epidemia globale». Si associa a questo una forte mobilitazione pubblica per fermare una qualche nuova peste. Ed entriamo in un tritacarne di paure che guidano le nostre azioni.
Ecco così che ormai da qualche decennio assistiamo alla ripetizione spasmodica di un medesimo scenario, tante “ondate” di malattie infettive che improvvisamente esplodono minacciando un’espansione esponenziale, per rivelarsi poi foriere di effetti globali modestissimi. Abbiamo visto la SARS, e l’Aviaria, e l’influenza A, e la MERS, ecc. Oggi il nuovo coronavirus.
Ogni volta sulla psicologia di interi popoli funziona il karma che ci portiamo da generazioni: la paura delle pestilenze medievali. Il trauma di secoli fa ha lasciato tracce persino nel linguaggio di oggi (“quel bambino è una peste”), ma più in generale in mille atteggiamenti segnati dal timore del grande contagio. Sono miliardi di individui che a quel punto riattivano il karma atterrito dei loro lontani progenitori e chiedono che si faccia di tutto pur di fermare lo sterminio novello.
Ai tempi dell’allarme SARS i giornali arrivarono a pubblicare grafici e ricostruzioni che pretendevano senza ironia di identificare il «paziente zero»: una scenetta in cui un canadese, un cinese e un vietnamita si incrociavano in un ascensore di Hong Kong, e da lì irradiavano la nuova pandemia per l’universo mondo. Avete visto cosa ne è stato della SARS, che poteva «uccidere miliardi di individui». Sono stati classificati come SARS solo ottomila casi in tutto il mondo e meno di ottocento morti.
Ricordo anche una surreale apertura del Tg1, quando la prima notizia fu un fenicottero morto in uno stagno rumeno. «Un altro caso di aviaria? E se passa all’uomo?». E non è che gli altri organi d’informazione si fermassero a riflettere. Ovunque aviaria, pesti suine, polli, fagiani, e allarmi.
Così, eccoci qui, in un mondo in cui da sempre sono esistite le malattie e le influenze stagionali, ma che solo da qualche anno le vede come una guerra spaventosa nonostante i morti siano in declino, e non certo grazie ai vaccini antinfluenzali, che persino secondo «The Lancet», la più importante rivista medica, sono praticamente inefficaci. Come dice l'epidemiologo Tom Jefferson, «c'è tutta un'industria che si sta aspettando una pandemia». Questa insistenza sulle influenze “speciali” non si giustifica scientificamente. Altre malattie simili fanno più morti, ma non suscitano altrettanta attenzione perché non ci sono montagne di soldi né carriere da innalzare su di esse. Lo sviluppo di ognuna di queste nuove epidemie non sta modificando minimamente il trend delle malattie infettive, ma si presenta come un esperimento sociale che offre a chi sta nel giro giusto lauti guadagni, facendo pagare il prezzo ad altri settori.
Quindi il consiglio è: facciamo lavorare chi ne sa, come la ricercatrice dello Spallanzani che con un modesto stipendio ha fatto un lavoro di valore mondiale; prendiamo le precauzioni che servono, senza dar caccia agli untori (sempre somiglianti alle proprie paure); abbassiamo il volume degli allarmi televisivi e delle speculazioni politiche; prepariamoci all’imminente ritorno alla normalità.
E consumiamo questa zuppa del Sichuan, che è squisita. Slurp!
Chiediamoci dunque perché scattino i cortocircuiti dell’allarmismo, delle notizie urlate, della paura, fino alle congetture più ardite sulle gestioni politiche della crisi sanitaria.
A dispetto delle differenze geopolitiche, esiste in modo trasversale e a livello planetario una forte condivisione di metodi, reti organizzative e interessi nel mondo medico-farmaceutico che ha ereditato i successi di qualche decennio fa contro le malattie infettive. La sconfitta di tante vecchie malattie è un vanto duraturo. Tuttavia è anche vero che ogni mega-apparato - che potrebbe essere ridimensionato una volta raggiunto l'obiettivo - sviluppa una tendenza all'autoconservazione. Come se dicesse: “abbiamo fatto cose indispensabili con risorse eccezionali, vogliamo sempre risorse normalmente eccezionali per continuare a essere indispensabili”. Ogni nuovo fenomeno reale viene perciò visto come eccezionale. E nessuno può fermare la macchina.
I cacciatori di virus mobilitano risorse cognitive potenti per interpretare i fenomeni con un filtro selettivo. Lo psicologo Abraham Maslow diceva che «se l’unica cosa che hai è un martello inizierai a trattare tutto come fosse un chiodo». Parafrasandolo, potremmo dire che «se il più grande successo della medicina è stata la sconfitta mondiale di tante malattie infettive, tratterai ogni virus come una epidemia globale». Si associa a questo una forte mobilitazione pubblica per fermare una qualche nuova peste. Ed entriamo in un tritacarne di paure che guidano le nostre azioni.
Ecco così che ormai da qualche decennio assistiamo alla ripetizione spasmodica di un medesimo scenario, tante “ondate” di malattie infettive che improvvisamente esplodono minacciando un’espansione esponenziale, per rivelarsi poi foriere di effetti globali modestissimi. Abbiamo visto la SARS, e l’Aviaria, e l’influenza A, e la MERS, ecc. Oggi il nuovo coronavirus.
Ogni volta sulla psicologia di interi popoli funziona il karma che ci portiamo da generazioni: la paura delle pestilenze medievali. Il trauma di secoli fa ha lasciato tracce persino nel linguaggio di oggi (“quel bambino è una peste”), ma più in generale in mille atteggiamenti segnati dal timore del grande contagio. Sono miliardi di individui che a quel punto riattivano il karma atterrito dei loro lontani progenitori e chiedono che si faccia di tutto pur di fermare lo sterminio novello.
Ai tempi dell’allarme SARS i giornali arrivarono a pubblicare grafici e ricostruzioni che pretendevano senza ironia di identificare il «paziente zero»: una scenetta in cui un canadese, un cinese e un vietnamita si incrociavano in un ascensore di Hong Kong, e da lì irradiavano la nuova pandemia per l’universo mondo. Avete visto cosa ne è stato della SARS, che poteva «uccidere miliardi di individui». Sono stati classificati come SARS solo ottomila casi in tutto il mondo e meno di ottocento morti.
Ricordo anche una surreale apertura del Tg1, quando la prima notizia fu un fenicottero morto in uno stagno rumeno. «Un altro caso di aviaria? E se passa all’uomo?». E non è che gli altri organi d’informazione si fermassero a riflettere. Ovunque aviaria, pesti suine, polli, fagiani, e allarmi.
Così, eccoci qui, in un mondo in cui da sempre sono esistite le malattie e le influenze stagionali, ma che solo da qualche anno le vede come una guerra spaventosa nonostante i morti siano in declino, e non certo grazie ai vaccini antinfluenzali, che persino secondo «The Lancet», la più importante rivista medica, sono praticamente inefficaci. Come dice l'epidemiologo Tom Jefferson, «c'è tutta un'industria che si sta aspettando una pandemia». Questa insistenza sulle influenze “speciali” non si giustifica scientificamente. Altre malattie simili fanno più morti, ma non suscitano altrettanta attenzione perché non ci sono montagne di soldi né carriere da innalzare su di esse. Lo sviluppo di ognuna di queste nuove epidemie non sta modificando minimamente il trend delle malattie infettive, ma si presenta come un esperimento sociale che offre a chi sta nel giro giusto lauti guadagni, facendo pagare il prezzo ad altri settori.
Quindi il consiglio è: facciamo lavorare chi ne sa, come la ricercatrice dello Spallanzani che con un modesto stipendio ha fatto un lavoro di valore mondiale; prendiamo le precauzioni che servono, senza dar caccia agli untori (sempre somiglianti alle proprie paure); abbassiamo il volume degli allarmi televisivi e delle speculazioni politiche; prepariamoci all’imminente ritorno alla normalità.
E consumiamo questa zuppa del Sichuan, che è squisita. Slurp!
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