Anche l’ultimo freno inibitorio si è rotto, in questo carnevale anticipato del governo. Un partito, quello di Renzi, che, dopo aver minacciato una mozione di sfiducia al guardasigilli lunedì scorso, sulla giustizia vota stabilmente con le opposizioni, contro il “suo” governo e assieme al “Matteo sbagliato”, spedito oggi a processo per sequestro di persona. Un altro che si prepara a scendere in piazza contro il “sistema” di cui ormai fa parte, e dunque contro se stesso. Interessante la location, una piazzetta che si riempie solo con le scorte e le auto blu dei ministri presenti, non lontana da palazzo Chigi e da quel balcone dove fu “abolita la povertà”. Il presidente del Consiglio, novello Conte Zio, che tra un infruttuoso “troncare” e un altro infruttuoso “sopire”, alla vigilia dell’ennesimo consiglio dei ministri notturno, certifica la sua impotenza nell’ assenza di uno straccio di iniziativa politica...
In altri tempi, quando la politica aveva una sua logica e una sua grammatica, per molto meno si sarebbe preso atto di una crisi oggettiva. E invece ci si prepara a un nuovo capitolo della storia infinita: un disegno di legge sulla prescrizione, su cui già si sa che un pezzo della maggioranza è contraria, tanto non succede niente. È il carnevale di una vittoria di Pirro che si nutre di paradossi. Perché è vero che Renzi ha incassato ciò che sembra una vittoria tattica: stoppato l’emendamento al mille-proroghe che avrebbe dovuto recepire il lodo Conte, stoppata anche l’ipotesi di un “decreto ad hoc”, può dire “senza di me non si va avanti”. Il che rappresenta, dal punto di vista dell’Io, un bel compiacimento.
Ma questa strategia del revanchismo narcisistico, in definitiva ha prodotto il solo risultato (paradossale, appunto) che, nel gioco di chi ha vinto e chi ha perso, ha vinto per ora solo Bonafede, a dispetto delle sue stesse intenzioni. Affossare il compromesso che aveva raggiunto il Pd, con Cinque stelle e Leu, significa mantenere la normativa vigente, ovvero quell’“ergastolo processuale” contro cui Renzi aveva scatenato la crociata. È la cronaca di una politica ridotta a sotterfugio, parossismo tattico, guerriglia meschina, priva anche dell’estetica e della tensione delle questioni di principio. Mai si è vista una grande battaglia condotta con una raffica di emendamenti, giochetti in commissione, piccolo cabotaggio, senza capire quale sia, oltre al compiacimento personale, l’obiettivo e il punto di caduta di questa storia. Si capisce che tutto il ballo in maschera si fonda su un’unica, condivisa consapevolezza. E cioè che, comunque vada, non succederà nulla in termini di ricadute sul governo, altro che crisi. Renzi lo sa, e gioca, gli altri non sono disposti ad aprire una crisi e prendono atto, giustificando l’immobilismo con la retorica del “fascismo che avanza”, il Pd dice “basta sceneggiate”, ma la sceneggiata continua. In fondo cosa c’è in campo, in questa battaglia presentata come campale, nell’indifferenza totale del paese? Solo un rinvio, perché di questo si parla: un disegno di legge, che accompagna la riforma del processo penale, i cui tempi, come per tutti i disegni di legge, sono lunghi, che consente di far finta che il problema è affrontato, ma nel frattempo resta in vigore, appunto la legge Bonafede.
Diciamo le cose come stanno: la giornata di oggi è paradigmatica. L’unico momento unitario è contro Salvini, col voto sulla Gregoretti, che richiama l’atto costitutivo e l’unico collante di fondo su cui è nato il governo. Il perché esiste. E infatti è un voto “politico”, in cui il leader della Lega viene mandato a processo anche da chi, ai tempi del governo, aveva condiviso la sua scelta e da Renzi che nel merito l’aveva contestata, ma, a proposito di convinzioni pret a porter, stavolta non sfoggia il repertorio della politica che “non si fa processare”. Ma nelle stesse ore in cui il Senato votava l’autorizzazione al processo, nell’altro ramo del Parlamento la seduta è durata un paio d’ore, dopo aver ratificato qualche inutile mozione sull’“abuso di antibiotici”, come accade ormai da dopo l’approvazione Finanziaria: non è stato varato un solo provvedimento degno di questo nome, mentre a palazzo Chigi va in scena il Festival del rinvio, dall’Ilva al rifinanziamento del prestito per Alitalia, per non parlare dei decreti sicurezza e in attesa del prossimo valzer su Autostrade. Ecco, esiste, ma non è operativo su nulla, paralizzato dai rigurgiti identitari dei partiti in fase calante, Renzi e i Cinque stelle, come sempre accade: più cali, meno sei disposto ad ammainare le tue bandiere.
Il paradigma è una sorta di “equilibrio del terrore”, inteso come terrore del voto: un dato così acquisito e così introiettato da consentire di giocare a fare maggioranza e opposizione all’interno dello stesso campo. Perché “tanto non si vota”. Un po’ come avveniva nei primi mesi del governo gialloverde, prima che l’altro Matteo fosse travolto dalla suggestione dei pieni poteri, suggestione che, però, questo Matteo realisticamente non ha, consapevole dei sondaggi che girano. Dove sia il paese con le sue urgenze si chiamino Libia o economia, in questa dinamica, non è dato sapere. Immaginabili i prezzi che paga a una idea astratta di stabilità.
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