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La telefonata notturna è un match: “Io – dice il capo dei Cinque stelle - al ruolo di vicepremier non rinuncio”. Per l’ennesima volta, Zingaretti ripete: “Per me non è accettabile lo schema dei due vicepremier dello stesso partito. Conte non è un garante, una figura terza, ma è un leader del Movimento. Se si fa un patto questo significa che c’è un vicepremier dell’altro partito. Punto”. A quel punto Di Maio si fa prendere dalla foga: “Allora facciamo tre vicepremier e tu ne prendi due”. Finisce così, col segretario del Pd che si mostra indisponibile ad andare avanti su questi presupposti...
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È in un clima di tensione che il segretario del Pd convoca i big del suo partito. La tenzone telefonica, l’annuncio che l’eventuale accordo sarà sottoposto al voto su Rousseau vissuto come uno “sgarbo”: nella war room del Nazareno volano parole crude, alcune irriferibili: “C’ha ragione Salvini, sono dei poltronari inaffidabili” sbotta qualcuno. Il più anglosassone resta Andrea Orlando: “Abbiamo risolto i problemi del governo. Ora ci manca di risolvere i problemi di Di Maio”.
Il vicepremier è l’ostacolo. Altro che paragoni col compromesso storico, come dice qualcuno. La trattativa è un mercimonio tra partiti che si odiano, avvolti da una nube di sfiducia e insofferenza. Asserragliato nel suo bunker per tutto il giorno Di Maio gioca apertamente contro. Evita anche la riunione dei suoi parlamentari per sfuggire al “processo”, perché i gruppi sono favorevoli all’accordo col Pd. La sua è una guerra personale fuori e dentro il Movimento.
Col primo colpo basso di mattina. Alle 10,15, appena Nicola Zingaretti e Andrea Orlando salgono in macchina per andare all’incontro con Di Maio, vengono raggiunti da una telefonata dello staff: “È appena uscito un comunicato dei Cinque stelle che parlano di incontro saltato, perché il Pd pensa solo alle poltrone…”. Un quarto d’ora dopo il segretario del Pd è nel suo ufficio, torvo in volto. E chiama Giuseppe Conte: “Parliamoci chiaro, così non si va avanti. O la prendi in mano tu, o salta tutto”.
È la prima, di una serie di telefonate, nel giorno più lungo. Mentre con Di Maio i contatti sono pochi e affidati a brevi e asciutti messaggi. Riceve assicurazioni il segretario del Pd, mai definitive, nel corso di colloqui tra persone che parlano lingue diverse. Il punto è lo schema politico. Per il Pd il via libera a Conte, che c’è, deve essere accompagnato da una “discontinuità” nell’assetto. Perché non è accettabile per il Pd che il nuovo governo sia un “rimpasto del precedente”. Che preveda un premier “garante” e due vicepremier dei due stipulatori di un “contratto”. Quindi la precondizione è che Di Maio rinunci alla sua impuntatura di rimanere vicepremier. E rinunci alla casella del Viminale. È questo l’oggetto di una serie di colloqui, fino allo sfinimento: “Il punto – spiega Zingaretti a Conte – è politico. Tu non sei una figura terza, ma un leader politico del Movimento”. Il premier, più volte, prova a resistere, sfidando anche i nervi di parecchi al Nazareno: “Ma perché? – dice - Io non ho la tessera”. Qualcuno nella stanza del segretario commenta: “Questo non capisce un c…. Sono degli incompetenti”.
È il punto, la “natura” di Conte, che qualifica la natura stessa del governo, la logica che lo anima, la dinamica si produrrà. Far passare il concetto che il premier dell’era gialloverde è una figura terza e super partes non sarebbe solo una capitolazione, per un partito che aveva chiesto discontinuità rispetto ai quattordici mesi di governo gialloverde, in cui Conte non stava propriamente su Marte, ma a palazzo Chigi a firmare i decreti sicurezza. Ma è una questione che si proietta ben oltre la nascita di questo governo, la cui durata consentirebbe di eleggere nel 2022 il successore di Mattarella, che poi è, sulla carta, una delle ragioni per cui nasce, impedire cioè di darlo a Salvini dopo una vittoria nelle urne. Perché è chiaro che far passare l’idea di un premier terzo lo rende naturaliter quirinabile.
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Alle sette di sera Conte dà assicurazioni sulla gestione del capo politico dei Cinque stelle, ipotizzando la casella della Difesa. Senza ruolo di vicepremier. È in quel momento che, dopo una serie di comunicazioni informali, il Quirinale fa sapere che è disponibile anche a concedere “terzo tempo”: giovedì l’incarico se ci sarà l’indicazione dei partiti, poi fino a dieci giorni affinché Pd e Cinque stelle possano perfezionare l’accordo sul programma. Anzi, affinché possano finalmente entrare nel merito, in modo approfondito, dopo un negoziato confuso e avviato come un suk sui ministeri, in cui i nodi più delicati di una agenda comune non sono stati ancora affrontati: Tav, manovra, immigrazione, sicurezza, giustizia, taglio dei parlamentari sono rimaste parole pressoché innominate, annacquate nei famosi dieci punti di Di Maio e rimaste appese nei altrettanto famosi Cinque punti del Pd, senza che le reciproche priorità venissero mai incrociate. E annacquate nella sceneggiata di tavoli pressoché inutili.
Poche ore alle consultazioni al Quirinale. C’è un solo punto fisso, che proietta dentro i Cinque stelle la crisi. O Conte si pone come unico interlocutore dei Cinque stelle, risolvendo il problema Di Maio, oppure ancora una volta ancora tutto è possibile.
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