PD: Grazie ai "pasticci" del Governo RenziPD...si torna al voto per le Province...!
umberto marabese
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Non si è mai visto un “Milleproroghe” che contenesse una notizia. Il provvedimento così chiamato, infatti, è lo strumento che governo e Parlamento utilizzano una o due volte all’anno per posticipare alcune decisioni già prese o rimandare a data da definirsi, in momenti meno delicati, altre scelte. Invece il primo “Milleproroghe” scritto dal governo di Giuseppe Conte e consegnato per una prima analisi al Senato c’è un non-rinvio destinato a fare notizia e riguarda le Province.
Non soltanto questi enti locali hanno resistito a tutti i tentativi di farli sparire, ma il 14 ottobre torneranno tutte al voto ed eleggeranno ciascuna un nuovo presidente. Perché Lega e Cinquestelle hanno deciso di non prorogare la situazione nella quale si trovano oggi gli enti di secondo livello? Semplice: per dare il colpo finale al Pd che, complice il congelamento degli ultimi anni, le governa ancora quasi tutte pur essendo diventato minoranza nel Paese. Insieme i gialloverdi possono prendersele (quasi) tutte....
Ricordiamo perché di Province si parla nel Milleproroghe...
L’abolizione delle Province era un capitolo importante del programma di governo del Pdl già nel 2008, cioè dieci esatti anni fa: “C’è un solo punto nel programma elettorale in cui ho difficoltà serie con gli alleati ed è questo perché la Lega ha una posizione molto ferma”, ammise il Cavaliere. Pure lui, che si tempi era fortissimo, non riuscì a toccarle. Lo fece invece Mario Monti. Aiutato dalla pressione della Ue sull’idea di una “spending review”, nel corso del suo breve governo l’ex Rettore della Bocconi, oggi è senatore a vita, fece approvare al Parlamento l’abolizione delle Province. Il testo, però, conteneva un errore grave: “Non è materia che si può disciplinare con un decreto legge”, scrisse la Corte costituzionale quando gli annullò quell’atto.
L’ultimo clamoroso tentativo di cancellare le Province fu fatto da Matteo Renzi. “Vado avanti come un rullo compressore”, diceva il 3 aprile del 2014, quando era in piena fase “rottamatore”. Al Parlamento fu fatta approvare un disegno di legge di Graziano Delrio che, in realtà, non le cancellava, ma le definanziava fino al limite della sopravvivenza. La legge firmata dall’attuale capogruppo dem a Montecitorio trasformava queste istituzioni in enti di secondo livello quindi non eletti direttamente dai cittadini e ne rinviava la cancellazione alla riforma costituzionale firmata da Maria Elena Boschi. Quel testo che avrebbe dovuto chiudere per sempre le Province, però, è stato bocciato dal referendum.
Gli enti sono dunque sopravvissuti ma senza risorse sufficienti per fare nulla. A un certo punto i presidenti delle Province, prorogati o in qualche caso rieletti, hanno minacciato di denunciare il governo: la Legge di Stabilità 2015 aveva tolto loro tre miliardi, ma aveva lasciato loro da gestire qualcosa come 130 mila chilometri di strade provinciali e 5.100 scuole superiori. Come garantire per esempio la sicurezza e l’incolumità ai 2 milioni 500 mila ragazzi che ci studiano dentro?
Le Province di Biella, Caserta e Vibo sono fallite, altre 14 Province erano ad un passo dalla bancarotta. Senza fare troppo rumore ci aveva messo una pezza Paolo Gentiloni nella sua ultima legge di Bilancio, approvata a dicembre 2017. Il governo aveva dato parere favorevole all’approvazione di un pacchetto di emendamenti che proprio i presidenti delle Province avevano predisposto e presentato al Parlamento il 7 novembre e che consentivano di destinate agli enti locali 317 milioni. Gentiloni aveva anche cancellato il divieto a fare nuove assunzioni. “È l’inizio di un percorso di ripresa”, diceva, soddisfatto e quasi incredulo il presidente dell’Unione delle Province italiane, Achille Variati.
Troppa grazia? Macché. Il trio Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini ha messo la ciliegina sulla torta all’articolo 2 del più famoso tra i provvedimenti omnibus: “Il mandato dei presidenti di provincia e dei consiglieri provinciali in scadenza fino al 14 ottobre 2018 è prorogato fino a tale data e le elezioni per il rinnovo delle cariche predette si tengono in unica tornata il 14 ottobre 2018”. Tra tre mesi si vota, insomma.
Neanche il tempo di iniziare la campagna elettorale, con agosto di mezzo. “Probabilmente la norma nasce dalla mancata conoscenza di un quadro frastagliato e disomogeneo, che da qui al gennaio 2019 vedrà la scadenza dei mandati di 48 Presidenti di Provincia e 70 Consigli provinciali, in date tutte diverse”, accusa Variati, che è sindaco di Padova. “Se si confermasse il 14 ottobre, entro quella data si potrebbero tenere le elezioni di solo 12 Consigli Provinciali su 70, perché il mandato dei restanti 58 scadrà tra novembre 2018 e gennaio 2019”, sottolinea. Ma gli uffici del ministero dell’Interno sono convinti che l’election day sia possibile e che non vi siano altre cause ostative per un voto unico, che avrebbe quindi una valenza politica nazionale importante, tra così poche settimane. Proprio nella Lega, anzi, sono convinti che questa tornata elettorale si debba tenere il prima possibile e che abbia una fortissima valenz.
I presidenti delle Province verranno eletti dai sindaci – con un sistema di voto ponderato in base al numero degli abitanti dei loro Comuni – e se fino a qualche anno fa questi erano in larghissima parte esponenti del Pd, oggi il vento è decisamente cambiato. I leghisti sono sicuri di riuscire a conquistare, grazie ai voti degli eletti col centrodestra e facendo asse coi Cinquestelle, la quasi totalità dei presidenti di Provincia. Fino a tre anni fa il M5s valeva zero nelle amministrazioni locali, ma oggi le cose non sono più così: i Cinquestelle hanno sindaci importanti e molti consiglieri comunali. Le proporzioni con la Lega sono invertite rispetto ai numeri in Parlamento, ma il modello è certamente maggioritario. Una cosa è certa: le Provinciali potrebbero essere un nuovo banco di prova dell’alleanza gialloverde.---
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