Naturalmente non è un sentimento condiviso... Anzi. Nella società, ci sono quelli che vanno in discoteca, quelli che cercano la droga dagli spacciatori nigeriani, quelli che parteggiano per il nemico, gli indifferenti, gli “individualisti” che negano ogni dovere verso la comunità, gli inerti, gli egoisti che sono la maggioranza. Proprio questo è il guaio e il pericolo. Perché qui, sotto il nome di “sovranità” da riconquistare, è il ricostruirsi come nazione e popolo – politicamente presente a se stesso – che è in questione.
E “la convivenza nazionale è una realtà attiva e dinamica , non una coesistenza passiva e statica. La nazionalizzazione si produce attorno a forti imprese incitatrici che esigono da tutti un massimo di rendimento, e di conseguenza, di disciplina e di mutua valorizzazione. La prima reazione che nell’uomo genera una congiuntura difficile o pericolosa è la concentrazione di tutto il suo organismo, un chiamare a raccolta le fila delle sue energie vitali, che siano pronte a lanciarsi contro la situazione ostile, Lo stesso accade in un popolo, per esempio, in tempo di guerra. Allora ogni cittadino acutizza la sua sensibilità per il tutto sociale, e impiega non poco sforzo mentale a passare in rivista ciò che po’ aspettarsi dalle altre classi e professioni. Avverte allora con drammatica evidenza la ristrettezza della sua corporazione, la scarsezza delle sue possibilità e scopriva la radicale dipendenza dalle altre, che prima non notava. Riceve con ansia le notizie che riferiscono dello stato materiale e morale degli altri mestieri, arti e specializzazioni, delle punte in cui sono eminenti e nelle cui capacità si può confidare. La società si fa più compatta e vibra integralmente da polo a polo. La vita di ogni individuo viene in qualche modo moltiplicata da quella di tutti gli altri; nessuna energia si spreca; ogni sforzo si ripercuote in vaste onde di trasmissione psicologica, che così si utilizza e si accumula. Solo una nazione così vince il particolarismo e si assicura nella sua ora le reazioni decisive e salvatrici”.
E’ una citazione di Ortega y Gasset, e la riporto perché è lo stato d’animo in cui mi trovo – spero non da solo – in questi mesi. Per questo, noi piccola schiera, ansiosamente leggiamo i dati economici, le dichiarazioni del Nemico, passiamo in rassegna le forze e le debolezze del paese, dei suoi politici, dei suoi economisti e dei suoi lavoratori; viviamo come una sconfitta e umiliazione la vendita di Marelli da parte degli Elkann; vorremmo con il nostro cuore imprimere le energie e le doti che sentiamo mancanti o insufficienti negli altri – che sentiamo camerati, comandanti, capitani – impegnati in questa battaglia; ci rallegriamo quando dimostrano abilità di comando e coraggio; chiediamo di ricevere ordini.
E “la convivenza nazionale è una realtà attiva e dinamica , non una coesistenza passiva e statica. La nazionalizzazione si produce attorno a forti imprese incitatrici che esigono da tutti un massimo di rendimento, e di conseguenza, di disciplina e di mutua valorizzazione. La prima reazione che nell’uomo genera una congiuntura difficile o pericolosa è la concentrazione di tutto il suo organismo, un chiamare a raccolta le fila delle sue energie vitali, che siano pronte a lanciarsi contro la situazione ostile, Lo stesso accade in un popolo, per esempio, in tempo di guerra. Allora ogni cittadino acutizza la sua sensibilità per il tutto sociale, e impiega non poco sforzo mentale a passare in rivista ciò che po’ aspettarsi dalle altre classi e professioni. Avverte allora con drammatica evidenza la ristrettezza della sua corporazione, la scarsezza delle sue possibilità e scopriva la radicale dipendenza dalle altre, che prima non notava. Riceve con ansia le notizie che riferiscono dello stato materiale e morale degli altri mestieri, arti e specializzazioni, delle punte in cui sono eminenti e nelle cui capacità si può confidare. La società si fa più compatta e vibra integralmente da polo a polo. La vita di ogni individuo viene in qualche modo moltiplicata da quella di tutti gli altri; nessuna energia si spreca; ogni sforzo si ripercuote in vaste onde di trasmissione psicologica, che così si utilizza e si accumula. Solo una nazione così vince il particolarismo e si assicura nella sua ora le reazioni decisive e salvatrici”.
E’ una citazione di Ortega y Gasset, e la riporto perché è lo stato d’animo in cui mi trovo – spero non da solo – in questi mesi. Per questo, noi piccola schiera, ansiosamente leggiamo i dati economici, le dichiarazioni del Nemico, passiamo in rassegna le forze e le debolezze del paese, dei suoi politici, dei suoi economisti e dei suoi lavoratori; viviamo come una sconfitta e umiliazione la vendita di Marelli da parte degli Elkann; vorremmo con il nostro cuore imprimere le energie e le doti che sentiamo mancanti o insufficienti negli altri – che sentiamo camerati, comandanti, capitani – impegnati in questa battaglia; ci rallegriamo quando dimostrano abilità di comando e coraggio; chiediamo di ricevere ordini.
Senza coraggio si perde anche cittadinanza
E’ uno stato d’animo lancinante e totalizzante – che come giornalista avevo già provato a Vukovare fra i croati e a Sarajevo assediata – , una punta dolorosa nel cuore ; ma chi non lo prova è degno di compatimento e disprezzo. Perché qui è – sia pur lontanamente – l’attingere ad una energia spirituale primaria, una vitalità primordiale da cui nasce tutto: anche la cittadinanza. Anche la democrazia.
Come si fa a non ricordare che nella Roma repubblicana, il romano “non concepiva che si potesse essere cittadini senza essere soldati”. Che “Il populus fa il suo ingresso in politica a forza di scioperi militari” in una tesa dialettica di forza con il Senato, una diarchia armata mai composta, Senatus populusque – e che “tutte le classi della società erano rappresentate nell’esercito romano: i nobili, i senatori iscritti al censo per almeno un milione di sesterzi, servivano come ufficiali; i cavalieri che non superavano i 400 mila, fornivano i quadri del livello inferiori. I figli dei notabili municipali accedevano al centurionato. I cittadini della plebe entravano nelle legioni”.
Max Weber giunge al punto di scrivere: “La fonte originaria del concetto attuale di diritto fu la disciplina militare romana e il carattere peculiare della sua comunità guerriera”. Ad Atene, il bisogno di creare una grande flotta di triremi contro i persiani, ciascuna con 150 rematori, obbligò i notabili a dare le armi ai Thetes, la classe iper-proletaria che non serviva nella falange non potendosi comprare le armi, e che i notabili ritenevano pericoloso armare: quella flotta fece di Atene poi un potere imperialista, e non è certo un caso se la democrazia generale nasce con il primo imperialismo. Sia a Roma sia in Grecia, si votava convocando i comitia (i richiamati) e per “fratrie” ed “etairie”, ossia per reparti di coetanei .
Come si fa a non ricordare che nella Roma repubblicana, il romano “non concepiva che si potesse essere cittadini senza essere soldati”. Che “Il populus fa il suo ingresso in politica a forza di scioperi militari” in una tesa dialettica di forza con il Senato, una diarchia armata mai composta, Senatus populusque – e che “tutte le classi della società erano rappresentate nell’esercito romano: i nobili, i senatori iscritti al censo per almeno un milione di sesterzi, servivano come ufficiali; i cavalieri che non superavano i 400 mila, fornivano i quadri del livello inferiori. I figli dei notabili municipali accedevano al centurionato. I cittadini della plebe entravano nelle legioni”.
Max Weber giunge al punto di scrivere: “La fonte originaria del concetto attuale di diritto fu la disciplina militare romana e il carattere peculiare della sua comunità guerriera”. Ad Atene, il bisogno di creare una grande flotta di triremi contro i persiani, ciascuna con 150 rematori, obbligò i notabili a dare le armi ai Thetes, la classe iper-proletaria che non serviva nella falange non potendosi comprare le armi, e che i notabili ritenevano pericoloso armare: quella flotta fece di Atene poi un potere imperialista, e non è certo un caso se la democrazia generale nasce con il primo imperialismo. Sia a Roma sia in Grecia, si votava convocando i comitia (i richiamati) e per “fratrie” ed “etairie”, ossia per reparti di coetanei .
“Etairia” comporta insieme il significato di confraternita di coetanei, di uguali, di giovani, e di società segreta. Per capirne il motivo bisogna risalire al passato arcaico, quando le famiglie naturali ancora non c’erano – non era ancor chiara la relazione fra l’atto sessuale e la nascita dei bambini nove mesi dopo – e la comunità si divideva per età. Come mostra l’etnologia,”la prima casa che l’uomo si costruisce non è la casa della famiglia ancora inesistente, ma la “casa degli scapoli”: un luogo dove si conservano le armi (i Salii, a Roma gli ancilia), si mangia in comune (a Sparta, la zuppa nera, un rancio rituale), e i giovani coetanei si preparano alle imprese guerriere e teppistiche per rubare le donne degli altri (il ratto delle Sabine) e il bestiame altrui (Indra e la sua banda).
E’ vietato alle donne e ai bambini entrare nella casa degli scapoli, sotto pena di morte. Gli adolescenti maschi qui bevono, qui imparano i canti, si mascherano per far paura alle femmine con maschere animali e colori sul volto, che useranno anche nella guerra. Si esercitano e preparano per la caccia come per il conflitto bellico: il primo “ascetismo” è quello atletico, e non si distingue veramente da quello religioso: il culto di Mamers, della lupa sacra a Marte, è il totem del primo gruppo umano. Questa “casa degli scapoli” si trova tra i Masai come a Sparta, tra i germani e fra i pellerossa; in essa nascono i riti di iniziazione e di coraggio, le prove di audacia e ferocia; nell’antica Roma mantiene la memoria viva la confraternita dei Salii (danzatori) e dei Luperci, i piccoli lupi.
Qui nascono la disciplina (necessaria sul campo) e la legge, qui i canti e i ritmi che fanno coesa la falange e la legione ; qui nasce la politica ed insieme, lo sport con i suoi atleti eccellenti da presentare, a nome della città-stato, alle Olimpiadi.
E’ essenziale capire che tutto questo non nasce da una necessità e utilità, bensì da una vitalità sovrabbondante che vuole espandersi in imprese, la vitalità di adolescenti feroci e sventati, poi disciplinati dalla volontà di vittoria. Una forza che da bruta diventa spirituale, responsabile verso i “fratelli” in armi – e che pure è il contrario dell’economia, ed anche della famiglia e dello spirito borghese (“industriale” lo chiamò l’evoluzionista utilitarista Herbert Spencer, proprio ritenendolo un progresso rispetto al guerriero) . La differenza, per Ortega: “Lo spirito industriale è diretto da uno sforzo cauteloso di evitare il rischio, mentre lo spirito guerriero scaturisce da un geniale appetito del pericolo. Nelle collettività industriali gli uomini si uniscono mediante contratti, ossia compromessi parziali, meccanici, esterni; mentre nella collettività guerriera gli uomini sono resi integralmente solidali dall’onore de dalla fedeltà – due norme sublimi”.
Contro il pacifismo e i pacifisti che impongono l’utopia del vietare ogni forza armata, Ortega y Gasset ricorda: “Le legioni romane, come ogni grande esercito, hanno impedito molte più battaglie di quelle che hanno combattuto. Il prestigio guadagnato nel combattimento ne evita molti altri: e non tanto per la paura fisica, quanto per il rispetto che incute la superiorità vitale del vincitore”.
Ed aggiunge, attenzione: “Lo stato di guerra perpetua in cui vivono i popoli selvaggi è dovuto precisamente al fatto che nessuno di loro è capace di formare un esercito, e con esso una organizzazione nazionale rispettabile e prestigiosa”.
Domandatevi se non è oggi la UE in stato di guerra perpetua intestina (certo con altri mezzi più vili: lo spread, i mercati) contro, quindi non stia scadendo allo stato dei popoli selvaggi, alla barbarie che consiste precisamente nel pullulare di gruppi minimi e reciprocamente ostili.
Ed ancora: “Lo stesso genio che inventa un programma suggestivo di vita in comune, sa sempre forgiare una forza armata esemplare, che di questo programma è simbolo efficace e propaganda impareggiabile”. Sicché : “Un gruppo che non si sente disonorato intimamente dalla incompetenza e demoralizzazione del suo organismo guerriero, è profondamente inferma e incapace di reggersi nel mondo”.
So di dire cose provocatorie, che susciteranno odio; e inutili per giunta. Le pronuncio a futura memoria, per una futura gioventù che costruirà lo Stato. O per i pochi felici che hanno amato il video delle forze armate che è stato censurato e ammorbidito dal pacifismo ambientale:
“Io sono stato dove gli altri non volevano essere. Sono andato dove gli altri non volevano andare”.
Ricorda Shakespeare, che ritrova nel linguaggio il termine intraducibile, “band of brothers”, perché troppo arcaico: che fu delle antiche fratrie, etairie, società segrete di antichi adolescenti vitali che si chiamavano tra loro tutti “fratelli” perché erano della stessa età, e chiamavano tutti gli anziani, senatores, “patres” perché la famiglia ancora non esisteva,
E’ essenziale capire che tutto questo non nasce da una necessità e utilità, bensì da una vitalità sovrabbondante che vuole espandersi in imprese, la vitalità di adolescenti feroci e sventati, poi disciplinati dalla volontà di vittoria. Una forza che da bruta diventa spirituale, responsabile verso i “fratelli” in armi – e che pure è il contrario dell’economia, ed anche della famiglia e dello spirito borghese (“industriale” lo chiamò l’evoluzionista utilitarista Herbert Spencer, proprio ritenendolo un progresso rispetto al guerriero) . La differenza, per Ortega: “Lo spirito industriale è diretto da uno sforzo cauteloso di evitare il rischio, mentre lo spirito guerriero scaturisce da un geniale appetito del pericolo. Nelle collettività industriali gli uomini si uniscono mediante contratti, ossia compromessi parziali, meccanici, esterni; mentre nella collettività guerriera gli uomini sono resi integralmente solidali dall’onore de dalla fedeltà – due norme sublimi”.
Contro il pacifismo e i pacifisti che impongono l’utopia del vietare ogni forza armata, Ortega y Gasset ricorda: “Le legioni romane, come ogni grande esercito, hanno impedito molte più battaglie di quelle che hanno combattuto. Il prestigio guadagnato nel combattimento ne evita molti altri: e non tanto per la paura fisica, quanto per il rispetto che incute la superiorità vitale del vincitore”.
Ed aggiunge, attenzione: “Lo stato di guerra perpetua in cui vivono i popoli selvaggi è dovuto precisamente al fatto che nessuno di loro è capace di formare un esercito, e con esso una organizzazione nazionale rispettabile e prestigiosa”.
Domandatevi se non è oggi la UE in stato di guerra perpetua intestina (certo con altri mezzi più vili: lo spread, i mercati) contro, quindi non stia scadendo allo stato dei popoli selvaggi, alla barbarie che consiste precisamente nel pullulare di gruppi minimi e reciprocamente ostili.
Ed ancora: “Lo stesso genio che inventa un programma suggestivo di vita in comune, sa sempre forgiare una forza armata esemplare, che di questo programma è simbolo efficace e propaganda impareggiabile”. Sicché : “Un gruppo che non si sente disonorato intimamente dalla incompetenza e demoralizzazione del suo organismo guerriero, è profondamente inferma e incapace di reggersi nel mondo”.
So di dire cose provocatorie, che susciteranno odio; e inutili per giunta. Le pronuncio a futura memoria, per una futura gioventù che costruirà lo Stato. O per i pochi felici che hanno amato il video delle forze armate che è stato censurato e ammorbidito dal pacifismo ambientale:
“Io sono stato dove gli altri non volevano essere. Sono andato dove gli altri non volevano andare”.
Ricorda Shakespeare, che ritrova nel linguaggio il termine intraducibile, “band of brothers”, perché troppo arcaico: che fu delle antiche fratrie, etairie, società segrete di antichi adolescenti vitali che si chiamavano tra loro tutti “fratelli” perché erano della stessa età, e chiamavano tutti gli anziani, senatores, “patres” perché la famiglia ancora non esisteva,
ma esisteva lo Stato:
Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli;
poiché chi versa oggi il suo sangue con me
sarà mio fratello; per infima che sia la sua nascita
questo giorno nobiliterà il suo rango;
e gentiluomini ora a letto in Inghilterra
si considereranno maledetti dal destino per non essere stati qui”.
Per quei pochi che sono cresciuti, diventati vecchi, saggi e pacifici, ma continuano a sentire come una intima vergogna non essere stati ad El Alamein, allora, coi ragazzi.
Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli;
poiché chi versa oggi il suo sangue con me
sarà mio fratello; per infima che sia la sua nascita
questo giorno nobiliterà il suo rango;
e gentiluomini ora a letto in Inghilterra
si considereranno maledetti dal destino per non essere stati qui”.
Per quei pochi che sono cresciuti, diventati vecchi, saggi e pacifici, ma continuano a sentire come una intima vergogna non essere stati ad El Alamein, allora, coi ragazzi.
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