di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano del 24 febbraio –
Michele Emiliano, come spesso gli accade, ha detto una cosa saggia: “Se il Pd non fosse il primo partito e Mattarella desse l’incarico a Di Maio, e ad altre ipotesi non voglio pensare, farò ogni sforzo perché il Pd sostenga il M5S nella formazione del governo”. Il vulcanico governatore pugliese lo ripete da tempo: un movimento che da cinque anni, salvo brevi intervalli, è la prima forza politica del Paese non può essere escluso in eterno dall’area di governo e merita di essere messo alla prova. Non perché esista la certezza che governerà bene, ma perché in democrazia non si può ignorare per tanto tempo la volontà della maggioranza (relativa) degli elettori.
Infatti già nel 2013, appena rieletto a sindaco di Bari, Emiliano aveva offerto alcuni assessorati ai 5Stelle, che ancora si beavano nel loro dorato isolamento e rifiutarono. Ora che Di Maio si appella ad altri partiti per condividere un programma in pochi punti, anche l’alibi dei 5Stelle chiusi a riccio è caduto. Le tre alternative a un governo sostenuto dai M5S, LeU e almeno una parte del Pd sono una peggio dell’altra: tornare subito a votare con la schifezza del Rosatellum; un governissimo Renzusconi con voti comprati e Gentiloni a Palazzo Chigi; un governo Tajani a trazione berlusconian-leghista, sempre con voti comprati...
Poteva mancare a quel punto l’illuminato parere del ministro-prezzemolo onnisciente e onnipontificante Carlo Calenda, detto Crema di Calendula perché è un impacco che si porta su tutto, dai foruncoli alla crisi di Roma, dalla micosi del piede ai disastri Ilva e Alitalia, dall’acne giovanile al caso Embraco?.... Non poteva. “Sostengo la coalizione di centrosinistra perché abbiamo bisogno di una classe dirigente seria”, twitta il Calenda, “ma ogni volta che vedo (sic, ndr) una dichiarazione di Emiliano la determinazione vacilla. Non comprendo cosa c’entri con il Pd”.
Ora, per carità, va bene tutto. Ma Emiliano è da 11 anni il segretario del Pd pugliese, è stato due volte sindaco Pd a Bari, è presidente Pd della Regione e un anno fa si è candidato a segretario Pd. Invece Calenda, che distribuisce e revoca tessere del Pd a chi pare a lui, al Pd non è nemmeno iscritto perché lo giudica “un circolo chiuso”. Del resto, alle elezioni 2013 si candidò con la Lista Monti e fu ovviamente trombato. Perché lui porta sempre buono. Era a bordo anche dell’altro celebre Titanic della politica italiana: Italia Futura di Montezemolo (in qualità nientemeno che di “coordinatore politico sul territorio”, infatti Italia Futura sfuggiva ai radar), col quale aveva collaborato alla Ferrari prima di passare a Confindustria.
A quei tempi ripeteva prima e dopo i pasti, che “l’Agenda Monti è l’unica strada per la modernità” e “noi siamo alternativi ai Dem, li batteremo” (Corriere, 2.1.2013). Siccome però quelli come lui, nati bene e cresciuti anzi pasciuti anche meglio, non possono vivere un solo giorno col culetto scoperto, appena bocciato dagli elettori Calenda fu raccattato dal governo Letta come viceministro dello Sviluppo. Renzi lo confermò, ma nel 2016 lo spedì a Bruxelles come un pacco postale, in veste di “Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue”. Permanente si fa per dire: Calenda arrivò il 21 marzo e il 10 maggio era già di ritorno.
Giusto il tempo di far incazzare i diplomatici di carriera, poi abbandonò l’amata Europa per afferrare al volo il ministero dello Sviluppo lasciato vacante dalla Guidi e riservato, com’è noto, agli emissari di Confindustria. Lì piantò radici e restò imbullonato anche con Gentiloni. La sua attività ministeriale s’è trascinata sanza infamia e sanza lode, fra una crisi irrisolta e l’altra, una marchetta agli industriali di qua e una di là, fino alla campagna elettorale.
Lui, ci mancherebbe, si è ben guardato dal candidarsi: molto più comodo occupare poltrone all’insaputa degli elettori, essendone fra l’altro sprovvisto (di elettori, non di poltrone).
Ma ha cominciato a esternare e a presenziare, come tarantolato. Ha iniziato a distribuire patenti di incompetenza a tutti, tranne che a se stesso e, chissà perché, alla Bonino. Ha preso a stalkerare la sindaca Raggi, trascinandola su un fantomatico “tavolo per Roma” dove lui porta a spasso il suo monumento equestre senza un euro in tasca.
Intanto collezionava un paio di successi (tipo Ideal Standard) e vari flop, da Alitalia a Ilva a Embraco. Quest’ultimo è il gruppo brasiliano che trasloca da Torino dove più gli conviene, cioè in Slovacchia.
Cioè segue alla lettera il Calenda-pensiero, convinto di fare cosa gradita al fan sfegatato di tutti i trattati mondiali per il libero scambio e la libera circolazione delle merci, dei soldi e dei lavoratori come lui.
Invece, sorpresa: stavolta Calenda, a favore di telecamera, s’incazza contro la libera circolazione di Embraco. “Gentaglia!”, tuona furibondo, come se bastasse qualche vaffa per fare un ministro competente (nel qual caso, l’incompetente Beppe Grillo sarebbe molto meglio di lui).
La verità è che il ministro dello Sviluppo economico dovrebbe creare le condizioni per attirare e trattenere gli investitori stranieri, non insultarli quando se ne vanno. Perché, se non riesce a persuaderli, il fallimento è tutto suo. Ma il suo fiasco, grazie ai leccalecca dei giornaloni, diventa un trionfo: anvedi er sor Calanda come jele canta.
Risultato: altri 500 posti di lavoro in fumo (in aggiunta alle decine di aziende fuggite all’estero negli ultimi anni, ma lontano dalla campagna elettorale, dunque senza un pigolio del ministro).
Ora Crema di Calendula, che non è iscritto al Pd e se ne dichiara “alternativo”, infatti fa campagna per la Bonino, domanda al Pd Emiliano cosa c’entri col Pd. Come se Renzi chiedesse a B. cosa c’entri con Forza Italia. Ma forse non è l’esempio più azzeccato.---
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