(di Marco Travaglioda – Il Fatto Quotidiano del 5 Aprile 2018) –
Il gioco del cerino è ufficialmente cominciato. Di Maio va a di martedì e, alla vigilia delle consultazioni, spiega con chi vorrebbe governare: o col secondo o col terzo partito usciti dalle urne, cioè Pd o la Lega. Uno vale l’altro? Nossignori: “Il primo interlocutore è sicuramente il Pd con l’attuale segretario e con le persone che in questi anni hanno lavorato bene”. Si spinge addirittura a elogiare tre ministri: uno, Minniti, meritatamente; due – Martina e Franceschini – immeritatamente, il primo perché non pervenuto alle Risorse agricole, il secondo perché purtroppo pervenuto ai Beni culturali. Ma Martina è il segretario reggente, cioè l’interlocutore indispensabile ove mai riuscisse a liberarsi dalle catene renziane e accettasse di parlare. E Franceschini è il capocorrente più potente dopo Renzie il più vicino a Mattarella. Tanto basta a spiegare la doppia captatio benevolentiae. Solo in seconda battuta Di Maio si rivolge alla Lega, e non solo per l’ordine di apparizione post-elettorale. Infatti pone a Salvini una condizione-capestro: “Scelga tra rivoluzione e restaurazione, se mollare Berlusconi e cominciare a cambiare l’Italia o restargli attaccato a non cambiare nulla”. Ora, Salvini non vede l’ora di liberarsi della Mummia. Ma non ora, non potendosi permettere uno scontro frontale con uno degli uomini più ricchi, potenti e vendicativi d’Italia, per giunta padrone di tre tv, di un pezzo di Rai, di molti giornali e forse anche di un pezzo della Lega (se vale ancora la fidejussione dei tempi di Bossi)....
Non solo: come capo leghista, Salvini conta meno di Martina, mentre come leader del centrodestra pesa più di tutti. E, se non tradisce FI, può sperare di mangiarsi quel che ne resta al prossimo giro. Di Maio e Salvini hanno instaurato un buon rapporto personale basato sulla fiducia e non hanno sbagliato un colpo nella partita delle presidenze delle Camere. Ma sanno bene di avere tutto da guadagnare collaborando in Parlamento su leggi in materia di vitalizi, costi della politica e magari giustizia, ma tutto da perdere governando insieme. Le scarse risorse subito disponibili per il nuovo governo bastano per avviare una sola delle riforme promesse: quella fiche va su un inizio di reddito di cittadinanza, o su un principio di flat tax. Le due cose non stanno insieme. E chi va al governo e non porta subito a casa un risultato tangibile rischia grosso: gli elettori lo lincerebbero con la stessa rapidità con cui l’avevano osannato. Eppoi anche sui diritti civili, le tasse, le grandi opere e ormai pure sull’Europa e sui migranti Di Maio e Salvini sono piuttosto distanti.
Viceversa, se il Pd si liberasse di Renzi relegandolo nel suo giglietto fradicio di pochi intimi, potrebbe collaborare con i 5Stelle su un programma molto meno eterogeneo, a base di riforme sociali, ambientali e legalitarie. Tutti temi classici del centrosinistra, almeno prima che venisse infettato dal berlusconismo di ritorno. Se questo governo dovesse nascere, il Pd avrebbe il tempo necessario per rimettere insieme i cocci del centrosinistra, lasciando Renzi e i suoi (pochi) cari a inseguire la chimera macroniana, cioè berlusconiana. Mantenendo – sotto costrizione dei 5Stelle – le promesse fatte per una vita e mai spontaneamente realizzate. E recuperando almeno alcuni dei milioni di elettori fuggiti verso i 5Stelle e soprattutto verso l’astensionismo. Viceversa, un no pregiudiziale toglierebbe al Pd qualunque argomento polemico contro un governo M5S-Lega, che a quel punto proprio i Dem renderebbero inevitabile. Queste cose sono talmente ovvie, lapalissiane che le capiscono tutti, persino i leader e leaderini del Pd. Ma non osano ammetterlo, ancora prigionieri, dopo quattro anni di catastrofi ininterrotte e rovesci consecutivi, dell’incantesimo renziano. Infatti balbettano di evitare un governo M5S-Lega e scongiurare le elezioni anticipate, ma poi non trovano il coraggio di fare la mossa conseguente: mettere in minoranza il padrone (dimissionario per finta) e liberarsi le mani per far pesare i loro voti che, per quanto dimezzati, bastano e avanzano a orientare il nuovo governo con almeno un pezzo dei loro programmi. In due parole: fare politica.
Riusciranno i nostri eroi nella storica impresa di azzeccare almeno una mossa in vita loro? Se danno ancora retta agli amorevoli consigli di Repubblica, che li ha portati a una disfatta dopo l’altra, è altamente improbabile. Ieri il quotidiano “amico” ha totalmente stravolto la proposta di Di Maio in prima e in seconda pagina: “Governo, la mossa di Di Maio: ‘Sì a Salvini, senza Berlusconi’”,“‘Forza Italia stia fuori’: la mossa di Di Maio per il governo con Salvini”. Nemmeno un accenno all’offerta prioritaria al Pd, spacciata per un “abbraccio mortale”: non sia mai che il Pd la capisca e vada almeno a vedere. Se lo facesse, difficilmente potrebbe dissentire (o poi spiegarle alla base) su misure sacrosante e popolarissime anche tra i suoi elettori come reddito di cittadinanza, ripristino dell’articolo 18, anti-corruzione, anti-prescrizione, anti-conflitto d’interessi. Invece potrebbe chiedere di aggiungere un po’ del programma Dem: Ius soli ecc. E financo porre a Di Maio il problema del premier, passandogli il cerino acceso: una questione che, se il leader M5S insistesse a guidare il governo, potrebbe essere risolta soltanto con la presenza al suo fianco dei leader dei partiti alleati (Grasso e Martina, o chi per loro) come vicepremier, o di due ministri di peso (per esempio Minniti e Bersani) come garanti del “contratto” di coalizione. Intanto, dall’altra parte, Salvini completerebbe la sua Opa sul centrodestra. E così ci libereremmo di B. e di Renzi in un colpo solo. Forse è solo un sogno, ma scusate se è poco.---
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