(di Marco Travaglio – da Il Fatto Quotidiano del 24 aprile 2018) –
Per riassumerlo con un francesismo, il senso dell’incarico conferito da Mattarella a Fico è questo: “Basta cazzate”. Infatti il più deluso è proprio il Re della Cazzata: Matteo Salvini (almeno da quando l’altro Matteo è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari). Il perimetro disegnato dal Quirinale per l’esplorazione del presidente della Camera è speculare a quello tracciato per quella della presidente del Senato. La Casellati doveva verificare la fattibilità di un’intesa fra i 5Stelle e tutto il centrodestra o una parte di esso (la Lega) ed è tornata al Colle con un pugno di mosche in mano: no del M5S a FI, no di FI al M5S e no della Lega al divorzio da FI. Solo le cazzate di Salvini, sempre uguali dal 4 marzo: “Datemi qualche giorno e risolvo tutto io”. Invece non può risolvere nulla. B. non darà mai appoggi esterni a governi che non controlla manu militari, perché il concetto di “esterno” è incompatibile col suo Dna: non fai in tempo a dire esterno e te lo ritrovi subito interno, tipo supposta. E Salvini, se mollasse B., retrocederebbe da leader di una coalizione al 37% a capo di un partito al 17; si attirerebbe addosso la guerra termonucleare dei giornali, delle tv e dei dossier del Partito Mediaset; e metterebbe a repentaglio tutta l’argenteria (a partire dalle giunte a guida leghista in Lombardia, in Veneto e da domenica in Friuli Venezia Giulia, che senza FI crollerebbero l’una dopo l’altra come birilli)...
È comprensibile che finora Di Maio abbia lasciato aperto il forno leghista, per non dare a Salvini il pretesto di incolparlo della rottura: ma se continuasse a fingere di credere (che lo creda veramente non riusciamo neppure a immaginarlo) al divorzio fra Matteo e Silvio, diventerebbe un caso di autocirconvenzione di incapace. Anzi, di capace, vista l’abilità mostrata dal capo pentastellato in campagna elettorale e nella partita delle presidenze delle due Camere. Il gioco di Salvini è chiarissimo: continuare a sparare cazzate, ad annunciare svolte che non possono arrivare, a prospettare scenari, proposte e soluzioni irrealizzabili, a rimandare continuamente la palla in campo grillino per farsi dire di no e lasciare il cerino acceso in mano a Di Maio, accusandolo di bloccare tutto per la poltrona di Palazzo Chigi o per i suoi presunti “veti, diktat e litigi con Berlusconi” (così svilisce la pregiudiziale etica e penale antiberlusconiana, che lui e la sua truppa non possono proprio capire). Il ras leghista infatti è l’unico leader che ha tutto da guadagnare e nulla da perdere da nuove elezioni presto: si mangerebbe un altro pezzo di FI, potrebbe consolidare la leadership sul centrodestra e recuperare un po’ dei voti di destra finiti ai 5Stelle.
Invece il M5S, più dura lo stallo e più si logora, perché ha vinto le elezioni con un picco storico molto difficile da replicare, specie se non riuscirà a tradurlo in un governo che cambi davvero qualcosa. Il tempo gioca a favore di Salvini e a sfavore di Di Maio (che, fra l’altro, è al suo secondo e ultimo mandato, se la legislatura durerà almeno un anno, mentre l’altro non ha fretta: fa politica da 22 anni e continuerà a farla per i prossimi 44).
Ora la mossa di Mattarella, che chiude il forno di centrodestra fra gli strilli di Salvini e apre quello di centrosinistra, toglie ogni alibi al partito che finora s’è comportato peggio: il Pd. Dopo aver governato per sette anni consecutivi con cani e porci (soprattutto porci), i renziani han simulato un’improvvisa quanto improbabile purezza schifando tutti gli altri: per loro, 5Stelle e Lega pari sono, mentre a B. riservano ben altro trattamento, e ci mancherebbe. Dopo aver imposto all’Italia (in combutta con FI e Lega) una legge elettorale proporzionale, hanno puntato al tanto peggio tanto meglio ritirandosi sull’Aventino e tradendo il principio cardine del proporzionale (le maggioranze si formano dopo il voto con coalizioni fra i partiti più vicini o meno lontani). Dopo aver scritto le regole del gioco, hanno abbandonato la partita portandosi via il pallone, per impedire anche agli altri di giocarla. Per 50 giorni hanno rifiutato anche solo di parlare con i 5Stelle, che avevano presentato una squadra di ministri tutti di centrosinistra, un programma molto più compatibile con loro che con le destre e un leader che ha definito in tv il Pd “interlocutore privilegiato”. Così Di Maio, non sapendo più con chi parlare nel Pd, ci ha provato con Salvini (che almeno risponde al telefono). Allora i pidini han fatto gli offesi perché i 5Stelle li trattano alla pari della Lega e adesso intimano loro di chiudere subito quel forno per iniziare a dialogare. Ora che Mattarella incarica Fico di lavorare a un’intesa M5S-centrosinistra e Di Maio saluta Salvini, vedremo se le vergini violate del Nazareno dicono sul serio o bluffano.
Ottima l’idea del presidente della Camera di mettere sul tavolo pochi punti compatibili con i programmi di M5S, Pd e LeU, e solo dopo parlare del premier e dei ministri (le figure “terze” sono vivamente sconsigliate: senza Di Maio e due ministri forti a garanzia di Pd e LeU, il governo volerebbe via al primo sbuffo di vento). Pessimo invece il documento partorito dal prof. Della Cananea, incaricato di studiare concordanze e discordanze fra i programmi dei partiti. Forse per un equivoco, i 10 punti finali sono il distillato del niente che accomuna M5S, Pd e Lega. Ma nessuno (si spera) ha mai ipotizzato che i tre partiti governino insieme. Infatti il risultato è un semolino inodore, incolore, insapore e immangiabile (neppure un cenno a conflitti d’interessi, tv, prescrizione e anticorruzione) che pare scritto da Forlani per un governo balneare Rumor, non per un governo del cambiamento. Dialogare, negoziare e fare compromessi si chiama politica. Ma presentarsi al tavolo con le brache già calate si chiama suicidio.----
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