Dopo anni di assenza di rappresentanza, le elezioni del 4 marzo le hanno vinte gli intrusi, i non invitati al ballo di corte. E ora si preparano a entrare nel Palazzo: un ingresso ambiguo.
Dieci anni fa, alle elezioni del 2008, i due partiti insieme avevano raccolto oltre il 70 per cento dei voti, 25 milioni di elettori su 36 milioni di votanti. Il Pd appena nato e guidato da Walter Veltroni aveva conquistato dodici milioni di voti, risultato mai più superato in termini assoluti, neppure dal Pd di Renzi del 40 per cento alle elezioni europee del 2014. «Vi accorgerete presto di quanto sia stato importante», disse Veltroni amareggiato al momento di lasciare la segreteria un anno dopo, sfiancato dalle polemiche e dalle divisioni interne. Fu sbeffeggiato e invece aveva ragione lui. La nascita del Pd nel 2008 aveva messo in sicurezza la sinistra italiana, nel mezzo di una tempesta che stava per travolgere gli altri partiti socialisti europei, in tutte le versioni possibili: il Ps francese, il Psoe spagnolo, la Spd tedesca, il Labour inglese, il Pasok greco. E invece, in tre anni, si è dilapidato il patrimonio...
Oggi il Pd si allinea alla catastrofe della sinistra continentale: sei milioni di voti, la metà esatta di dieci anni fa, e 18,8 per cento. Si lotta per la sopravvivenza, per salvarsi dall’estinzione. L’ultimo rovescio ha il volto del leader indiscusso di questi anni, Matteo Renzi. Il rottamatore doveva allargare il perimetro della sinistra e l’ha ridotto a un’area archeologica abbandonata, un panorama di rovine, doveva fondare il partito della Nazione ed è sparito dal Nord e dal Sud e perfino in larga parte del Centro del Paese, nelle cartine elettorali i puntini rossi sembrano il villaggio di Asterix assediato e senza pozione magica per difendersi dagli assalti avversari, per di più. Ma non c’è un solo responsabile, quando un partito perde mezzo elettorato per strada e finisce al minimo storico da settant’anni, peggio del 18 aprile 1948, peggio dell’esordio del Pds di Achille Occhetto nel 1992 in termini assoluti, peggio di sempre. Così giù nessuno mai. Senza voler infierire sul risultato imbarazzante dei transfughi di Liberi e Uguali: con milioni di voti in uscita dal Pd non ne hanno raccolto mezzo, sono risultati respingenti perfino per l’elettorato che la pensava come loro, ma non ha voluto votare per loro.
C’è da rovesciare l’angolo visuale, come sarebbe obbligatorio fare sempre per politici, studiosi, analisti, giornalisti. Voltare lo sguardo dal palco dei capi, capetti, capicorrente, con le loro liti, beghe, manovre, e seguire l’esempio di Gianni Cipriano, il giovane maestro che per L’Espresso ha raccontato in queste settimane con le sue foto la campagna elettorale. Puntare l’obiettivo sugli elettori. I volti, le bocche, le mani, le espressioni. E, più in profondità ancora, le rabbie, le paure, le speranze.
Da molti anni in Italia la parola rappresentanza è caduta in disuso, è stata sostituita dalla rappresentazione. La politica come spettacolo mediatico, la teoria della fine dei corpi intermedi e la ricerca di un consenso senza più territorio che è stata il vero punto di contatto tra Renzi e Berlusconi. Entrambi hanno pensato che le campagne elettorali si vincono e si perdono con la comunicazione, gli spot del 1994 di Forza Italia e i social del 2018, la personalizzazione del comando, il messaggio affidato al leader carismatico. Tutti aspetti fondamentali, sia chiaro. Ma è curioso che entrambi abbiano dimenticato la lezione delle origini. Berlusconi negli anni Ottanta non era soltanto un imprenditore televisivo, ma il portatore di una visione del Paese: un’ideologia. Renzi, quando è entrato sul palcoscenico della politica nazionale, era un sindaco che si confrontava ogni giorno con i problemi quotidiani della sua città. Era un capo politico con i piedi ben piantati per terra, non un giocoliere virtuale senza contatto con la realtà.
Con il voto del 4 marzo la realtà si è presa la rivincita sul reality, si potrebbe dire, cogliendo una parte di verità, ma non tutta. Perché c’è molto reality nella costruzione del Movimento 5 Stelle, e non solo perché l’uomo comunicazione di M5S è quel Rocco Casalino che fu protagonista della prima serie del “Grande fratello” su Canale 5 nel 2000 (mentre il direttore di allora, Giorgio Gori, è stato il candidato sconfitto del Pd in Lombardia).
Ci sono i meccanismi del reality nella formazione del cast delle candidature, nell’esclusione dei candidati, nella compilazione dei buoni e dei cattivi, nell’indicazione del nome di ministri senza ministero. C’è il reality anche nella nuova Lega di Matteo Salvini, che vanta le sue radici sul territorio ma che si allontana sempre di più dalle sue origini padane. Ma il reality per la televisione italiana è stato anche il momento di capovolgimento degli attori protagonisti: dai vip, dalle star dell’intrattenimento al protagonismo della gente comune. Ragazzi qualsiasi, destinati a diventare eccezionali perché sottoposti all’occhio delle telecamere. Dall’anonimato alla celebrità alla popolarità, senza aver dimostrato prima di saper fare qualcosa di particolare, senza competenze e senza conoscenze, intese anche come portafoglio di rapporti familiari o amicali, ereditati, ricevuti per censo o per grazia. Berlusconi ha accusato Luigi Di Maio di non aver mai lavorato e di poter aspirare al massimo a fare lo steward al San Paolo «per vedersi gratis le partite del Napoli», ed è incredibile che a farlo sia stato proprio lui, che Silvio B. abbia dimenticato che di ragazzi così sono stati popolati per decenni i suoi studi televisivi, è stato composto il suo pubblico, il suo elettorato.
La novità degli ultimi anni, non solo in Italia, è che i Di Maio d’Italia non si limitano più ad applaudire la rappresentazione degli altri, le rockstar, i competenti. Vogliono rappresentarsi da soli. I parlamentari del Sud di M5S sono questo: un piccolo notabilato emarginato che non delega più, prende la parola da solo. Il Nord ha votato Lega per la flat tax, il Sud ha votato Movimento 5 Stelle per il reddito di cittadinanza, il discorso potrebbe concludersi qui. Di più, c’è questa voglia di auto-rappresentazione.
Gli steward, gli occasionali, i lavoratori di Amazon, i disoccupati del Meridione, i forgotten men del Sud, sono già abituati a muoversi in un deserto di rappresentanze politiche e sociali. Rifiutano le mediazioni, i sacerdoti del sapere, della cultura, della competenza, considerano gli intellettuali come gli alti prelati della Chiesa cattolica prima dell’invenzione della stampa e della Riforma protestante: le scritture si leggono da soli, senza più un clero che si arroghi il diritto di interpretarle per conto degli altri, e la scoperta di Gutenberg, ieri, e la Rete e i social network oggi, offrono una straordinaria possibilità di intervento e di visibilità, in prima persona, senza deleghe.
Come fece il Terzo Stato rivoluzionario (Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cos’è stato finora? Nulla…) e il Quarto Stato di inizio Novecento, il Quinto Stato avanza per conquistare spazi, con il suo carico di ambiguità e di pericolo (per gli abitanti del Palazzo). Non si supera questa distanza se non si torna a occupare il vuoto tra rappresentati e rappresentanti.
Per questo, oggi, è più difficile di prima fare maggioranza. Maggioranza sarà la parola chiave delle prossime settimane: come raggiungere il numero magico che consente di governare alla Camera e al Senato in una situazione senza precedenti, con due schieramenti su tre costretti a stare insieme e il terzo pronto a sparare addosso agli altri due. È il dilemma della politica, del presidente della Repubblica, del Pd. Un pezzo di sistema ha già fatto la sua scelta. Costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle, includere i suoi principali esponenti ai vertici almeno delle istituzioni, alla presidenza della Camera, era la strada ipotizzata dal Quirinale, ma ora non basta più.
Si ritorna al punto di partenza: la pagina bianca indicata da Sergio Mattarella nel suo messaggio agli italiani del 31 dicembre 2017. I primi a scriverci sopra sono stati gli elettori del 4 marzo: più che una nuova pagina hanno cambiato libro. Ora, come prevede la Costituzione e come ha ricordato il Capo dello Stato, tocca ai partiti e al Parlamento. Gli sconfitti devono consumare la resa dei conti, i vincitori devono esaurire i festeggiamenti. Poi arriverà il momento della politica, che è trattativa, compromesso. E si vedrà se regge lo scambio di ruoli di questi primi giorni: Di Maio con l’aplomb britannico che cita Alcide De Gasperi e Renzi che minaccia l’opposizione a oltranza e si blinda nell’integralismo di sigla, lui che in nome della governabilità si era portato in casa nella passata legislatura gli amici di Denis Verdini. O se i due mondi si incroceranno in qualche modo. E allora toccherà al Movimento 5 Stelle, nemico del costituzionale divieto di vincolo di mandato, fare affidamento sul tradimento degli altri parlamentari rispetto al patto stipulato con gli elettori: mai alleanze spurie con gli estremisti.
Il capo politico dei 5 Stelle appare agli occhi delle cancellerie europee meno preoccupante e più rassicurante di Salvini. In fondo, in ogni paese (Germania, Francia, Olanda, Austria, Polonia, Ungheria) c’è un omologo del leader leghista che troverebbe nuovi motivi di forza dalla conquista del governo da parte del Carroccio. Mentre Di Maio è un’incognita, un’equazione che ognuno può pensare di riscrivere a suo piacimento. Si può immaginare la tsiprasizzazione del giovane capo di M5S, la sua trasformazione in Tsipras, il premier greco che ha cominciato sfidando Bruxelles con il referendum e ha finito per omaggiare le misure della Troika.
Su questa metamorfosi potrebbe scommettere anche la Bce, con il suo presidente Mario Draghi, come hanno già cominciato a fare la Confindustria in Italia e Sergio Marchionne. Qualcuno va ancora più in là e vede in Di Maio un paradossale Macron italiano, né destra né sinistra, nonostante le differenze abissali che dividono il presidente che viene da Ena e Rothschild dal Giggino di Pomigliano d’Arco.
La Repubblica dei cittadini vagheggiata da Di Maio (ha per caso letto Pietro Scoppola?) non assomiglia in nulla alla Repubblica dei citoyens francese, ma ne copia l’ambizione e forse il ruolo storico: superare il bipolarismo del Novecento e far nascere una nuova dialettica. In cui M5S, però, come in un ritorno al punto di partenza, finirebbe per occupare lo spazio lasciato disabitato da chi l’ha occupato storicamente: la sinistra. Se tutto dovesse fallire, infatti, non resterebbero che nuove, immediate elezioni anticipate, magari con legge elettorale ritoccata.
E allora sì che Pd e Forza Italia non ci sarebbero più. Superate, egemonizzate e alla fine conquistate dai new comers, gli intrusi, gli esclusi, i non invitati al ballo di corte: la Lega di Matteo Salvini a destra, il Movimento 5 Stelle a sinistra. Perché, alla fine, le ideologie, le differenze, le identità sono destinate a ritornare. E, a quel punto, bisognerà tornare a volgere lo sguardo. E capire come usciranno da questa trasformazione gli elettori del 4 marzo.---
Nessun commento:
Posta un commento