domenica 10 gennaio 2021

Alessandro Barbano x Huffgton Post - Rai, "I soliti ignoti" di un Paese senza qualità....

 

La democrazia regredisce e il servizio pubblico somministra dosi massicce di quiz. La qualità è altrove e le riforme nel cassetto.

Noi che pure abbiamo sperimentato l’incursione dei Serenissimi sul campanile di San Marco e la rissa alla Camera di Di Battista e soci, in nome dell’idea di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, e, in tempi più recenti, lo schiaffo al Pd in diretta streaming sulle trattative per il governo, e ancora la minaccia di impeachment al capo dello Stato e la sfida all’Europa dal balcone di Palazzo Chigi, noi, che ormai sappiamo qual è il prezzo di uno sfregio alla democrazia parlamentare, non possiamo cadere dal pero di fronte alle immagini dell’assalto a Capitol Hill. Ma dovremmo chiederci cosa passi nella testa di un Paese dove ogni giorno, tra le 20.35 e le 21.30, viene posto a milioni di cittadini il seguente quesito: il venditore di cappelli di piume di struzzo è l’ignoto numero due, l’ignoto numero tre, o piuttosto l’ignoto numero sette? È ammissibile che in prima serata, quando l’opinione pubblica riceve dai media gli attrezzi del mestiere per raccontarsi, la tivù di Stato fornisca parole e metafore del peggiore intrattenimento? È ammissibile che il dibattito politico ignori il tema della riforma della Rai, mentre le immagini dei guerrieri di Trump, con il copricapo cornuto dei vichinghi sulla testa e con il corpo coperto dai tatuaggi celtici cari ai neonazi, stanno lì a dirci che il populismo muove una minaccia permanente alla civiltà, anche quando si camuffa con una finta pelle di bisonte? Sono questi i “Soliti ignoti” che dovremmo riconoscere e smascherare, in nome di quell’eterna vigilanza che si deve al destino della democrazia.

Nei cassetti impolverati di Viale Mazzini c’è ancora un piano di 470 pagine, scritto da Carlo Verdelli, ultimo dei mohicani che hanno davvero creduto di mettere mano al giocattolo. Nominato direttore editoriale per l’offerta informativa il 25 novembre del 2015 e coadiuvato da due grandi firme del giornalismo come Francesco Merlo e Pino Corrias, pensò di riannodare un rapporto con il corpo e il sangue del Paese, posizionando tra Napoli, Roma e Milano le redazioni dei tre tiggì. Il suo obiettivo era quello di restituire centralità all’informazione, facendosi largo tra le casematte del consenso politico di 24 sedi regionali, quarantotto direttori, ottanta vice, millesettecento giornalisti, tredicimila dipendenti, orchestre e scuderie varie, consulenti come funghi, fiction di quarta serie e talk più simili a serie televisive, in cui la dialettica che contrappone un protagonista a un antagonista è frutto di una costruzione autoriale. Carlo Verdelli perse la sfida. Stalkizzato dal sindacato e dalla stessa politica che lo aveva scelto, si arrese il 3 gennaio del 2017. 

n Parlamento giacciono oggi tre progetti di riforma della Rai, presentati da Pd, Leu e Cinquestelle. Tutti con la dichiarata intenzione di garantire al servizio pubblico una governance indipendente dalla politica, attraverso il filtro di una fondazione o, piuttosto, attraverso il sorteggio dei consiglieri del Cda, secondo il paradigma ideologico del populismo pentastellato. Nessuno di questi progetti, destinati ad ammuffire nelle tortuose anse parlamentari, dimostra di comprendere l’ampiezza del problema. Che non è quello di stabilire un’equidistanza tra i vari appetiti dei partiti, ma l’esatto opposto: pretendere dalla politica un’assunzione piena di responsabilità sul ruolo della tivù di Stato nella formazione e nella protezione di un’opinione pubblica consapevole.

C’è un quesito che interpella la classe dirigente del Paese di fronte ai tumulti di Washington e ai cortei dei no-mask e no-vax nelle capitali europee: può il servizio pubblico somministrare dosi da cavallo di stupidi quiz, mentre la democrazia regredisce allo stadio di una verità puramente soggettiva, finendo preda di ogni tipo di manipolazioni? Non si tratta solo di difendersi dalle fake news, ma di chiedersi se non tocchi alla politica, anche e soprattutto a quella che si professa liberale e rifugge da indottrinamenti e conformismi, il compito di manutenere e rafforzare la cultura civile di una nazione. 

Il tema della difesa della democrazia coincide con quello della qualità del racconto e del dibattito pubblico. Non si risolve mandando una volta Benigni a recitare la Divina commedia, e poi declinando la cultura popolare nel trash, per timore di perdere la sfida dell’audience con la concorrenza delle tivù commerciali, secondo uno schema degli anni Ottanta. Né vale, a liberarsi la coscienza, dire che tutto è cominciato con “Drive in” e “Non è la Rai”, cioè con il fantasma di Berlusconi, buono per perseverare nel consociativismo pubblico, demonizzando l’azzardo privato. Salvo poi scoprire che i migliori prodotti culturali del momento, come i docufilm su San Patrignano e Piersanti Mattarella, transitano sui network commerciali, intercettando una crescente domanda di qualità.

Il totale disarmo del sistema pubblico fa da specchio alla rinuncia della politica a regolare un mercato che pure impatta su diritti fondamentali. Così nella fascia oraria più frequentata del prime-time, l’utente può scegliere il vacuo passatempo di Amadeus o il singolare sondaggio proposto da una tv veneta all’indomani del raid dei seguaci di Trump al Congresso Usa: “Assaltereste voi il Parlamento?”, chiedeva, senza apparente imbarazzo, un sedicente giornalista.

Che nessuno delle sinistre connessioni qui narrate preoccupi il governo lo dimostra l’assenza del tema della riforma della Rai nell’agenda del Recovery plan. Nell’angusto paragrafo che sta tra i paletti di cultura e innovazione, c’è appena spazio per il 5G e per i musei, un accenno di tre righe a una riforma dell’editoria e nessun riguardo per la tivù. Il racconto che il Paese fa di sé non sembra un asset decisivo per l’obiettivo dichiarato della ripresa e della resilienza. Così l’idea che il liberalismo coincida con il relativismo culturale sfuma e si confonde nel profilo sfuggente e senza qualità dei “Soliti ignoti”. Come un banale indovinello che nasconda una tragica verità.

 

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