venerdì 6 aprile 2018

“En Retromarche”: editoriale di Marco Travaglio



(di Marco Travaglio da Il Fatto Quotidiano del 6 Aprile 2018) – 
Ora che Di Maio ha tolto gli ultimi alibi al Pd, chiarendo di non volersi scegliere i leader altrui, di non voler portare l’Italia fuori dalla Nato e dall’Ue e di essere pronto a stipulare un contratto di governo alla tedesca sia con i Dem sia con la Lega (ma senza B.), sarà ancora più difficile per Martina-o-chi-per-esso rifiutare non tanto un’alleanza, che sarebbe tutta da costruire. Ma anche soltanto un colloquio. Il che naturalmente non esclude il rifiuto, anzi lo rende ancor più probabile, vista l’innata vocazione dei dirigenti di quel partito al suicidio perenne. Se la loro geniale strategia politica è spingere Di Maio tra le braccia di Salvini per godersi chissà quale spettacolo, sbagliano per l’ennesima volta i conti. Se, infatti, nascesse il famoso governo M5S-Lega (che passerebbe per il divorzio fra Salvini e B., cioè per la classica cruna dell’ago), i dirigenti pidini dovrebbero spiegare ai loro elettori perché abbiano fatto di tutto per propiziare quella che lo stesso Martina definisce l’ipotesi “meno auspicabile”, mentre il suo capogruppo al Senato Andrea Marcucci non sta nella pelle (“non vedo l’ora che nasca il governo Di Maio-Salvini”). Se invece non nascesse neppure quell’esecutivo che, stante l’Aventino del Pd, sarebbe l’unico possibile, si tornerebbe alle urne e i Dem verrebbero vieppiù puniti come i primi colpevoli di una nuova, sfibrante, deprimente, costosissima e inutile campagna elettorale (votando col Rosatellum, cambierebbero colore forse 30 seggi fra Camera e Senato, dunque anche dopo ci ritroveremmo senza maggioranze autosufficienti)....

Come scrive Paolo Mieli sul Corriere, la causa dell’impasse sono le finte dimissioni di Renzi, il più grande collezionista di fiaschi mai visto anche nella storia delle cantine sociali: ha perso tutte le Amministrative dal 2015 a oggi, ha tracollato al referendum costituzionale, si è schiantato alle Politiche, eppure continua a fare il bello e il cattivo tempo nel Pd per completarne la distruzione fino all’azzeramento. E i suoi fedelissimi, come il pluritrombato Sandro Gozi, non fanno neppure mistero di volersene andare dal partito che hanno devastato per fondare un En Marche all’italiana modello Macron (che però, diversamente da loro, le elezioni le ha stravinte). Nelle democrazie serie, il leader sconfitto se ne va e la squadra che perde si cambia. In Italia è tutto alla rovescia. Siamo pieni di presunti leader che hanno costruito le proprie carriere esclusivamente sulle disfatte. Viceversa chi aveva il brutto vizio di vincere, come Prodi che batté B. due volte su due, fu severamente punito dal suo partito.
Idem dall’altra parte, dove B. perse rovinosamente la maggioranza e il governo nel 2011, ma nel 2013 era sempre lì sul trono di FI. Perse per strada 6,5 milioni di voti e dimezzò i seggi in Parlamento, da cui fu poi cacciato per la condanna definitiva. Però rimase il leader non solo del suo partito, ma dell’intero centrodestra, anche nei 10 mesi di servizi sociali all’ospizio di Cesano Boscone. Ora ha subìto un’altra batosta, facendosi scavalcare da Salvini e doppiare dagli alleati Lega-Fratelli d’Italia, eppure non c’è verso di scalzarlo. Perché FI, caso unico al mondo, è un partito di sua proprietà e non è escluso che ciò valga anche per un pezzo della Lega. Il che spiega perché Salvini ha prima dovuto cedergli la presidenza del Senato e ora non può permettersi di scaricarlo per governare col M5S. Il Pd, invece, non è formalmente proprietà privata di Renzi, ma è come se lo fosse grazie al Rosatellum, figlio legittimo del Porcellum e dell’Italicum incostituzionali: deputati e senatori non sono stati eletti dagli elettori, ma nominati da Renzi al momento di compilare personalmente le liste senza neppure passare per le primarie, sistemandoli nei collegi sicuri e nei primi posti nei listini. È grazie a questo pattuglione di miracolati dal Capo se lui, pur dimissionario, continua a controllare i gruppi parlamentari. E non per dettare loro una linea sulle alleanze, ma per impedire loro di averne una. Dopo averci regalato – in combutta con B. e Salvini – una legge elettorale di impianto proporzionale, Renzi tiene il secondo partito d’Italia in ghiacciaia, tramando e minacciando ogni giorno per impedire al reggente Martina di assumere qualsiasi iniziativa. M5S, Lega, FdI, persino FI e LeU si muovono, parlano, prospettano soluzioni, cioè fanno politica secondo le regole dei sistemi proporzionali delle democrazie parlamentari. Il Pd, che più di tutti ha voluto questo sistema, no.
Finge di scegliere l’opposizione senza neppure sapere chi andrà al governo, né se mai ci andrà qualcuno. E racconta frottole ai confini della realtà. Tipo che “gli elettori ci vogliono all’opposizione”: come se chi ha votato Pd disponesse di una seconda scheda con le opzioni “maggioranza/opposizione” (in realtà gli elettori del Pd lo volevano al governo, altrimenti avrebbero votato qualcun altro; sono gli elettori degli altri partiti che volevano il Pd all’opposizione, ma non s’è mai visto al mondo un partito che obbedisce a chi non l’ha votato). O tipo che con i 5Stelle non si parla perché “sono già d’accordo con la Lega”. Questa idiozia è di quel genio di Ettore Rosato (quello del Rosatellum: e ho detto tutto). E naturalmente è falsa, a meno che il Pd non metta alla prova Di Maio incontrandolo, facendogli qualche controproposta e trovando le porte chiuse. Ma è destinata ad avverarsi: se Di Maio non vuol parlare con B. e il Pd non vuol parlare con Di Maio, l’unico a parlare con Di Maio sarà Salvini. A proposito: riusciranno i nostri eroi a spiegare agli eventuali elettori che con B. era giusto fare due governi, un patto del Nazareno, una schiforma costituzionale e due leggi elettorali, mentre con Di Maio è vietato pure parlare?---

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