(di Marco Damilano – http://espresso.repubblica.it) –
«Vi ringrazio per queste due ore di inesistenza», così il maestro Nicola Piovani ha ringraziato il pubblico romano che il giorno di Santo Stefano aveva affollato il suo concerto, ironizzando su chi aveva detto anni fa che solo le cose accadute in televisione esistono davvero. Quel signore che la pensa così lo conosciamo tutti bene e nel 2018, forse, tornerà, se non alla guida del governo, ad avere un ruolo centrale nella politica italiana. Ma l’idea dell’inesistenza, o meglio di ciò che non esiste all’apparenza ma che ha una dura sostanza nella realtà, mi sembra la sintesi perfetta dell’anno che si chiude e di quello che si apre.
Nel 2017 quel che non si è visto, e che dunque non esiste per il sistema mediatico, ha avuto una sua forza, la forza delle cose. Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio italiano che si è tornato a chiamare così dopo anni in cui tutti ci eravamo abituati a chiamarlo premier, un altro caso di non-esistenza (quella carica in Italia non c’è), non ha rilasciato in dodici mesi una sola intervista a un giornale e si è concesso solo un paio di uscite televisive...
Ha governato con l’invisibilità, il non apparire, eppure ha scalato i sondaggi di gradimento. Il suo governo, nato per durare pochissimo, scavalla la legislatura appena finita, resta in vita anche a Camere sciolte, le sue sono non-dimissioni che lo mettono in condizione di dirigere il timone nei mesi della campagna elettorale. In Europa quello presieduto da Gentiloni non è certo il governo più instabile o provvisorio. Nel quartetto dei grandi paesi Ue, la Francia vive la stagione del presidente jupitérien Emmanuel Macron, il personaggio politico dell’anno, in compenso però la Germania dell’ex invulnerabile Angela Merkel è senza un nuovo governo da settembre e per la grande coalizione più piccola della storia se ne riparla dopo le feste, e la Spagna è nella spirale centrifuga della secessione catalana, aiutata dagli errori di Mariano Rajoy, un premier che vive in uno stato di sospensione.
L’Italia, abituata a convivere con la crisi, si appresta al voto con il governo Gentiloni non-sfiduciato, non-dimissionario, non-candidato a essere riconfermato o meno dal voto degli italiani, eppure baciato dal favore dei pronostici: se dopo il voto di marzo non fosse possibile un’altra maggioranza e un altro governo resterebbe in carica lui, almeno fino a metà 2018, e poi chissà.
L’inesistenza, o meglio esistere senza apparire, diventa una virtù. È andata al potere, giusto mezzo secolo dopo quello che si diceva dell’immaginazione, lo slogan più citato, imitato, sbeffeggiato, tradito del 1968, anno di cortei, manifestazioni, scontri di piazza, contestazioni studentesche, lotte operaie, sogni spezzati. Il sogno di Martin Luther King, ucciso a Memphis il 4 aprile, quello di Robert Kennedy, assassinato il 6 giugno mentre festeggiava a Los Angeles la vittoria delle primarie in California che lo avrebbe lanciato verso la nomination democratica per la Casa bianca, quello di Alexander Dubceck sul versante opposto di Jalta, il blocco sovietico intangibile e stritolato nella morsa del muro di Berlino (costruito sette anni prima) e dei carri armati del partito fratello di Mosca.
È l’irresistibile fascino degli anni che si concludono con il numero otto. L’anno spaccatutto, l’anno fine del mondo, almeno dal 1848 che si apre con la pubblicazione del manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels a Londra il 21 febbraio e da quel momento in poi gli spettri della rivoluzione cominceranno ad aggirarsi in tutta Europa, compresa l’Italia divisa in staterelli. Nel 1918, un secolo fa, di nuovo lo spettro torna a volteggiare tra la Russia appena conquistata dai bolscevichi e la Germania. Per noi è anche l’anno della fine della Grande Guerra e della retorica sulla vittoria mutilata che anticipa il reducismo e il fascismo. Termina in otto l’anno della vergogna, quello delle leggi razziali (1938), e dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948) con il primo grande scontro elettorale (18 aprile 1948).
In tutti questi eventi c’è sempre stato un palazzo di inverno da espugnare, un potere da conquistare, un cielo cui dare l’assalto. La pretesa della politica di avere l’egemonia sul resto della società che aveva incontrato il sarcasmo di Pier Paolo Pasolini sui sessantottini che da allora in poi sono rimasti in servizio permanente effettivo: «generazione sfortunata!/Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore/dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,/una presunzione di eroi destinati a non morire – /oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano /una meravigliosa vittoria che non esisteva!».
Una presunzione ferita in modo irrimediabile nel 1978 italiano, quando tutti insieme, padri e figli, si ritrovarono di fronte al trauma del cadavere infilato in un bagagliaio dell’uomo politico più influente e importante (non il più potente, aveva provato a spiegarlo Moro alle Brigate rosse che vedevano in lui il capo italiano del Sim, lo Stato imperialista delle multinazionali). «Questo fagotto gettato dietro il sedile posteriore della Renault color amaranto parcheggiata in via Caetani è il corpo di Aldo Moro», scrisse quel giorno nel suo pezzo Miriam Mafai su “Repubblica”, come farà anni dopo il poeta Mario Luzi: «Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi, è lui, il capo di cinque governi, punto fisso o stratega di almeno dieci altri, la mente fina, il maestro sottile di metodica pazienza: lui – come negarlo? – quell’abbiosciato sacco di già oscura carne…». In quello stesso giorno, il 9 maggio 1978, la mafia fece uccidere a Cinisi Peppino Impastato.
Poche settimane dopo, si dimette il presidente della Repubblica Giovanni Leone, sostituito dal partigiano Sandro Pertini, chiamato a 82 anni a salvare di nuovo la Repubblica. Ma il potere si sta spostando, non appartiene più ai partiti e alla politica, in Italia e nel resto dell’Occidente. C’è il potere del corpo che ribalta l’assunto sessantottino del privato è pubblico: la rivincita della vita sulla politica, i diritti civili che entrano nell’agenda delle priorità, con la legge sull’aborto e sulla chiusura dei manicomi, ma anche l’introduzione del servizio sanitario nazionale che nonostante tutto mezzo Occidente invidia all’Italia. E c’è il potere dell’anima, il ritorno del Dio morto, frettolosamente sepolto e poi risorto come motore geopolitico in Medioriente con l’Iran dell’ayatollah Khomeini e in Europa con l’elezione del papa polacco Karol Wojtyla.
Spinte che fanno naufragare e crollare le ideologie novecentesche, i progetti di palingenesi, il mito dell’uomo nuovo e della società nuova, lasciando in campo un unico sistema vincente, il modello della globalizzazione finanzaria che abbatte i confini degli Stati e le appartenenze identitarie. Ma nel 2008, un altro anno con l’otto, anche questo mito è caduto, quando i dipendenti della Lehman Brothers sono usciti dai loro uffici di Manhattan con gli scatoloni pieni delle loro cose. Quello che abbiamo vissuto in Occidente nel decennio successivo e che stiamo vedendo nell’ultimo anno, da quando Donald Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa bianca, è il periodo della fragilità dei potenti. Sempre più ansiosi di visibilità, in mostra sui social, e sempre più inadeguati a fronteggiare le dinamiche che loro stessi hanno scatenato. Dietro i fenomeni di populismo o di anti-politica c’è l’incapacità di governo e la frustrazione generata dall’impossibilità per la politica di realizzare anche soltanto in parte le promesse messe in circolo nelle campagne elettorali. Mentre trionfano gli autocrati, da Putin a Xi Jinping a Erdogan, che rispondono almeno a un bisogno di sicurezza e di certezze.
È l’Ottovolante, il circuito senza via di uscita e pericoloso delle democrazie occidentali: la politica è fallita e in tanti non ne avvertono più la necessità, gli elettori scelgono di votare sempre di meno e se nonostante tutto vanno alle urne si dice che il loro responso è stato sbagliato. Ma solo la politica può gestire il mostro che ha creato, la frammentazione degli interessi, la polverizzazione degli elettori in mille questuanti ciascuno con il suo desiderio da reclamare. E la trasformazione dei leader in followers, inseguitori delle mode del momento, depositari del senso comune.
L’immaginazione è arrivata al potere nel momento in cui il potere della politica non c’era più o stava svanendo. Ma ora va ricostruito, è questa la lezione che arriva anche dall’in-esistente Gentiloni. Che resterà tale anche in campagna elettorale e farà bene: per tenersi in riserva della Repubblica se non dovesse uscire dalle urne una maggioranza pronta a governare e perché non è scontato che il gradimento nei sondaggi possa trasformarsi automaticamente in consenso.
La campagna elettorale sarà il momento di quanti esistono, mediaticamente. Matteo Renzi ha la squadra, i ministri del governo Gentiloni, ma non ha il capitano, perché lui è meno spendibile di un anno fa. Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle si ritrova nella situazione opposta: è un capitano che si atteggia a candidato premier ma non ha una squadra. Infine c’è Silvio Berlusconi, il massimo teorico della regola di cui ha parlato Nicola Piovani (ciò che non va in tv non esiste): lui non ha né la squadra, perché l’alleanza con Matteo Salvini è un cartello elettorale e i nomi che circolano per la guida del governo, da Antonio Tajani all’ex comandante generale dei carabinieri Leonardo Gallitelli, per ora sono virtuali, e non ha il capitano, perché non può candidarsi in prima persona. Berlusconi è l’inesistente al potere: non c’è ma c’è, è un non-candidato ma conterà molto di più di quasi tutti gli altri candidati.
La sconfitta di tutti sarebbe il crack del sistema. In una campagna elettorale cominciata nel peggiore dei modi, con il Parlamento uscente che ha cancellato dal suo angolo visuale gli ottocentomila bambini in attesa della legge sullo ius soli e ius culturae, come sono spariti dalla visibilità mediatica, ma non dalla realtà, i migranti che continuano a sbarcare sulle coste italiane, i ragazzi protagonisti e vittime della criminalità a Napoli e in Campania che non sono creati dalla fantasia degli sceneggiatori di “Gomorra”, i lavoratori dei fast job usa e getta, le periferie chiamate a fare da fondale per i talk sulla crisi. Tutti in apparenza non-esistenti, eppure reali. Siamo tutti sull’Ottovolante, appena partito e già vengono le vertigini. Non si può neppure dire: fermate il 2018, voglio scendere! Si può solo sperare che non succeda un grande 8.---
Nessun commento:
Posta un commento