mercoledì 13 dicembre 2017

Debbie Weingarten, - I COLTIVATORI SUICIDI. PER LA NOSTRA INGRATUDINE.

I COLTIVATORI SUICIDI. PER LA NOSTRA INGRATUDINE.

Gli agricoltori americani si suicidano cinque volte di più che la popolazione generale. In alcuni Stati, i tassi di suicidi fra i lavoratori dei campi supera anche quello, già orrendo, dei soldati tornati dalle guerre americane:  i reduci giovani e maschi (fino al 29 anni) si tolgono la vita   al ritmo dei 85,64 per 100 mila abitanti  (fra la popolazione generale la percentuale è poco  più  di 15  su 100 mila).

Ma non è una tragedia esclusivamente americana.  Se in Usa e in Australia si toglie la vita un coltivatore ogni quattro giorni, in Francia se ne uccide uno ogni due;  il suicidio  è la terza causa di morte nelle campagne francesi. In India si tolgono la vita 270 mila contadini l’anno. E queste cifre spaventose, si ritiene non dicano tutto: molti coltivatori fanno apparire il loro suicidio un incidente sul lavoro , magari per  lasciare l’assicurazione vita alla famiglia; e il “lavoro” offre una sinistra abbondanza di mezzi ed attrezzi per farla finita,dal trattore che si rovescia alla  pistola ammazza-vitelli. Non a caso, il 30% i tutti i suicidi nel mondo avviene  per avvelenamento da pesticidi, in ambiente rurale. Qualche esperto  ipotizza che l’esposizione a tanti veleni agricoli provochi  disturbi neurologici. Senza naturalmente dimenticare “l’isolamento sociale,  i redditi bassi, le possibili perdite finanziarie,  l’impossibilità o incapacità di chiedere aiuto psichiatrico, mancando nelle campagne centri di igiene mentale”....

“Anni fa  sono stato anch’io un orticoltore in Arizona”, racconta Debbie Weingarten, autore di un’inchiesta sul Guardian  –  ero schiacciato dai grossi debiti tipici di un’impresa agricola. Producevamo, cibo,ma non potevamo permetterci di comprarlo. Lavoravamo 80 ore a settimana, ma non potevamo permetterci da  andare dal dentista.  Ricordo il panico quando una gelata in ritardo minacciava il raccolto, la lotta continua per i soldi”.

Schiacciati dal debito

John Blaske e la moglie, coltivatori a Onaga (Kansas),  raccontano: il  Giorno del Ringraziamento dell’82  una scintilla dalla stufa a legna s’è appiccata alla tenda in cucina, in un attimo il fuoco ha preso tutto, sono rimasti senza tetto  sui loro quasi 300 acri di terra. Hanno vissuto nel fienile. Subito dopo, “le banche  ci hanno alzato i tassi d’interesse dal 7 al 18%;  è stato tutto un correre da una banca all’altra, da un prestatore privato all’altro per tentare di avere prestiti a meno, rinegoziare i termini”. Alla fine, i Blaske hanno dovuto fare bancarotta. Gli hanno pignorato  265 acri, loro vivono adesso sui 34 che gli restano. “Non c’è  stato giorno che non abbia pensato al suicidio”.
Negli anni ’80, sono state migliaia le famiglie di coltivatori colpite dalla crisi:  sovrapproduzione che fece crollare i  prezzi   grani, crollo aggravato dall’embargo che Washington impose sulle esportazioni all’URSS. L’indebitamento  per l’acquisto o  affitto dei terreni, macchinari e carburanti,  da sempre schiacciante per le famiglie,   era raddoppiato dal 1978 all’84;  il crollo dei prezzi delle granaglie  rese  le famiglie insolventi. Le banche  prima raddoppiarono gli interessi, poi chiusero i rubinetti.  Pignorarono i terreni e li misero in vendita, provocando anche qui il collasso dei prezzi, e bancarotte a catena.
Una crisi  ricorrente,  come quella degli anni ’20 e poi degli anni ’30,  quando le praterie centrali iper-sfruttate isterilirono, persero l’humus, divennero un dust bowl (tazza  di polvere); anche allora il debito impagabile schiacciò   le famiglie. Nella primavera del 1985 migliaia di coldiretti marciarono su Washington, portando ciascuno una croce  nera, ciascuna col nome di un suicida o di un pignorato ridotto in miseria dal sequestro, e le hanno depositate  davanti al Dipartimento dell’Agricoltura , USDA.
La crisi degli anni ’80 è stata  una tragedia  di dimensioni altrettanto epiche, ma non ha avuto il suo Steinbeck a cantarla e a piangerla. Sicché  se ne sa poco. I politici se n sono infischiati. Un programma di “telefono amico” per agricoltori tentati  al suicidio, che ha avuto un certo successo  (almeno  vinceva l’isolamento e la solitudine disperata) e costava 18 milioni di dollari, non è stato finanziato dal  Senato come  “spesa non necessaria che aumentava il debito pubblico”; la cifra rappresenta qualche ora di spesa del Pentagono.
Il punto è  che da quella  crisi degli anni ‘80, il ceto agricolo statunitense non si è mai veramente risollevato.  Incatenato perennemente al debito (necessario per un’agricoltura industriale), il reddito netto dell’agricoltore americano è calato – dal 2013 ad oggi – del 50%.  Il reddito mediano  (non medio)  per il 2017 è negativo – ossia in perdita –  per 1.325 dollari:   nuovi fallimenti e nuovi sequestri, nuove rovine e suicidi,  sono dietro l’angolo. Il liberismo ideologico imperante vieta, naturalmente, di fissare un “prezzo di parità”, un minimo-base per i prodotti agricoli; e già i prezzi di molti grani sono al disotto dei costi di produzione.
Tom Giessel, presidente di un sindacato di agricoltori di Pawnee,  Kansas, ha messo su Youtube un video su “Le dieci cose che non posso  comprare con un bushel di frumento”: un bushel, ossia 27 chili di grano,  oggi vale meno di quattro rotoli di carta igienica, di  sei muffins inglesi;  di due pile per la radiolina, di due lattine di Red Bull. Costa persino meno di una forma di pane, benché con un bushel del grano di Giessel si possano fare 70 forme di pane.
I suicidi degli agricoltori francesi hanno le stesse cause:
« L’agricoltura ha vissuto pressioni amministrative ed economiche molto forti: da vent’anni il settore si trova su un mercato mondiale che vede i prezzi scendere; una catena che non fa regali ai produttori»,   spiega il principale  sindacato del settore, FNSEA .     Negli anni   della “mucca pazza” quando bisognò abbattere migliaia di capi,  il numero dei suicidi fra gli allevatori decuplicò.
Perché – come spiega Mike Rosman, uno psicologo che, lasciato 30 anni fa l’insegnamento alla University of Virginia ha comprato 190 acri   nello Iowa e vive di quello, ma   ha organizzato il “telefono amico” per i colleghi tentati dal suicidio –  “gli uomini dei campi   hanno una forte motivazione  a  produrre  le cose essenziali per la vita umana, alimenti, fibre, legna”.  E’ un sentimento o una responsabilità cosciente? Lo psicologo lo ha chiamato “l’imperativo agrario”. “Quando il contadino non riesce ad adempiere al suo scopo, si sente disperato.  E’ un paradosso: proprio quella qualità che fa bravo l’agricoltore, è quella che lo fa’ disperato  se fallisce”.
Ma se  questo è vero, è la definitiva imputazione di questa società a piramide  rovesciata, dove gli fa il lavoro più necessario è quello che viene meno compensato, mentre  chi guadagna miliardi ed ha “successo”,  è proprio chi più è privo del senso di responsabilità verso il prossimo; e schiaccia e depreda coloro che sentono l’imperativo di “nutrire gli altri”.    Speculatori di Wall Street e attori di Hollywood, giornalisti e banchieri e bancari,  viviamo tutti su di loro.  Senza il contadino che  produce grano e soya e non riesce a spuntare 4 dollari per il suo bushel di grano, anche lo speculatore di Wall Street e l’attrice  strapagata  – che fanno milioni –   sarebbero morti.   Eppure ciò non trattiene i banchieri e i bancari dall’applicare ai nutritori   che hanno indebitato, i “tassi di mercato”; e di raddoppiarli  alla prima difficoltà,  di sequestrare terreni e svalutarli.
Sempre, anche in passato, i contadini sono stati  oppressi dai debiti;  quelli che ho conosciuto io   ragazzino in Toscana,   fu probabilmente una delle ultime generazioni che cercavano di vivere a ciclo completo  e chiuso, non consumavano carburante, il fertilizzante era il letame delle loro bestie.  Non gli mancava il  cibo  (anche se i vecchi ricordavano carestie, quando “passava di qui la linea gotica”, e un neonato morì e lo seppellirono dietro il casale), ma non avevano soldi per comprare le scarpe, né il caffè  per  le puerpere. Quel poco denaro, lo guadagnavano le uova e quattro galline al mercato. Il sale era una delle  poche  necessità assolute  che compravano, e per questo il pane toscano è  sciapo. Portavano il loro grano al molino  per farne farina, e gliene lasciavano una parte per pagamento. Era una economia “primaria” nel senso più  forte ed  elementare:  sul limitare tremendo fra la vita e la fame, con la memoria stampata nei secoli,che se una gelata o una malattia rovinava  il raccolto, nessuno ti avrebbe aiutato; perché erano loro i nutritori di  tutti  gli altri. Gli ultimi, e tuttavia i primi. La prima e l’ultima linea.

Chi si è accaparrata la loro aumentata produttività


Quell’agricoltura era “arretrata”, ovvio. Mai nessuna categoria  di lavoratori ha   aumentato    tanto prodigiosamente la produttività come  la loro: dopo che per secoli il 90% di un popolo era impiegato nell’agricoltura,  ancora  nel 1931 in Italia il 46,8 per cento era impiegato nel settore primario, quello che sfama; nel 1961 erano   ancora agricoltori il 29 per cento della popolazione attiva; nel 2007, sono scesi sotto  il 3,9 –  che è la quota mondiale  di popolazione agricola nei paesi  avanzati. E ora il 4% produce  enormemente di più di  quel che produceva il 90, o anche  il 46% che faticava con l’aratro a metà del ‘900.
Settore primario: agricoltura e miniere. Secondario: industria. Terziario: servizi
Secondo l’ideologia dell’economia di mercato che si pretende etica,   tanto “recupero di  produttività” dovrebbe premiare i lavoratori, andare a loro in buona parte come reddito, di benessere.  Stranamente, invece, sono stati altri ad accaparrarsi la produttività recuperata: dalle banche indebitatrici  ai miliardari di Wall Street  (o di Montepaschi, o di Sorgenia, o Mediaset)  che, senza nemmeno saperlo manipolano   e sprecano capitali   che sono stati formati laggiù, nel settore primario  perché è lì che avviene l’accumulazione primaria, la formazione originaria del capitale.
Nell’agricoltura arretrata e poco produttiva, il 90% che faticava sui campi manteneva (oltre a se stesso) un 10% di re, cavalieri, religiosi e  santi nei conventi; con le offerta al Papato,  manteneva  qualche Brunelleschi, Giotto e Michelangelo. Oggi il 4% produce abbastanza per mantenere i Berlusconi e i Visco,   Boldrini e Grasso, Draghi e DeBenedetti…e  anche ciascuno di noi, che lavora  nel “terziario”, ossia nel superfluo.  Riconosciamo la nostra parte nello sfruttamento: la loro “aumentata  produttività” di agricoltori, la godiamo noi. E sapete come? Nel ribasso  del costo del  cibo. Gli alimentari costano “poco”. Costano meno che in passato.  Costano pochissimo, poi, in confronto allo smartphone che diamo ai nostri tredicenni,all’auto che cambiamo ogni tre anni; poco rispetto alle paghe dei parassiti ed oligarchi  pubblici. Pochissimo rispetto ai bitcoin e agli F-35…Tutti mantenuti da  loro, in definitiva.   Ma se  rincarano le zucchine, ne parlano i  Tg; importiamo grano dall’Australia per pagarlo meno  –  e appena il grano dei nostri coltivatori siciliani è pronto per la messe, ecco che rrivano le navi granarie dal Canada, a rompere i prezzi  col grano che è nelle stive, magari, da anni …..  Mi domando se gli agricoltori non siano uccisi dalla nostra ingratitudine. E se noi non ci seghiamo il  proverbiale ramo.

Con usura nessuno ha una solida casa di pietra squadrata e liscia per istoriarne la facciata. Con usura non v’è chiesa con affreschi di paradiso harpes et luz e l’Annunciazione dell’Angelo con le aureole sbalzate. con usura nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine.  non si dipinge per tenersi arte in casa ma per vendere e vendere presto e con profitto, peccato contro natura. il tuo pane sarà staccio vieto arido come carta, senza segala né farina di grano dur  (…) 

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