CRONACHE DAL MONDO IN DEFLAZIONE – di Luigi Copertino – seconda parte
Le conseguenze dell’indipendenza delle Banche Centrali (ma la soluzione non è quella di Milton Friedman)
A proposito del problema
dell’indipendenza della Banche Centrali, Maurizio Blondet, su questo
stesso sito, ha di recente (“Draghi ha fallito. Ma non è colpa sua,
dopotutto”, 11 marzo 2016) scritto un interessante intervento che è bene
rammentare. «Milton Friedman – scriveva dunque Blondet – è
stato il guru supremo del liberismo e della deregulation monetaria, il
fondatore della Scuola di Chicago, il venerato padre della dogmatica
“meno stato più mercato”. Ebbene: pochi sanno (perché lo nascondono) che
Friedman era contrario all’indipendenza delle banche centrali. Più
specificamente, propose di subordinare la Fed al Ministero del Tesoro.
Lo propose per motivi perfettamente coerenti con la sua teoria di nemico
dei monopoli. La cosiddetta indipendenza concentrava il potere
monetario in un unico “locus” in mano a persone che non rendevano conto a
nessuno; la dipendenza della banca di emissione dallo Stato avrebbe
avuto almeno il vantaggio di creare una dialettica fra le due entità,
una concorrenza: in caso di errori si sarebbero accusate a vicenda.
Ovviamente, Friedman vide che una banca centrale indipendente sarebbe
stata troppo dipendente dalle opinioni dei banchieri, e avrebbe
accontentato loro invece che l’economia generale; che l’indebita
influenza delle opinioni dei banchieri avrebbe offuscato (nelle mente
del banchiere centrale) la differenza che esiste fra i problemi che la
banca affronta sul mercato del credito e i problemi della politica
monetaria. Il montante della produzione di moneta è un atto politico,
non tecnico. Molti studi negli anni ’70 avevano già dimostrato che più
una banca centrale è indipendente, più l’inflazione cala, fino a
divenire deflazione. (…)....
L’11 febbraio scorso, un fondo dell’Economist …
notava con biasimo che le banche centrali sono “schiave dei mercati”:
ovviamente i mercati finanziari, non i mercati rionali (di cui in
deflazione, la banca centrale dovrebbe preoccuparsi). In quei mercati
(Wall Street, Londra eccetera) da tempo “gli investitori hanno scoperto
che, se fanno qualche capriccio infantile, le banche centrali accorrono
alla loro riscossa. Sul lungo termine, ciò incoraggia comportamenti a
rischio come quelli della fase che ha preceduto la crisi del 2007-2008”.
E’ la scoperta del segreto di Pulcinella: il fatto notevole è che lo
ammetta l’Economist. Che arriva addirittura a palare di “privatizzazione
di profitti e pubblicizzazione delle perdite”. Ciò vuol dire una cosa:
che il metodo è arrivato al capolinea. Nel gergo, si dice “il cavallo
non beve”. Nella realtà, lorsignori sanno che non posso più sfruttare la
colossale idrovora che ha sottratto capitali dal basso per profitti in
alto (all’1%). Perché l’idrovora non pesca più. E insistere nel far
funzionare l’idrovora sarebbe stato ormai controproducente. (…). Fra le
misure prese da Draghi, c’è un complesso meccanismo per cui la BCE “paga
un interesse alla banca a cui presta denaro” se questa banca “presta
molto a imprese e famiglie”. Un istituto che presta molto all’economia
potrà essere finanziato dalla BCE “più degli altri e a condizioni più
favorevoli”. Nobile tentativo. Peccato che le famiglie non abbiano
stipendi e salari su cui indebitarsi, e che le imprese hanno già debiti
andati a male presso le banche per 220 miliardi (in Italia). E gli
interessi negativi ormai instaurati che cosa volete che siano? Un
ulteriore furto alle famiglie: avete, poniamo, 100 mila euro in banca?
L’anno prossimo saranno 98 mila. Secondo la mentalità distorta dei
banchieri centrali, è una punizione per i risparmiatori, che dovrebbe
spingerli a “investire”: dove? L’effetto sarà di far sentire le famiglie
ancor più povere e inclini a spendere ancor meno. Interessante
l’ululato che si è elevato dal governo tedesco e dalla Bundesbank: con i
suoi trucchi Draghi mantiene le banche zombi? Verissimo, ma anche e
soprattutto le loro. Draghi trasferisce il denaro dalla Germania agli
stati-zombie del Sud Europa, finanziandone il debito, incoraggiandone i
governi a indebitarsi sempre più allegramente. “E’ la più grande
redistribuzione di ricchezza in Europa dalla seconda guerra mondiale”,
strilla Handelsblatt. Prima di tutto, il trasferimento è esattamente
quello che sarebbe comunque avvenuto se l’euro fosse davvero una moneta
unica, e l’avrebbero comunque pagato i tedeschi coi loro surplus di
profitti; vero che ciò avviene in altri modi furbeschi. Ma vediamo
l’alternativa. Prima del divorzio Tesoro-Bankitalia” il debito pubblico
italiano era del 60% del Pil; oggi è salito al 130 circa.. La Francia,
paese meglio governato, aveva un debito sul Pil del 20,7 % del Pil nel
1980; oggi, quasi del 100% e un deficit annuo che supera il nostro
italiano, è al 4 per cento. Con inflazione allo 0 per cento, o
sottozero, non ci sono che i quantitative easing e i tassi negativi
della BCE che tengono galla il sistema. Non solo un rialzo dei tassi, ma
un’interruzione del quantitative easing, aggraverebbe situazione di
stati che sì, sono già falliti, provocandone la bancarotta. La Germania
sarebbe contenta di trovarsi nella zona euro, da cui ha tanto
guadagnato, nel mezzo del ciclone delle bancarotte di Italia, Spagna,
Francia…? Magari a Berlino pensano di essere solvibili, come dicono i
loro bilanci pubblici? Sì, se non ci fosse Dutsche Bank con i derivati
che la espongono per un multiplo del Pil tedesco. E le Sparkassen, sono
solvibili? Davvero? Il punto è che l’intero sistema finanziario non è
più adeguato ad una situazione dove grazie alla politica di austerità
non c’è più crescita e né inflazione. Milton Friedman se fosse ancora
qui, potrebbe commentare: Ve l’avevo detto».
Maurizio Blondet ha colto il nocciolo
del problema attuale dell’eurozona sottoposta al diktat folle della
egemonia tedesca. Tuttavia riguardo a Milton Friedman la questione è
alquanto diversa. Infatti secondo la sua visione liberista fondata sulla
“teoria quantitativa della moneta”, la Banca Centrale deve essere sotto
controllo governativo affinché un “buon” governo liberista faccia
spending crunch ossia tenga sotto controllo la quantità della base
monetaria legale, in modo da tenere poi sotto controllo l’inflazione.
Certamente lo stesso Friedman raccomandava, all’occorrenza, di “spargere
moneta con l’elicottero”, ossia politiche monetarie espansive, ma anche
questa prospettiva rientrava nella concezione quantitativista della
moneta per la quale l’inflazione dipenderebbe dal montante del
circolante immesso nel sistema. In altri termini Milton Friedman partiva
dall’errato presupposto che l’inflazione dipende dalla eccessiva
quantità di moneta legale in circolazione. Sicché il Governo
controllando la Banca Centrale, ovvero l’Istituto di Emissione, dovrebbe
tenere sotto controllo la quantità di moneta legale in circolazione in
modo tale che essa non interferisca nel meccanismo, “spontaneo e sempre
benefico”, di formazione dei prezzi sul libero mercato. Ora, tutto ciò
si è dimostrato una illusione. Quando Reagan e la Thatcher hanno provato
ad applicare la politica di “monetary targeting” proposta da Milton
Friedman – ossia hanno provato a determinare preventivamente il montante
di moneta in circolazione – il risultato è stato disastroso. Infatti la
massa monetaria complessiva non diminuì affatto perché, a fronte della
contrazione della quantità di moneta legale, crebbe inesorabilmente la
quantità di moneta bancaria: quella creata ex nihilo dalle banche
(indipendentemente da obblighi di riserva legale in depositi, obblighi
che in molti ordinamenti non esistono affatto, e di cui le banche
rispondono, in caso di fallimento, con il proprio patrimonio ed il
capitale di fondazione).
Questo accadde perché la domanda di
moneta da parte di famiglie ed imprese trasformò la moneta bancaria in
un valido surrogato della moneta legale. La sostituzione della moneta
bancaria a quella legale impedì, nell’immediato, che le politiche
monetariste sprofondassero l’economia nella deflazione. Il fallito
esperimento monetarista dimostrò, da un lato, che l’inflazione non
dipende dalla quantità di moneta, legale o bancaria, in circolazione –
il Quantitative Easing di Mario Draghi ha iniettato enormi quantità di
moneta legale nel sistema ma non riesce a riportare l’inflazione vicina
al 2% – e, dall’altro lato, che né i Governi né le Banche Centrali sono
in grado di controllare la quantità complessiva di moneta – tutt’al più
possono controllare solo quella legale – sicché l’unico strumento a
disposizione della politica monetaria, per realizzare un almeno parziale
controllo del circolante, è soltanto la manovra sul saggio di interesse
o tasso di sconto. Ma senza affiancare alla politica monetaria anche
una politica fiscale espansiva, ossia senza il deficit spending ed un
ben studiato piano di cospicui investimenti pubblici, dalla depressione
non si esce. Il fatto è che la moneta è endogena, non esogena, al
mercato ossia dipende dalla domanda di moneta (non dalla sua offerta)
sicché il mercato, dove non trova a disposizione moneta legale,
sollecita ed accetta qualsiasi altro surrogato monetario per evitare la
contrazione del volume della produzione e dello scambio. Quindi il
problema che ha lo Stato non è solo quello di controllare la Banca
Centrale – con lo scopo di monetizzare a basso interesse il proprio
fabbisogno di spesa di investimento, stimolatrice della domanda
aggregata e quindi del mercato, e non per fare spending crunch come
vorrebbero i monetaristi – ma anche quello di controllare la moneta di
emissione bancaria, attraverso opportune normative che vincolano la
moneta bancaria al solo uso di investimento, da parte dei privati,
contestualmente reprimendone ogni uso speculativo.
Ma è efficace il Quantitative Easing? Ancora su Mario Draghi ed i suoi critici
La crisi iniziata nel 2009 è
caratterizzata, come già quella del 1929 della quale essa ripete alcuni
caratteri essenziali ad iniziare dal fatto che sono nate entrambe in
contesti storici di liberalizzazione dei mercati finanziari e di
liberismo dogmatico, è crisi da deflazione ossia da caduta vertiginosa
dei prezzi con conseguente sovrapproduzione, per mancanza di domanda,
implosione della produzione e disoccupazione di massa. Per combattere la
deflazione è necessaria l’inflazione ossia l’aumento dei prezzi. Questo
infatti è stato l’obiettivo al quale ha puntato la Bce di Mario Draghi
quando annunciò la discesa in campo dell’Autorità monetaria europea:
raggiungere un tasso di inflazione vicino al 2%. Un tasso che alcuni
critici ritennero già al momento dell’annuncio del tutto insufficiente
vista la gravità della deflazione in corso. Altri critici, di indirizzo
monetarista ed ordoliberista, ad iniziare dai detrattori tedeschi di
Draghi, invece paventarono impennate incontrollabili di inflazione su
scala europea.
Dopo l’annuncio del 2012 ed alcuni
iniziali provvedimenti presi nel 2014, il primo Quantitative easing fu
varato un anno fa, esattamente il 9 marzo 2015. Oggi a distanza di un
anno, mentre Draghi ha annunciato sia il prolungamento temporale di
detta misura sia nuove misure come l’ulteriore diminuzione del tasso di
interesse per arrivare fino a tassi negativi nel tentativo di aumentare
la liquidità monetaria sul mercato, molti hanno iniziato a fare un primo
resoconto sull’efficacia della politica monetaria espansiva della Bce
di Mario Draghi.
Il primo rendiconto stato proprio
quello, ufficiale, della Bce ossia di Mario Draghi per il quale tale
politica sta funzionando. Tuttavia questo è vero solo in parte. Perché
se l’obiettivo di calmare la speculazione e quello di sottrarre i Paesi
euro-mediterranei al default, per impossibilità di trovare mercato, a
buon prezzo, per i propri bond, sono stati raggiunti, almeno
provvisoriamente, non altrettanto può dirsi per l’altro, essenziale,
obiettivo che la Bce si era posto ossia l’innalzamento dell’inflazione
su livelli prossimi al 2%.
Secondo i critici keynesiani di Draghi
il QE (Quantitative easing) europeo sarebbe intervenuto troppo tarsi, a
crisi ampiamente aggravatasi, mentre il pronto ed immediato intervento
della Fed americano e quello Banca Centrale Nipponica hanno consentito a
Stati Uniti e Giappone di uscire prima dalla crisi anche se non tutti i
problemi nippo-americano sono stati risolti, ad iniziare dall’abissale
divario ancora esistenti tra i redditi dei diversi ceti sociali.
I critici monetaristi ed ordoliberisti,
in primis i conservatori tedeschi e la componente germanica del Board
della Bce, invece stanno stupidamente esultando del fallimento del QE
senza rendersi conto che, al contrario, detto fallimento ha messo una
pietra tombale sulla “teoria quantitativa della moneta” e dunque sui
presupposti stessi della scuola economica ortodossa, nelle sue diverse
varianti da quella neoclassica “viennese” a quella monetarista. Infatti
se la massiccia emissione di moneta legale, mediante acquisto a gogò di
debito pubblico da parte dell’Istituto di Emissione, non riesce a
portare l’inflazione né al 2% né a livelli superiori questo significa
una sola cosa ossia che la relazione, supposta dalla “teoria
quantitativa”, tra quantità di moneta in circolazione e livello dei
prezzi, ossia l’inflazione, non ha alcun solido fondamento e che i fatti
si sono incaricati di smentirla. O, perlomeno, che essa non è sempre
vera, anzi quasi mai. Ne consegue, con buona pace di Hayek, Mises e
Milton Friedman, che la causa dell’inflazione deve essere cercata
altrove, in altri fattori, che non nella cosiddetta massa monetaria.
La persistenza della deflazione, anzi il
suo aggravamento nonostante i massicci QE, compresi quelli
nippo-americani, dimostra che non è nella moneta di per sé, e pertanto
nella politica monetaria che da questo punto di vista è limitata, che
sta il potere di accrescere la domanda per superare la deflazione se a
fianco della politica monetaria, come dice lo stesso Mario Draghi, non
interviene la politica fiscale ossia la politica di spesa pubblica. E’
la rivincita di John Maynard Keynes su Milton Friedman.
Attenti però all’equivoco
Ma – attenzione! – quando Mario Draghi
ed altri invocano l’intervento della politica, ossia dei governi, spesso
si insinua un grande equivoco. Quello per il quale tali interventi
debbano consistere, in massima parte, in tagli delle tasse. Con due
obiettivi: tagliare la spesa pubblica, e quindi ridurre il debito, ed
aumentare il reddito disponibile per famiglie ed imprese per aumentarne
il potere d’acquisto e la domanda in modo da consentire ai consumi di
ripartire e di incentivare, mediante la riduzione delle tasse, gli
investimenti privati. E’ vero che insieme a quelli privati si concede,
vedasi il cosiddetto Piano Juncker (oltretutto presto arenatosi), anche
uno spazio agli investimenti pubblici. Da realizzare devolvendo i tagli
di spesa corrente all’aumento delle poste di bilancio destinati alla
spesa di investimento, in conto capitale, e non attraverso una massiccia
monetizzazione da parte della Banca Centrale per un ampio programma di
lavori pubblici o, nella nostra era cibernetica, di iniziative pubbliche
in settori ad alta remunerazione come le reti informatiche o la banda
larga. Ma è altrettanto vero che, in questa prospettiva, il ruolo che
gli Stati dovrebbero giocare continua ad essere considerato di rimessa,
ossia al traino del ruolo del mercato – laddove keynesianamente, al
contrario, gli investimenti privati seguono quelli pubblici – piuttosto
che da attore protagonista.
Si tratta, in altri termini, di una
versione riveduta e corretta della teoria dell’austerità espansiva,
secondo la quale il contenimento della spesa pubblica agevolerebbe gli
investimenti privati, che, fino a qualche anno fa, ha costituito la
dottrina ufficiale del FMI. Una dottrina opposta, come si diceva,
all’idea keynesiana per la quale gli investimenti privati si dirigono
solo dove c’è una forte domanda aggregata, quindi alti redditi, e non
dove detta domanda è bassa e quindi bisognosa, soprattutto in momenti di
recessione ovvero quando tutti hanno timore a spendere ed investire, di
sostegno dall’unico soggetto capace di spendere senza timori in tempi
di crisi ossia lo Stato, se fosse monetariamente sovrano. Nell’ottica
keynesiana gli investimenti privati, lungi dall’essere spiazzati da
quelli pubblici, seguono a ruota questi ultimi attratti dalla domanda
aggregata sostenuta da politiche di equità salariale e di spesa pubblica
di qualità.
La teoria ortodossa sull’origine monetaria di inflazione e deflazione confutata dalla crisi in atto
Il persistere della deflazione
nonostante i massicci QE sta dimostrando che la causa dell’inflazione è
da cercarsi altrove e non nella quantità della moneta in circolazione.
La deflazione, ossia il progressivo crollo dei prezzi, è causata dalla
mancanza di domanda aggregata, sicché l’offerta resta insoddisfatta, la
produzione non trova acquirenti né mercato, e di conseguenza i prezzi
tendono inesorabilmente ad abbassarsi avvitando tutto il sistema nel
vortice della recessione e della depressione. L’indicatore più evidente
della deflazione in corso è il prezzo petrolio che continua a crollare
dal momento che non c’è più la stessa forte domanda di greggio che c’era
prima della crisi. La produzione ferma o ristagnante non ha bisogno di
petrolio nelle stesse quantità di un tempo, da qui il crollo della sua
domanda. La stessa Cina, in precedenza grande consumatrice di oro nero,
ha tirato i remi in barca.
Significativamente una delle maggiori
cause, non certo l’unica né quella originaria (questa sta nei giochi
speculativi della finanza liberalizzata), dell’attuale deflazione è
nell’andamento del prezzo del petrolio. La cosa è significativa dal
momento che alla base delle due grandi fiammate inflazionistiche degli
anni ’70 del secolo scorso – quella che fecero gridare alla fine della
dottrina economica keynesiana e che imposero soluzioni monetariste come
l’indipendenza delle Banche Centrali o le politiche monetarie
restrittive – ci fu proprio il prezzo del petrolio, il quale, all’epoca,
aumentò spropositatamente per via della contrazione dell’offerta a
causa delle guerre arabo-israeliane, riflettendosi sull’aumento dei
costi di produzione e quindi sui prezzi finali dei prodotti. Si trattava
di inflazione da costi e da domanda di greggio (eccedente l’offerta).
La massa monetaria, sia legale che bancaria, aumentò soltanto in una
fase successiva all’aumento dei prezzi del greggio e dei prodotti
finali, perché “tirata” dall’impennata di questi ultimi.
Pur non potendosi a priori escludere
cause monetarie, che però dipendono da contesti storici oggi del tutto
insussistenti, l’inflazione ha le sue cause principali o nell’aumento
dei costi delle materie prime (inflazione da costi) o nell’aumento della
domanda a fronte di una offerta non sufficiente (inflazione da
domanda). La quantità di moneta in circolazione non c’entra nulla o
poco, ed è solo un effetto e non come causa.
Quando il QE fu annunziato, nel gennaio
2015, la previsione era di un’inflazione all’1,5% nel 2016 ed all’1,8%
nel 2017. Oggi le proiezioni più ottimistiche stimano che l’inflazione
nel 2016 si assesterà al di sotto dell’1% (a febbraio 2016 era al -0,2%)
e che l’obiettivo programmato dell’1,8% non sarà raggiunto neanche nel
2018. Tuttavia a parere di Mario Draghi senza il QE l’inflazione non
avrebbe dato neanche il timido segnale di risalita che ha dato. Se ciò
fosse completamente vero si potrebbe acconsentire con l’autodifesa
dell’attuale governatore della Bce. La questione è che il crollo della
domanda, e quindi del prezzo, del petrolio ha dato una mazzata al
tardivo – tardivo per colpa della cecità eurogermanica – QE europeo. Ma
anche depurando la bassa inflazione registrata dall’impatto negativo del
prezzo del greggio e delle altre fonti energetiche, i dati ci dicono
che l’inflazione “core” ha smesso di crescere. La politica monetaria
dimostra, dunque, tutti i suoi limiti nel tentativo di far ripartire
l’inflazione e con essa l’economia dell’eurozona.
Il punto è che l’attuale rallentamento
della domanda globale, non solo quella di materie prime e di fonti
energetiche, indica una contrazione generale dell’economia produttiva
per, appunto, carenza di domanda aggregata. Monetaristi e neoclassici
sono dunque serviti e smentiti nelle loro fumose utopie da “austerità
espansiva”. Mentre la domanda globale crolla, quella interna non riesce a
sostenere il mercato neanche a livello nazionale.
Alcuni effetti positivi del QE. Ancora sulle critiche tedesche
Il QE ha comunque ottenuto l’effetto,
positivo, di far scendere il tasso medio sui prestiti bancari a famiglie
ed imprese, dando una spinta al credito. Una spinta certo limitata ma
in ogni caso benefica sebbene di dimensioni molto ridotte. L’altro
importante effetto del QE è stato l’abbassamento dei tassi di interesse
sui titoli di Stato, consentendo, soprattutto ai Paesi euro-mediterranei
in difficoltà e sotto attacco speculativo, di ottenere risparmi di
bilancio sugli interessi sul debito pubblico. L’Italia ha risparmiato
circa 6,5 miliardi ma anche la Germania ha goduto di un risparmio di 5,1
miliardi. Il problema è che se il QE fallisse nel suo obiettivo
programmatico dell’inflazione all’1,8%, la perdurante deflazione sarà
devastante per gli Stati europei, in particolare per quelli del sud,
privi di sovranità monetaria, dato che mentre l’inflazione aiuta i
debitori, al contrario, la deflazione è vantaggiosa per i creditori.
Allo scopo di sollecitare le banche a
riversare sul mercato le ingenti risorse di liquidità da esse accumulate
in questi anni di crisi, per timore che eventuali prestiti concessi a
famiglie ed imprese si traducessero in ulteriori sofferenze bancarie che
si sarebbero accumulate a quelle già in atto, la Bce a guida Mario
Draghi ha recentemente abbassato ancora il già basso tasso di interesse
sui depositi che le banche hanno presso la Bce, riducendolo di altri 10
punti a partire da un –0,30% ossia da un tasso già negativo ovvero sotto
lo zero. Le banche naturalmente, nella loro tendenza autoreferenziale,
hanno immediatamente levato gli scudi dal momento che in tal modo esse
si vedono contratti i guadagni sulla rendita da interesse detenuta nei
confronti della Banca Centrale. La “crociata” è guidata, non a caso,
dalle banche tedesche, responsabili a suo tempo della crisi in Europa
con il loro decennale prestar facile ai “piigs” per sostenere l’export
tedesco, che ora, con l’appoggio della Bundesbank, innalzano moralistici
argomenti contro l’“azzardo morale” di Draghi e dei governi
“euro-sudici”.
Il problema principale dell’UE
Lo scenario dell’eurozona sta inoltre
dimostrando che il vero problema è l’assenza di un’Autorità Politica
Confederale che coordini le politiche fiscali nazionali, con manovre
espansive di bilancio, ossia maggiori investimenti pubblici, unica
politica che possa far uscire qualsiasi economia dalla depressione.
Autorità Politica affiancata da una autorità monetaria – la quale
dovrebbe essere pubblica dato che, in quanto “quarto potere” dello Stato
o della Confederazione di Stati, dopo il legislativo, l’esecutivo, il
giudiziario, non si vede nessun fondato motivo per cui la Banca Centrale
deve essere patrimonialmente privata: la magistratura privata, come gli
arbitrati, è una residua eccezione nell’ambito di uno dei poteri
dell’Autorità Politica secondo l’accezione moderna montesquieiana – che
agendo “sinfonicamente” con il governo politico ne sostenga gli sforzi
monetizzando la spesa di investimento in un regime normativo che ne
regoli l’uso in senso altamente qualitativo e contenga, reprimendolo,
qualsiasi uso allegro e facile della spesa pubblica. In altri termini,
la sola politica monetaria, come quella attuata nell’UE per vuoto
politico, non basta.
«La situazione economica di Eurolandia – ha scritto Riccardo Sorrentino su Il Sole24ore del 10 marzo scorso – è
sempre più difficile da risanare con la politica monetaria. I tassi
(ufficiali) reali sono negativi dal 2011, ma le famiglie europee
risparmiano una quota … crescente del loro reddito (…). I prestiti … non
crescono (…) (nonostante che) Parallelamente l’offerta di moneta della Bce, la base monetaria …, è (…) (in) aumento,
negli ultimi 18 mesi, del 57%. Questi sono i sintomi – come insegna da
tempo Richrad Koo di Nomura – di una recessione da bilanci (balance
sheet recession), che ha interessato … le economie di Eurolandia (…).
Durante questo tipo di crisi l’obiettivo di famiglie e imprese è di
ridurre i debiti e comunque, se non altro per le crescenti incertezze,
di non farne di nuovi; mentre le sofferenze impediscono alle banche di
prestare le risorse necessarie a una ripresa. La via d’uscita? La
politica fiscale, che però in Eurolandia è affidata ai singoli governi.
Quelli più “bisognosi” però non hanno più spazio per agire, un po’ per i
vincoli del Fiscal Compact, un po’ perché non hanno la necessaria
fiducia degli investitori di altre economie (…). E’ tutto il mondo,
infatti, a essere in difficoltà, e ovunque la politica monetaria deve
far fronte a vincoli globali avendo a disposizione armi “locali”,
limitate a quella che le banche centrali chiamano la propria
“giurisdizione”. (Sarebbero necessari) (…) interventi
coordinati, che però non sembrano probabili. Un’analisi di Gustavo Reis,
per la Oxford economics, mostra … che tre fattori globali comuni, uno
legato ai prezzi delle materie prime, uno alla disinflazione nei paesi
emergenti, uno agli effetti dei cambi, spiegano … la variabilità
dell’inflazione globale. Tutto questo non significa che sia inutile
ampliare il quantitative easing, o sia necessario – come chiedono i
tedeschi – rinunciare a far salire l’inflazione al 2%. (…) però … dopo
l’euforia da politica monetaria, è iniziata … una fase di disincanto sul
potere delle banche centrali».
Oltretutto, in assenza di una Autorità
Politica che sappia normare il comportamento degli operatori economici,
ad iniziare dalle banche, può accadere che la politica monetaria
espansiva, portando i tassi di interesse sui depositi verso lo zero,
abbia come effetto collaterale l’innalzamento dei tassi sui mutui
bancari con la conseguenza di parzialmente vanificare gli effetti
espansivi della politica monetaria stessa. Accade, cioè, che le banche,
se non impedite a farlo oltre la misura necessaria, nei periodi di crisi
economica, per restare a galla a “filo d’acqua”, chiedendo ad esse un
momentaneo sacrificio per il bene comune, cercano di recuperare
oltremisura il costo che, con i tassi negativi, esse devono sopportare
sulla liquidità dei depositi.
Le banche non fanno solo intermediazione finanziaria
Il fatto è che fino a quando non si
comprenderà, anche a livello accademico, che le banche non fanno mera
intermediazione finanziaria ma creano moneta ex nihilo sotto forma di
“moneta bancaria”, perché tale è ogni accensione di prestito per
effettuare la quale non è affatto necessario alla banca possedere in
cassa l’equivalente in depositi – questi ultimi verranno dopo, alla fine
del circuito finanziario, quando i beneficiari del prestito copriranno
con moneta legale o altra moneta bancaria il mutuo originariamente
contratto –, non si potranno porre le basi culturali per acquisire piena
consapevolezza che, essendo esse non mere attività economiche, tali da
risolversi riduzionisticamente in soli rapporti commerciali,
patrimoniali o obbligazionari, ma innanzitutto funzioni politiche
espressione della sovranità politica, nazionale o confederale, la moneta
e l’attività creditizia, bancaria, anche laddove lasciate all’esercizio
privato, non possono essere non controllate e regolate, per dirigerle a
finalità politiche di bene comune, dall’Autorità Politica, pur
affiancata da necessari organi a competenza tecnica.
Ma questa consapevolezza culturale,
dalla quale sola può scaturire una “rivoluzione politica”, stenta, come
detto, ad affermarsi anche a livello accademico se persino docenti
universitari di economia, come Marina Brogi, insistono a scrivere (Il
Sole24ore del 10 marzo scorso) che la redditività ed il profitto delle
banche provengono dal «margine di interesse … ossia quanto si
guadagna dall’intermediazione creditizia – raccolta di depositi ed
erogazione di prestiti …» nonostante che sia ormai scientificamente
acclarato (endogenità della moneta) che la sequenza reale dell’attività
bancaria non è “raccolta depositi → erogazione prestiti” ma quella
esattamente contraria “erogazione prestiti →raccolta depositi”. La
scienza neoclassica ragiona ancora come su schemi concettuali validi,
forse, secoli fa, nell’epoca del regime monetario aureo.
(Continua)
Luigi Copertino
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