PS: I "dirigenti sindacali" dovrebbero, ma non ne hanno la dignità, portare i registri in Tribunale e dichiarare il "fallimento ideologico per ...evidente infermità mentale". Scusate, ma i penso come tantissimi lavoratori o ex lavoratori e persini esodati e disoccupati, non abbiano capito che dirigenti sindacali sono "ciccia-ciccia" con i peggiori padroni
umberto marabese
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I call center ora restano in Italia. Contro le delocalizzazioni stipendi ridottiUn
accordo sindacale di agosto prevede contratti a progetto con salari
ridotti al 60% dei minimi. E la legge del governo Monti sospende
l'erogazione degli incentivi per le aziende che trasferiscono le proprie
attività all'estero.
Delocalizzare o restare in Italia? Questo è il problema. Almeno per i call center, settore simbolo del precariato.
Il trasferimento delle attività all’estero è noto da tempo e ha
riguardato marchi come Sky, Fastweb, Vodafone oppure realtà del settore
importanti come Almaviva. Tra i paesi preferiti la vicina Albania, con circa 60 aziende tra Durazzo, Valona e Tirana. Ma anche la Romania o la Tunisia.
Se negli anni Duemila, come nel caso di Atesia, i lavoratori
manifestavano soprattutto per regolarizzare il proprio lavoro, ora la
protesta è contro le delocalizzazioni: lo hanno fatto quest’estate i
dipendenti Fastweb oppure l’Almaviva di Palermo e, ancora, i dipendenti
di E-Care.
In tempi di crisi ogni lavoro è essenziale, anche
quello meno professionale dei call center, per quanto si tratti ormai di
una occupazione rilevante. In Puglia, ad esempio, Teleperformance è la
seconda azienda dopo l’Ilva con 3.000 dipendenti, mentre Almaviva (ex
Atesia) ne occupa 24 mila in Italia. Contro le delocalizzazioni si sono affermate due soluzioni: una legislativa, l’altra sindacale......
La
prima, ha posto dei limiti al processo con apposite restrizioni. La
soluzione sindacale sembra invece aver adottato il principio: se il call
center si sposta in Albania portiamo l’Albania qui da noi. Cioè,
riduciamo drasticamente i salari. È quanto appare dalla lettura
dell’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due
strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact in cui si
prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60 per cento della paga
minima.
Con i 100 mila occupati – senza contare quelli interni
alle aziende – i call center sono la vetrina per clienti in cerca di
informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”. Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in outbound,
cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e
televendita, ricerche di mercato, ecc.). Si tratta di 30 mila addetti
per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso
alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così i datori di
lavoro e i sindacati di categoria, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil,
hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo
tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60 per cento
fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno
fino a raggiungere il 100 per cento del minimo nel 2018. Una forma
originale di “salario di ingresso” prolungato nel tempo. Inoltre, per le
nuove assunzioni al termine del contratto, l’azienda utilizzerà i
lavoratori già assunti sulla base di una graduatoria. Ma per potervi
accedere i collaboratori dovranno sottoscrivere “un atto di
conciliazione individuale conforme alla disciplina prevista dagli
articoli 410 e seguenti del Codice di procedura civile”. Si tratta della
rinuncia a diritti pregressi che non vengono nemmeno specificati.
Sai
da parte datoriale, sia da parte sindacale, l’accordo è stato difeso
come “una importante novità nel panorama delle relazioni industriali”.
Le parti hanno addirittura siglato un comunicato congiunto al Fatto, il presidente di AssTel, Cesare Avenia,
spiega che “non era mai avvenuto prima che si stipulasse un accordo
avente come oggetto dei lavoratori non dipendenti”. Avenia poi, insiste
sull’importanza di “aver fissato una retribuzione minima” in un accordo
che “amplia le certezze per i lavoratori”. Allo stesso tempo, però, fa
notare una fonte sindacale, “si istituzionalizza una contrattazione
separata per i co.co.pro che impedisce loro di accedere al contratto
generale”.
L’altra misura, quella legislativa, è stata introdotta dal decreto del governo Monti
del giugno 2012. Prevede che il cliente contattato da un call center
sia immediatamente informato della collocazione estera di chi raccoglie i
suoi dati. Ma soprattutto sospende l’erogazione degli incentivi “ad
aziende che delocalizzano attività in Paesi esteri”. Norma in parte
mitigata dalla circolare interpretativa del 2 aprile di quest’anno con
la quale il ministero del Lavoro ha limitato le restrizioni solo alle
delocalizzazioni verso “paesi extracomunitari” in analogia con la
legislazione Ue.
Nati impetuosamente agli inizi degli anni Duemila, i call center si sono evoluti confusamente con contratti “selvaggi”.
La vertenza dell’Atesia nel 2005 ha costituito uno spartiacque, anche
per la durezza dello scontro. Contemporaneamente sono usciti i film di Ascanio Celestini, Parole sante (basato proprio sull’Atesia) e, in particolare, Tutta la vita davanti di Paolo Virzì tratto dal libro di Michela Murgia, Il mondo deve sapere. Il call center sembra la catena di montaggio degli anni Duemila. Nel 2006, l’allora ministro del Lavoro, Cesare Damiano,
uno dei pochi che si occupa ancora di lavoro, con una circolare riuscì a
stabilizzare “circa 24 mila lavoratori”. Lavoro distrutto dal
successivo governo Berlusconi. Nel frattempo si è
ampliato il fenomeno di delocalizzazione alla ricerca del costo del
lavoro più basso. Fino a scoprire che quel costo si può ridurre anche
qui.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/02/i-call-center-ora-restano-in-italia-contro-le-delocalizzazioni-stipendi-ridotti/796665/
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