Paradossalmente, uscito dal governo, grazie alla tv il leghista è entrato direttamente in casa nostra: come prima e più di prima. La colpa però non è sua, anche se qualche testata fa a gara per addebitargliene la responsabilità. Se Salvini sta sempre sugli schermi è perché lo invitano e se lo invitano non è perché stia sommamente simpatico ai conduttori dei vari talk show, ma semplicemente perché con lui si alzano gli ascolti, mentre con altri si ammosciano....
Anche Giorgia Meloni sta spesso davanti alle telecamere e anche nel suo caso non si può dire che goda di particolari simpatie fra i giornalisti. Anzi: la leader di Fratelli d’Italia è accolta non di rado con pregiudizio e fastidio, al punto che in qualche caso è costretta a una specie di corpo a corpo in diretta tv per riuscire a completare il suo discorso, come è accaduto anche di recente nel salotto condotto da Lilli Gruber. Tuttavia, se Salvini e Meloni sono ospitati con frequenza nei programmi televisivi non è solo per l’audience che raccolgono, ma anche perché altri leader si concedono con parsimonia.
Prendete per esempio il caso di Nicola Zingaretti: il capo del Pd non compare quasi mai in televisione, tanto che gli addetti alle ospitate, ossia gli autori che blandiscono i portavoce per ottenere la partecipazione dei politici, se ne lamentano di continuo. Andrea Scanzi, conduttore di Accordi e Disaccordi, ne ha addirittura scritto, spiegando sul Fatto quotidiano che se in tv ci stanno i soliti due non è per scelta, ma per necessità, perché alla fine i palinsesti vanno riempiti.
Mi sono domandato perché il leader del maggior partito della sinistra debba disertare gli studi televisivi, lasciando spazio ad altri del suo milieu politico tipo Matteo Renzi o Carlo Calenda. In principio ho pensato che al pari di Nanni Moretti in Ecce bombo Zingaretti si fosse chiesto se lo si notasse di più accettando l’invito o rifiutandolo. In realtà, il problema non credo sia che dalle parti del Nazareno si siano convinti di farsi notare di più standosene in disparte. Molto più banalmente Zingaretti non è un leader. Eh sì, il nocciolo del problema è tutto qui: il governatore del Lazio è segretario del partito a sua insaputa. O meglio: è segretario all’insaputa del partito, dei suoi militanti e dei suoi elettori. Sì, le primarie le ha vinte, ma poi ha perso la sfida della leadership, ossia della capacità di dettare una linea politica e di rappresentarla. Che Zingaretti sia un segretario ologramma lo dimostra anche la nascita del Conte bis. Fosse stato per lui, il governo con i Cinque stelle non sarebbe mai nato, prova ne sia che fece votare in direzione un solenne impegno per vincolare il Pd a respingere qualsiasi alleanza con i grillini. Peccato che il giuramento sia durato lo spazio di un mattino, travolto nel giro di poco dalle pressioni dei big del partito. Così il povero Zingaretti rinculò assestandosi sul fronte della discontinuità, che tradotto in parole semplici prevedeva un no senza se e senza ma a un reincarico a Giuseppe Conte. Ma anche questa resistenza è durata poco e nel giro di una settimana Zingaretti è stato costretto a digerire l’amara medicina, accettando il reincarico al presidente del Consiglio che si era definito orgogliosamente populista.
Che razza di governo sia nato dall’unione di fatto fra grillini e piddini lo vedete. Infatti non passa giorno che non scoppi una grana. E però Zingaretti, quello che non voleva allearsi con i Cinque stelle e non voleva Conte, ora assicura che il premier è un punto di riferimento diretto delle forze progressiste, e ciò vuol dire che, se si votasse, il segretario del Pd sarebbe pronto a candidarlo come capo di un governo di sinistra. Vi chiedete come sia possibile in pochi mesi passare da «Tutti meno che Conte» a «Conte santo subito»? La risposta è semplice e sta nell’elenco delle ospitate tv. Zingaretti non è un leader, ma un onesto burocrate di partito che non infiamma le masse e neppure l’audience. Se non va in televisione non è perché gli studi siano occupati da Salvini e Meloni, ma perché sa – e lo sanno anche i conduttori e i giornalisti che denunciano l’occupazione televisiva – che non ha niente o quasi da dire. È il problema generale della sinistra, che da anni ha perduto consenso, ma anche leadership, passando da Piero Fassino a Pier Luigi Bersani, per poi mettersi nelle mani di un incantatore di serpenti come Matteo Renzi, ossia di un tizio che sta alla sinistra come la sinistra sta a Silvio Berlusconi. Tornando al tema delle presenze in tv che tanto allarma gli amanti della par condicio, la questione di cui preoccuparsi non è l’assenza dei leader progressisti nei talk show, ma l’assenza di leader progressisti. Anzi, forse sarebbe il caso di dire che non sono neppure i leader a mancare, ma è proprio la sinistra a essere sparita e quella che rimane non si sente tanto bene.
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