Ed ora quale leader europeo avrà il coraggio di visitare uno degli immensi campi profughi ai confini con il Libano, la Turchia, la Giordania, e versare lacrime di coccodrillo sulla sorte di quell'umanità sofferente che si conta a milioni? E chi, di questi capi di governo o di Stato, avrà la faccia tosta di parlare di solidarietà, di intollerabile ingiustizia, magnificando lo straordinario lavoro di quei volontari internazionali, molti dei quali europei, che rappresentano, loro sì, l'orgoglio di un Occidente che non predica ma pratica quei principi a fondamento di una civiltà avanzata? Chi avrà la spudoratezza di non abbassare lo sguardo di fronte al volto scavato di una donna, di un bambino, fuggiti dall'inferno di guerre, pulizie etniche, stupri di massa, da uno sfruttamento disumano, per finire chiusi nella stiva di una carretta del mare o presi in ostaggio dalle bande di trafficanti di esseri umani che spadroneggiano nel deserto del Sinai, altra rotta della morte oltre a quella del Mediterraneo?...
Ciò che è avvenuto nel recente Consiglio dei ministri degli Esteri e della Difesa dell'Ueè molto più di una "brutta pagina" tra le tante scritte in questi anni dall'Europa. Molto di più, molto di peggio. Quel Consiglio rappresenta uno spartiacque tra il "prima" e il "dopo": ciò che si è consumato, attorno alla disputa sulle quote, è una irrimediabile Waterloo morale, prim'ancora che politica, dell'Europa, dei suoi organismi sovranazionali, delle sue cancellerie. Le dispute sulle quote dei migranti-asilanti da assorbire sono la tragica metafora di un Continente vecchio, prigioniero delle sue paure, guidato, e qui davvero non conta niente dichiararsi di "sinistra" di "centro" o di "destra", da politici che fanno rivoltare nelle tombe i padri fondatori dell'Europa, gli Adenauer, i De Gasperi, gli Altiero Spinelli.
La disputa sulle quote racconta di leader che, salvo rare eccezioni, non hanno il coraggio di andare controcorrente rispetto alla "pancia" dei loro elettorati, di prospettare una visione altra, e alta, rispetto ai costruttori di muri di diffidenza se non di aperto razzismo (vedi il premier ungherese Viktor Orban). Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, aveva invocato, sull'onda emozionale della più immane tragedia di migranti dal dopoguerra ad oggi, una Europa meno egoista, più aperta e solidale. La risposta venuta dal vertice di Bruxelles è sconfortante. Primi ministri "socialisti" (Manuel Valls) che dimenticano come nel dna della "gauche" vi fossero valori quali la libertà, la fraternità, l'uguaglianza (almeno delle opportunità) e la giustizia; primi ministri popolari (lo spagnolo Mariano Rajoy) che facendo qualche calcolo elettorale smarrisce la memoria di quei "popolari", come Alcide De Gasperi ed Helmut Kohl, che in epoche diverse hanno visto lontano e gettato le basi di un'Europa nuova, unita non solo dai mercati ma anche da una visione di sé, del proprio posto nel mondo.
A Bruxelles ci si è divisi non sui numeri, di per sé risibili, ma su valori, il primo e più importante dei quali, un valore universale, è il diritto alla vita, oggi negato a milioni di esseri umani che fuggono da un Medio Oriente in fiamme, da un'Africa retta da dittatori sanguinari o da fanatici propugnatori della più brutale "dittatura della sharia" (Boko Haram in Nigeria, al-Shabaab in Somalia, e l'elenco potrebbe continuare a lungo). L'Europa ha di fatto sprangato le sue porte, barattando la chiusura anche a un solo nuovo migrante con qualche nave o elicottero da piazzare al largo della Libia (David Cameron, primo ministro del Regno Unito). Non solo numeri, ma anche i numeri racchiudono in sé una verità amara, che inchioda l'Europa dei Ventotto ai propri egoismi imperdonabili.
Ventotto Paesi, tanti sono i membri dell'Ue, hanno dissertato, polemizzato, minacciato, si sono divisi su ventimila-quarantamila nuovi migranti-asilanti che andavano suddivisi: 1000-1500 a Paese! Troppi, hanno gridato alcuni, neanche uno in più, hanno alzato la voce altri, rivediamo i criteri delle quote, "mediavano" i meno intransigenti. Uno spettacolo indecoroso, tanto più tale se raffrontiamo queste cifre con altre, che riguardano Paesi molto meno solidi economicamente, e stabili politicamente, di quelli che hanno dato vita alla "farsa di Bruxelles": pensiamo al Libano, Paese di nemmeno sei milioni di abitanti che oggi ha l'onere di garantire la sopravvivenza ad oltre 1 milione di rifugiati siriani, o la Giordania che ne assiste oltre 400mila, o la Turchia che ha raggiunto anch'essa il milione di rifugiati che fuggono dall'orrore della guerra siriana o dalla mattanza irachena perpetrata dall'esercito del "Califfo Ibrahim", al secolo Abu Bakr al-Baghdadi, vero e proprio capo di uno Stato "parallelo" di un territorio sempre più esteso, che va dall'Iraq a metà della Siria.
Di alcune di queste tragedie l'Occidente è direttamente responsabile: le sciagurate guerre in Iraq volute dalla dinastia Bush, la dissoluzione dello Stato libico, frutto di una guerra che poco aveva a che fare con l'umanitarismo e quasi tutto con una nuova spartizione della "torta" petrolifera libica. Per non parlare del sostegno a uno dei regimi più feroci sulla faccia della terra: quello dell'Eritrea. Farsi carico delle vittime di una strategia politica disastrosa è il minimo che si sarebbe dovuto fare, e non è stato fatto. Alza la voce Matteo Renzi, e dal salotto mediatico di Bruno Vespaavverte: " L'Ue per la prima volta ha affermato che il problema non è solo italiano. I Paesi hanno accettato di mandare le navi, ma devono accettare il principio delle quote. Non è che mandano le navi e lasciano gli immigrati a Pozzallo.". E ancora: "Si discuterà in Europa di quote - all'Italia toccherebbe circa l'11% - fino al 26 giugno; l'Europa la piglia calma. Poi ci sarà un Consiglio europeo che metterà la parola fine; abbiamo un mese di tempo per capire se c'è un accordo serio o è fuffa". Al momento, viene da dire: buona la seconda. A dettare l'"agenda" migranti sono le forze più retrive e al tempo stesso aggressive sul piano politico e ideologico.
Un esempio per tutti: Marine Le Pen. Ad una Europa balbettante, la leader dell'Fn dice, seriamente, di prendere esempio dall'Australia. Ecco perché: "Zero migranti illegali e zero vittime al largo delle coste. Per mettere in sicurezza i barconi bisogna fermarli e rimandarli verso i porti di partenza. Se lo facciamo per 20 volte, la ventunesima i migranti smetteranno di pagare i trafficanti". L'Europa non è credibile neanche quando prova a fare la faccia truce e minacciare la guerra agli scafisti. Per evitare di uscire dal vertice di Bruxelles con un clamoroso nulla di fatto, i protagonisti dell'evento hanno deciso di giocare a "battaglia navale" affidandone all'Italia la guida. Si contano le navi, si sommano gli elicotteri, si istituisce il quartier generale (a Roma), si nomina l'Ammiraglio capo (l'italiano Enrico Credendino.), ma tutti sanno che per sconfiggere i trafficanti di esseri umani e i loro alleati jihadisti, non basterà "pattugliare" da lontano le coste libiche, ma occorrerà avvicinarsi ai porti, operare "incursioni mirate", il che vuol dire che su quelle navi dovranno essere presenti incursori, teste di cuoio, reparti scelti in grado di portare a termine blitz terrestri. Significa combattere.
E per l'Italia, che ha premuto per averne il comando, mettere a disposizione ben più dei 5mila uomini prospettati dalla ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Molto si è scritto e detto in questi giorni di una missione "modello Somalia", facendo riferimento alla missione anti-pirateria, nome in codice "Atalanta", autorizzata da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ma la Libia è qualcosa di molto più complesso e pericoloso di una "nuova Somalia" nel Mediterraneo. Perché in Libia agiscono oltre 200 milizie bene armate, delle quali fanno parte ex militari dell'esercito di Gheddafi, jihadisti addestratisi in Afghanistan, in Iraq, in Siria. In Libia dettano legge le tribù, 150, esistono due "governi" e due "parlamenti" contrapposti fra loro, dei quali quello riconosciuto internazionalmente - il governo di Tobruk - ha un controllo del territorio infinitamente minore del suo rivale, il "governo" islamista di Tripoli, che ha in mano la Cirenaica e tutte le città costiere e i porti da cui prendono le mosse i "viaggi della morte".
Per non parlare poi dell'area della Libia dove è sorto il "califfato di Derna", filiera nordafricana dello Stato islamico di al-Baghdadi. Davvero si pensa di poter sconfiggere gli "schiavisti del Terzo Millennio", e i loro sodali jihadisti, col solo pattugliamento delle acque internazionali prospicienti le coste libiche? La risposta vera, quella condivisa da tutti gli analisti militari è: no, non è pensabile. E allora, delle due l'una: o si fa finta di giocare a "battaglia navale", tanto per mettersi a posto la coscienza, altrimenti si fa sul serio, e allora si mettono in conto le inevitabili perdite in vite umane, si prevedono i "danni collaterali", modello Afghanistan e non Somalia. Per questo, la partita vera, su questo fronte politico-militare, non si è giocata a Bruxelles ma è in corso a New York, Palazzo di Vetro. Una partita che necessariamente chiama in causa la Russia di Vladimir Putin (come si concilia questo con le sanzioni comminate a Mosca sull'Ucraina?).
Non basta: in Somalia si poté intervenire, con la necessaria copertura Onu, perché l'intervento internazionale era stato richiesto, o comunque "accettato" dall'unico, per quanto debole, governo esistente in Somalia: quello di Mogadiscio. Lo schema non può essere replicato in Libia. Il problema non è solo scegliere tra i due "governi" quale sostenere, anche sul piano militare, sapendo che questa scelta verrebbe presa dall'escluso come una dichiarazione di guerra. Il punto è che dietro i due "governi" vi sono potenze regionali che non accetterebbero passivamente la scelta dell'Europa. Dietro il "governo" di Tobruk c'è l'Egitto del generale-presidente al-Sisi, dietro quello di Tunisi, agiscono, con varie gradazioni, la Turchia di Erdogan e le petromonarchie del Golfo. Attorno, stanno a guardare, diffidenti, l'Algeria, il Marocco, la Tunisia. Accontentare tutti non è impresa difficile, è semplicemente, tragicamente impossibile.-----------
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