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Oltre ai Benetton, che hanno tentato senza riuscirci di fuggire dall’orrore di Genova, abbiamo scoperto in questi giorni un secondo gruppo di conigli: il Pd. Un’affermazione, questa, che scrivo con particolare dispiacere perché se di Benetton posso scrivere in astratto, del Pd sono una elettrice, e continuo a riconoscermi nella tradizione della sinistra.
I fischi inequivocabili, e non corretti da nessun applauso ( come succede di solito), alla delegazione dem durante i funerali sono stati tanto più dolorosi per il Pd perché rivolti a suoi esponenti che negli ultimi anni non hanno avuto nel partito ruolo di primo piano. Il giorno dopo, tuttavia, non arriva dal Pd nessuna presa d’atto. A parte alcuni cenni di sincerità, fra cui le parole dell’ex senatore Stefano Esposito (“il popolo ora è contro di noi”, Corriere della Sera), i dem si sono rifugiati nelle solite versioni classiche dei partiti in difficoltà, cioè che i fischi siano stati una operazione organizzata. Nemmeno Genova dunque ha interrotto la fuga dalla realtà dei dirigenti Pd...
E’ incomprensibile, intanto, che il primo partito di opposizione non si sia presentato a Genova in tutti i suoi ranghi. C’era Martina, segretario attuale, che in tutta la sua provvisorietà ci ha tuttavia messo la faccia. Con lui, oltre la Pinotti, c’erano Cofferati (da tempo non più Pd) e Chiamparino, la deputata Paita, e figure dell’amministrazione locale. Ma non c’era il segretario di fatto Matteo Renzi, non c’erano il Presidente Matto Orfini, Graziano Del Rio ex ministro delle Infrastrutture, il ligure ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l’ex premier Paolo Gentiloni, e nemmeno altri della storia di questo partito; o del sindacato, come Susanna Camusso. E non è forse Genova, nella iconografia italiana, una città simbolo della lotta, dello spirito, della storia della sinistra, per decenni governata da amministrazioni rosse? Davvero non era necessario (anche a costo di prendersi fischi?) presentarsi a omaggiare quei morti?
Questa assenza è una ennesima manifestazione della fuga permanente in una sorta di realtà virtuale in cui il Pd si è rifugiato, dopo la sconfitta elettorale. Scelta che ha fatto prevalere il politicismo sulla politica.
In affanno sul territorio, incapace di ricostruire la sua rete locale, il Partito Democratico che ha scelto con Renzi una forma di aventinismo, ha dato vita in questi mesi a una opposizione che somiglia a una astratta guerra combattuta da lontano, uno scontro di comunicati, facebook live e tweets. Politicismo, appunto, laddove la politica avrebbe richiesto, ad esempio in questa occasione, di affondare le mani nella materia bollente della realtà.
Materia bollente è la definizione esatta. Quanto ha contato sulla decisione di non andare a Genova il fatto di essere sotto accusa di connivenza con i Benetton, di dipendenza, oggi e nel passato, dal capitalismo italiano? Accuse da cui il Pd si sta, giustamente, difendendo, denunciando una “campagna ingiusta, e fondata fu fake news”. Ma il modo migliore per difendersi era esserci, a Genova, e non solo ai funerali. Esserci a prendersi i pomodori magari, non solo i fischi. Esserci come assunzione di responsabilità – anche degli eventuali errori.
Fare questo passo avrebbe tuttavia significato rompere la bolla in cui il Pd e il suo ex segretario Matteo Renzi hanno vissuto. E non da adesso. Ancora oggi, dopo quasi due anni, non abbiamo una complessa spiegazione sul perché della sconfitta del referendum il 4 dicembre 2016. Così come,da allora, non abbiamo visto nessun cambiamento . Renzi fece un passo laterale dalla segreteria, mantenendo il controllo del Pd, e si formò un nuovo governo con il paziente Gentiloni che ha gestito (bene) tutto quello che si poteva e doveva fare per evitare uno scossone post-sconfitta. Per il resto, ci si aggrappò a quel 40 per cento come a un successo, e si cominciò già allora a scaricare tutto sui populismi.
Fuga dalla realtà, appunto. Una insensibilità ai propri stessi meccanismi di sopravvivenza, nonostante tutti i campanelli continuassero a suonare: la disgregazione interna, le miniscissioni, il proliferare di sottogruppi di interessi, l’aumento della mancanza di trasparenza. Il tutto convogliato nel segnale di allarme più serio per un partito – la costante caduta nei consensi elettorali.
La cosa più strabiliante del processo che abbiamo appena ri-raccontato, è che nulla di tutto questo fosse sconosciuto o taciuto. Tante voci (incluso l’HuffPost, nel proprio piccolo spazio) si sono alzate dentro e fuori il partito, dentro e fuori i luoghi dove si forma l’opinione pubblica, per avvertire che il Pd era su una rotta che lo portava a schiantarsi.
Cosa stesse succedendo, del resto, non era difficile da capire perché le turbolenze del Pd erano parte di un grande fenomeno visibile in tutto il mondo occidentale. Globalizzazione, tecnologia – lo ripeto qui solo per forma – hanno cambiato il mondo e tutti noi. Ai meravigliosi balzi in avanti di cui oggi godiamo i vantaggi, è corrisposta la distruzione delle classi sociali come le conoscevamo. Nel grande treno dello sviluppo i vagoni di testa hanno accelerato e i vagoni di coda si sono staccati per strada. Uso questa immagine perché si impose anni fa nella scena mediatica internazionale perché usata dal Comandante Marcos, un giovane messicano incappucciato che nel capodanno del 1994 guidò un piccolo esercito di indios armati di frecce ad occupare i comuni di alcune città del Chiapas. Fu la prima rivolta contro la globalizzazione e venne considerata paternalisticamente come un segno di un mondo che scompariva. Da allora oltre agli indios sono stati massacrati dal treno del Chiapas anche operai e classe media. Ridotti il loro reddito, il loro prestigio, il loro percorso nel futuro. In questo l’Italia è stata tutt’altro che sola. E tutt’altro che inconsapevole.
Centinaia di convegni in tutte le città del mondo, spesso organizzati da istituti, istituzioni, think tank delle forze democratiche, hanno negli ultimi anni studiato e denunciato questi effetti. Ma la consapevolezza in nessun paese occidentale è mai divenuta nuova politica – e la sinistra si sta spegnendo piano piano insieme al patto sociale che aveva sostenuto l’equilibro del dopoguerra, la fondazione dell’Europa, e la stessa democrazia rappresentativa. La elezione di Trump, la vittoria della Brexit, la vittoria in Italia di Lega e 5Stelle, la crisi dei governi e delle idee europee, la nascita in molti paesi non occidentali di nuovi uomini forti a presidio di economie chiuse, è il mondo in cui viviamo. Già, qui e ora. Perché la sinistra, italiana e mondiale, pur sapendo tutto questo, ha perso se non del tutto il potere politico, di sicuro la sua egemonia intellettuale?
La risposta è anche questa non difficile. Perché la sinistra nonostante sapesse non è riuscita a elaborare una pratica politica adeguata ai nuovi tempi. Forse perché la sua classe dirigente è rimasta nei vagoni di testa del treno. Lontana dalla realtà più cruda e difficile.
Il renzismo è stato il perfetto esempio di questa spaccatura fra intenzioni e pratica. Al suo arrivo sulla scena politica raccolse l’entusiasmo generale di quel desiderio di cambiamento che c’era nella società italiana. La sua invece è stata una storia di non incontro con la maggioranza del paese.
Cosa sia andato perduto nel suo operato e in quello del suo Pd, lo sapremo forse fra alcuni anni da qualche studioso serio. Di certo la sinistra oggi, in tutte le sue affiliazioni, è profondamente invisa ai più. Ripiegata nella denuncia del populismo come origine dei suoi mali, e di quelli del paese. Con il risultato che sempre più spesso, la condanna ai vari Trump , Salvini e Di maio, coincide per la sinistra con la condanna anche di chi li ha votati.
Il senso di abbandono, di sfiducia, di paura è oggi la vera materia della politica. Invece di attaccare, criticare, sminuire queste domande l’unico modo per riprendere l’iniziativa politica (e per noi giornalisti, e tutti i costruttori della pubblica opinione, di dare senso alle nostre funzioni), è quello di farsene coinvolgere. Legittimarle, capirle, elaborando proposte anche radicalmente diverse dalle formule da noi sempre sostenute: d’altra parte che tutte le formule politiche ed economiche possono cambiare ce lo dice la storia.
L’alternativa al “populismo” non si crea con la sua denuncia, non si forma chiudendosi nelle torri d’avorio del proprio orgoglio. La battaglia con il populismo è nelle soluzioni che si offrono ai cittadini, non nell’ignorare i cittadini.
Per tutto questo valeva la pena essere, fisicamente e non solo, a Genova.
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