I PIÙ RECENTI TENTATIVI DELL’UE DI INTERFERIRE SULLA LIBERTÀ DI INFORMAZIONE COSTITUZIONALMENTE GARANTITA: PROTEZIONE DEL COPYRIGHT E LOTTA ALLE FAKE NEWS
Post di SOFIA
1) In un precedente post era già stato affrontato il tema dell’informazione e delle molteplici sfaccettature che interessano questo enorme segmento di mercato. Si era già rimarcato che anche la comunicazione e l’informazione subiscono le logiche di qualunque altro elemento del mercato, con l’ulteriore aggravio che sono i più potenti strumenti di controllo di massa.
Le multinazionali che controllano la globalizzazione economica, indeboliscono le istituzioni democratiche attraverso decisioni che scavalcando le istituzioni parlamentari e, con il pretesto di favorire gli interessi della collettività, finiscono per determinare una grande trasformazione del modo di concepire i diritti.
Questo avviene attraverso un incremento dell’offerta e dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione di massa. Però, se comunicazione e informazione si fanno potenzialmente globali, significa che anche il controllo dell’informazione si fa potenzialmente tale. Innanzitutto perché l’informazione è un bene da gestire e diventa anch’esso PRODOTTO.
Dall’altro perché coloro che operano in situazioni di concentrazione hanno bisogno dello strumento informazione per continuare a mantenere la loro situazione di monopolio/oligopolio e tenderanno, quindi, ad avere il controllo delle imprese che si occupano dell’informazione...
Da notare che i meccanismi sono sempre glie stessi, anche in questo settore: il controllo dell’informazione diventa strumento per imporre agli uomini ciò a cui debbano credere e ciò per cui debbano lottare, e quella che passa per essere una imposizione assolutamente necessitata dalla volontà di tutelare i cittadini/consumatori in verità non è che l’ulteriore strumento di controllo della massa pensante o il tentativo, quantomeno, di arginare il pensiero che non si uniformi alla ideologia liberista.
Recentemente si è assistito a due fenomeni che ne sono un chiaro esempio: la volontà del parlamento europeo di voler introdurre regole più severe per la protezione del copyright nonché per la lotta alle fake news.
2) La commissione Affari legali del Parlamento europeo ha dato il suo assenso a regole più severe sulla protezione del copyright in Europa, e il 4 luglio 2018 potrebbe essere approvata la direttiva Ue sul diritto d’autore (direttiva sul copyright) proposta due anni fa (proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale n. 2016/0280) e che potrebbe divenire legge nei 27 Paesi membri dell’Unione nel 2021.
Ovviamente questa ennesima operazione dell’UE viene pubblicizzata con la necessità diadeguare il copyright all’ecosistema digitale e alle sfide delle nuove tecnologie; di rafforzare l’effettività dei diritti e promuovere un più maturo bilanciamento tra l’interesse degli autori/editori e quello generale, a salvaguardia «della stampa libera e pluralista» e a garanzia del «giornalismo di qualità e l’accesso dei cittadini all’informazione».
Nei suoi effetti pratici, soprattutto i contestati artt. 11 e 13, danno un quadro delle sottese volontà dell’UE molto diverso.
L'art.11 introdurrebbe la cosiddetta "Link Tax". In pratica, la possibilità per gli editori di farsi pagare i diritti per la semplice pubblicazione del link ad un articolo, quando il link incorpora un estratto, un riassunto di notizia, quello che adesso fa "Google News" ad esempio. I diritti di copyright verrebbero estesi così al titolo, agli snippets (gli estratti), fino all'URL, la parte che identifica l'indirizzo di una risorsa web. Questa norma, quindi, parrebbe avvantaggiare i grandi editori, da sempre sul piede di guerra contro Google e Facebook per i mancati introiti riconosciuti (che adesso sarebbero garantiti dalla legge), a svantaggio dei piccoli editori e blogger che dovranno scendere a patti con gli editori e stringere accordi sull'indicizzazione e sulle pubblicazioni di estratti degli articoli con l’obbligo di indicare necessariamente il relativo link.
L’articolo 13, invece, obbligherebbe all’installazione di software che controllano durante l’inserimento dei dati su una piattaforma, se questi dati sono registrati e coperti da copyright. In sostanza nella situazione attuale, tutti possono caricare dei contenuti online liberamente, specie sulle piattaforme che vivono sullo User Generated Content come Facebook o Youtube. Nel caso in cui il proprietario di un contenuto veda la sua opera riprodotta o condivisa senza il suo permesso, può segnalare la cosa alla piattaforma e in Italia all’AGCOM, che interviene rimuovendola.
Esiste poi il Creative Common, cioè una serie di licenze che consentono di dare una progressiva libertà al riutilizzo dei propri contenuti.
L’articolo 13, invece, impone ai gestori delle piattaforme user generated content (come YouTube, GitHub, Instagram e eBay) di eseguire un controllo preventivo su ogni contenuto caricato dagli utenti, al fine di verificare che non vi sia alcuna violazione del copyright e solo successivamente accettarlo e renderlo disponibile online. In sostanza si impone di installare filtri automatici dei contenuti che impediscono agli utenti di caricare in Rete materiale protetto da copyright ovvero a ottenere le licenze per mostrare quei contenuti. Questi strumenti di rilevamento dei contenuti, peraltro, sono già stati ritenuti, dai tecnici ed esperti di settore, difettosi, generano falsi positivi, non si adattano a tutti i tipi di contenuti e sono anche troppo onerosi.
I filtri devono inoltre essere applicati non solo ai servizi che ospitano una “grande quantità di contenuti”, ma anche a quelli che semplicemente ne facilitano la disponibilità in rete anche se non li ospitano.
Sostanzialmente, quindi, l’art. 13 ribalta quella che era stata la posizione assunta dalla Corte di Giustizia nelle pronunce Sabam c. Scarlet e Sabam c. Netlog, nelle quali la Corte concludeva nel senso che un sistema di filtraggio generalizzato e preventivo degli utenti fosse in contrasto con le norme europee. La Corte europea aveva chiarito che non si può imporre ad un provider di installare un filtro che controlli i caricamenti di tutti gli utenti per impedire che siano uploadati file in violazione dei diritti d’autore. E nell’ottenere un’ingiunzione (per ottenere la rimozione di ontenuti non autorizzati) e nell’applicarla, occorre equamente bilanciare i diritti in gioco, quindi la protezione del copyright da un lato e la tutela degli altri diritti fondamenti dall’altro (come la privacy e la libertà di espressione).
Anche se la Commissione sembra voler tutelare i cittadini/consumatori da grandi lobby o grandi centri di potere come Google o Facebook in verità finisce per incidere sui piccoli, sui privati, sugli utenti comuni, sulle piccole imprese che non riusciranno a sopportare i costi di gestione di una piattaforma che richiede filtri automatici complessi o i costi per le richieste di autorizzazioni al fine di non violare i diritti di copyright.
Ed anche in caso di violazioni, solo i grandi avranno tasche sufficientemente profonde per confrontarsi con le responsabilità che dovessero arrivare e dotarsi delle tecnologie cui fa riferimento la direttiva mentre le parti più deboli non riusciranno nell’impresa e saranno costrette a cedere il passo.
I grandi, così facendo, diventeranno sempre più grandi e i piccoli si ritroveranno rapidamente esclusi dal mercato dell’informazione.
Quindi dietro la facciata di un intento teso a responsabilizzare gli intermediari della comunicazione perché questo produrrebbe effetti positivi per i mercati e la democrazia, e ridimensionerebbe lo strapotere dei big della Rete, in verità si sta decidendo di affidare ai monopoli dell’informazione il compito di decidere in relazione a quale contenuto rischiare una causa per violazione della proprietà intellettuale e in relazione a quale contenuto procedere immediatamente alla rimozione senza rischiare: quindi l’ennesimo implicito assenso a pratiche di sorveglianza di massa in un settore particolare come il mondo di internet che, probabilmente, stava sfuggendo maggiormente al controllo.
3) L’altro cavallo di battaglia dell’Unione Europea è la lotta alla “disinformazione in rete, definita come l’insieme di “informazioni false o fuorvianti create, presentate e diffuse per ottenere un vantaggio economico o per ingannare le persone e che può creare un pregiudizio pubblico.” Nel giugno 2017, il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione per chiedere alla Commissione europea di verificare l’eventualità di adottare provvedimenti normativi in merito. Quest’ultima ha subito provveduto a costituire un gruppo di esperti che il 12 marzo 2018 ha prodotto un report ("Final Report of the High Level Expert Group on Fake News and Online Disinformation").
La Commissione europea, insieme agli Stati membri, vorrebbe una cooperazione tra organizzazioni dei mezzi d’informazione, piattaforme, ricercatori accademici, verificatori dei fatti e delle fonti, industria della pubblicità e organizzazioni della società civile al fine di garantire il necessario livello di controllo pubblico ed equilibrio nella definizione di standard di trasparenza. Suggerisce, come norme di principio generale, che tutti i media digitali forniscano «le informazioni necessarie» a identificare chi c’è dietro un determinato tipo di informazioni. «Le piattaforme dovrebbero mostrare queste informazioni», si legge nel rapporto, dove come «primo passo» verso il nuovo percorso di trasparenza si consiglia di specificare i termini di pubblicità politica e di sponsorizzazioni. Si insiste anche sulla necessità di fornire informazioni sugli algoritmi alla base della selezione e della pubblicazione delle notizie. Dovrebbero poi essere costituiti “speciali centri europei per i problemi di disinformazione”, con il compito di portare aventi ricerche interdisciplinari che monitorino costantemente tecnologie, strumenti, natura e impatto potenziale della disinformazione nella società, valutando la veridicità dei fatti alla base di notizie e informazioni nelle aree di interesse generale (politica, cronaca, salute, scienza, istruzione, economia, ecc.). A questi stessi centri verrebbe inoltre conferito l’incarico di identificare e mappare le fonti e i meccanismi di disinformazione sul web, e rendere disponibili i dati delle piattaforme al pubblico.
Insomma, si pretenderebbe di tutelare il pluralismo informativo a tutela della democrazia creando “sistemi di filtraggio” dei contenuti così che ogni utente possa costruirsi una propria via informativa sulla base di “indicatori” di qualità e affidabilità delle fonti.
E tutto questo, nuovamente sulla premessa che soprattutto i social media rappresentino un problema per la varietà dell’informazione a cui gli utenti sono esposti. Quando invece è stato spiegato in più occasioni ( tra cui qui, o qui) come il problema non è internet, i social e neppure il pluralismo informativo che apparentemente pare sussistere su ogni canale informativo.
Che gli strumenti di tutela proposti dalla Commissione non vogliano affatto risolvere il problema della democrazia, ma semmai limitarla si evince dal fatto che in verità non vi sono davvero mezzi idonei che possano impedire di usare gli strumenti indicati dalla Commissione per creare deliberatamente una timeline o un feed interamente composto di fonti ritenute poco affidabili; né che possano impedire un uso perverso degli “indicatori” che la Commissione tanto fatica a descrivere e cercare di comporre; nè che i media ritenuti affidabili secondo questi criteri riescano comunque a stillare solo disinformazione.
Stupisce, per contro che, pur in assenza di informazioni e dati sul fenomeno che si vorrebbe reprimere e di cui quindi non si conosce la reale entità ed i concreti effetti, si prefiguri la creazione di molteplici organismi e la designazione di molteplici operatori ai più svariati compiti (“Coalizione” tra piattaforme, operatori dei media ed esperti di fact-checking che costruisca un “Codice di Pratiche” per contrastare la disinformazione; un “esperto indipendente” che monitori sulla sua realizzazione fornendone una “valutazione iniziale dei progressi”; un organismo “indipendente” che ne tenga costantemente sotto controllo gli sviluppi; l’istituzione di una serie di “Centri europei” per la ricerca sulla materia; un “Centro di Eccellenza” dotato delle risorse necessarie a coordinare i singoli centri di ricerca). Così come stupisce che per mandare avanti una simile struttura si chiede venga predisposto un finanziamento almeno pari a quello disposto per il Dipartimento di Stato americano (120 milioni di dollari) per combattere l’interferenza straniera sulle elezioni del 2016.
4) Insomma, l’Europa, di fronte al problema, mette in moto sempre lo stesso modus operandi: per evitare che la rimozione diretta del problema possa determinare qualche forma di ribellione, crea forme di emergenza inesistente nei confrinti delle quali l’Europa si accredita come l'unico soggetto in grado di farvi fronte (i singoli Stati sono comunque inefficienti); si centralizzano a livello europeo decisioni e normative a scapito delle sovranità degli Stati sul presupposto che solo le soluzioni imposte dall’alto garantiscano situazioni generalizzate di equità (ma in verità a scapito dei diritti fondamentali garantiti dalle costituzioni nazionali), e magari si finanziano progetti di fumo con i finanziamenti europei o con risorse statali, che in entrambi i casi non sono altro che risorse dei singoli Stati sottratte alle politiche economiche di ciascuno di questi e che diversamente verrebbero utilizzate per far fronte a situazione di vera emergenza. E queste le chiamano misure a sostegno della DEMOCRAZIA.---
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