E’ duro a 74 anni, dopo una vita di anticomunismo, riconoscere che aveva ragione Marx. Aveva ragione nell’aspettarsi la rivoluzione comunista non nella Russia contadina e devota, ma nella Germania industriale, fra la sua base operaia capace e mal pagata.
E’ così anche oggi, in modo sorprendente. “Gli stipendi in Germania sono in stagnazione da più di dieci anni”, mi scrive un lettore, uno dei 250 mila emigrati “di qualità” che ogni anno regaliamo al sistema produttivo tedesco (“Premetto che sono emigrato in Germania perché a funzione simile mi pagavano il doppio che in Italia”, scrive il nostro amico), ma lamentando per esempio il sistema pensionistico garantisce “la povertà in vecchiaia” (alle vedove monoreddito, il 25-55 per cento della pensione massima teorica, 2500 euro lordi, cifra che pochissimo raggiungono eppure, anche quando percepita integralmente, pone sotto il livello di povertà in molte città germaniche); per scongiurare la povertà in vecchiaia, il lavoratore decurtare dal suo salario fermo da 1° anni (e più) le quote per la pensione privata integrativa, e conclude: “La Germania appare un paradiso solo perché pochi italiani capiscono il tedesco” ....
Tenere bassi i salari a scopo competitivo è una politica deliberata. E – come ha spiegato Sergio Cesaratto nel suo saggio “Chi non rispetta le regole?”, lo è dal 1951. Allora, il commercio mondiale era regolato dal regime di Bretton Woods, un sistema di cambi fissi fra le valute, come è oggi quello dell’eurozona. Ludwig Erhard, il”padre del miracolo economico germanico”, scriveva: “Se attraverso la disciplina interna siamo capaci di mantenere stabile il livello dei prezzi [e salari] in misura superiore agli altri Paesi, la forza delle nostre esportazioni crescerà”. E il banchiere centrale tedesco di allora, Willhelm Vocke: “Aumentare le esportazioni è per noi vitale, e questo dipende a sua volta dal mantenere un basso livello relativo dei prezzi e dei salari […] al disotto degli altri Paesi.
All’interno della zona euro, la Germania pratica esattamente la stessa politica. “Lascia fare il keynesismo agli altri paesi, sì che essi esportino di più in Germania, mentre essa si mantiene competitiva col rigore interno”, scrive Cesaratto (p.53): “La Germania è un paese che vive deliberatamente al disotto dei propri mezzi. Si tratta di una palese violazione delle regole del gioco in un sistema di cambi fissi”.
Questa violazione era riconosciuta – tenetevi forte! – da un economista di nome Giancarlo Padoan, il futuro ministro piddino, in un saggio del 1986: “Il rifiuto quasi sistematico della Germania di perseguire politiche più espansive ha ridotto lo spazio disponibile agli altri Paesi membri di crescere. La strategia restrittiva della Germania è in grande misura responsabile della stagnazione dell’economia europea dell’ultima decade”. Quindi la stagnazione europea data dagli anni ’70, e Padoan sapeva benissimo che era causata dai tedeschi. Il fatto che, da ministro di Renzi e Gentiloni, abbia poi sempre dato ragione alla Germania praticando l’austerità che essa ci impone, è uno di quei misteri per cui gli economisti hanno una doppia verità quando scrivono testi scientifici, e quando sono messi al potere dal Sistema.
Appena instaurato l’euro, “la Bundesbank ha svolto il ruolo di guardiano della stabilità dei salari, minacciando i sindacati di generare disoccupazione attraverso politiche restrittive, qualora avessero presentato richieste salariali fuori linea” (Cesaratto,p.55) . Ovviamente i sindacati, essendo tedeschi, hanno disciplinatamente collaborato, per patriottismo competitivo, non chiedendo aumenti nemmeno in questi anni di boom in cui la Germania ha accumulato il mostruoso surplus delle esportazioni, squilibrato e squilibrante, esso stesso una violazione delle regole del gioco europee (il surplus non dovrebbe superare il 6% del Pil), il folle 257 miliardi di euro.
Si può dire che parte di quei 257 miliardi sono gli aumenti mancati ai lavoratori tedeschi, la loro produttività regalata alla Patria.
E dove è finito questo regalo dei lavoratori? Non precisamente alla Patria. E’ finito nella “enorme concentrazione di ricchezza in mano alle elites tedesche”, come rivelava un articolo a firma “Mitt Dolcino”(pseudonimo sotto cui si cela un manager di multinazionali) apparso su Scenari Economici il 2 dicembre 2014.
Vale la pena di rileggerlo, anche se è un po’ per addetti ai lavori.
Qui gli ultraricchi sono denominati UHNWI (sigla inglese per “Individui con ultra-reddito netto, ossia sopra i 30 milioni di dollari). Le tabelle, di non facile lettura ma affascinanti e su cui vale la pena soffermarsi, dicono che:
della ricchezza totale privata tedesca, che ammonta a 11.700 miliardi di dollari, la casta degli ultraricchi tedeschi ne accaparra per sé il 20 per cento! Ossia 2345 miliardi!
Al confronto, gli ultraricchi italiani si prendono solo il 2,3 % della ricchezza privata. Persino gli ultraricchi francesi si prendono “solo” il 4%; anzi, financo i veri stramiliardari degli USA, ritenuto il paese più iniquo del mondo, in fondo si accaparrano “solo” il 15% delle ricchezze private nazionali. Il prelievo dei miliardari tedeschi sul proprio popolo è scandaloso: da lotta di classe.
E non solo: gli ultraricchi tedeschi, che prelevano più di tutti al loro paese, sono pochissimi rispetto alla popolazione, e “ciò significa che le elites tedesche sono proporzionalmente poche, unite e potentissime”. Superati in questo solo dalla Svezia –il paese che noi crediamo massimamente egualitario, poveri ingenui.
Risulta anche che “ l’Italia ha una delle migliori (meno ingiuste) distribuzioni di ricchezza del mondo occidentale, molto meglio della Germania. Il paese di Goethe sembra anzi un paese in cui le elites sono ricchissime e la popolazione vive senza infamia e senza lode, governata come bestia politica dalla Bild per muovere sfide popolari nelle direzioni che via via più servono a chi dirige. In fondo in Germania esiste un patto sociale, da secoli: è permesso ai super ricchi di essere tali ma a condizione che la gente abbia da che vivere discretamente, ossia deve esserci lavoro possibilmente di qualità.
Ovviamente “le elites tedesche abbienti sono le stesse che rappresentano la Germania a Bruxelles, spesso dietro le quinte, ad es. nelle vesti degli esportatori e della Bundesbank”.
Mitt Dolcino continua: “E’ chiaro che, con queste sproporzioni, è assolutamente necessario tenere calma la massa, ossia dargli lavoro. Ecco perchè al di là del Gottardo si è dovuti essere estremamente aggressivi nel trattare male i periferici dopo la crisi del 2008 al fine di spostare lavoro e ricchezza in Germania a fronte del disastro che stava travolgendo il mondo tedesco (fallita Opel, Porsche, Gruppo Merkle, con problemi enormi anche per ThyssenKrupp e salvataggi bancari a iosa)”.
Dunque, la spoliazione dei periferici (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) è diventata anche più necessaria per risucchiare lavoro e salari ai lavoratori tedeschi, contenti dei loro stipendi non eccezionali, mentre la loro casta dei miliardari si accaparra il 20 per cento della ricchezza. Ma alla lunga questo modello è insostenibile: i paesi che la Germania impoverisce sono anche i suoi clienti, e adesso la minaccia di Trump di imporre dazi in risposta allo squilibrato surplus tedesco, mette in pericolo anche i posti di lavoro.
I lavoratori tedeschi sono addormentati, cullati dalla semi-pornografica Bildnella loro idea di superiorità produttiva e morale, convinti delle loro virtù, e ignari che loro miliardari, potentissimi e riservati, zitti zitti prelevano dalle loro tasche la fetta più grossa della ricchezza che producono. La critica sociale, compresa all’ingiusto sistema sociale – sempre storicamente malvista dal tedesco medio – è ai minimi. I loro media sono persino più ottusi di nostri, e mancano persino i blog alternativi e critici che fioriscono in Italia, Francia, Usa. Temo che le loro elite siano pronte a spolpare fino al midollo noi mediterranei, per tenere addormentati i loro operai. Con il patriottismo competitivo. Essi non si risveglieranno fino a quando la crisi e i dazi produrranno centinaia di migliaia di disoccupati in Germania …
Viene da dare ragione a Marx: gli interessi dei lavoratori sono comuni al di là delle frontiere, per loro il patriottismo è un inganno indotto dalle elites degli sfruttatori, devono solo riconoscere “Il nemico di classe”. E vien voglia di esortare i lavoratori tedeschi proprio come Marx:
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi, non avete nulla da perdere se non le vostre catene”.
E’ dura, dopo una vita da anticomunista.
Nessun commento:
Posta un commento