- Matteo Renzi. Emmanuel Dunand/AFP/Getty Images
La competizione elettorale del 5 marzo 2018 ha portato sul podio, un po’ come accade in taluni concorsi canori, tre soggetti tipici: il vincitore morale – il Movimento 5 Stelle, primo partito; il vincitore effettivo, ancorché plurimo – la coalizione di centro-destra, con un vantaggio insufficiente a governare e con l’imprevisto sorpasso della Lega su Forza Italia; il grande sconfitto – il Partito Democratico.
Un passo indietro
Il 4 dicembre 2016 inizia l’annus horribilis di Matteo Renzi. La cosiddetta riforma costituzionale Renzi-Boschi – nonostante il massiccio sostegno di tv e grande stampa – viene bocciata dal 59,12% dei votanti. La sconfitta è bruciante, anche se gli adulatori del Primo Ministro (che tanto danno gli hanno arrecato) vedono il bicchiere mezzo pieno: il Pd potrà ripartire dal 40,88%, un risultato persino migliore – vista la maggiore affluenza alle urne – del 40,81% conseguito alle europee del 25 maggio 2014.
Matteo Renzi si dimette, e annuncia che rimarrà alla guida del Pd, venendo meno all’impegno assunto in Parlamento a ritirarsi a vita privata.---
Il 2017 sarà un anno difficilissimo: la vicenda delle crisi bancarie (e del caso Banca Etruria); l’autogol della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario; il conflitto con il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio sul rinnovo del mandato del Governatore della Banca d’Italia; le indagini della magistratura che coinvolgono la famiglia...
Non mancano i guai interni al Pd: a febbraio si consuma la scissione di Articolo 1-Mdp. Il 30 aprile Renzi trionfa alle primarie, con il 69,2% dei voti (1.839.000 elettori che si sono ridotti di un milione rispetto alla tornata del 2013). A giugno il Pd subisce una pesante sconfitta alle amministrative: si afferma a Padova ma perde a Genova, l’Aquila, Monza, Verona, Pistoia, Piacenza, Como e persino a Sesto San Giovanni, storica roccaforte della sinistra. Si conferma il trend sia delle amministrative del 2016 – quando il Pd aveva perso Roma, Torino e Trieste, era naufragato a Napoli e tenuto Milano con un margine risicato (41,70%, contro il 40,78% del candidato di centro-destra) – sia delle regionali del 2015, in cui il Partito aveva resistito nelle regioni (un tempo) “rosse”, in Puglia e Campania, ma perduto nettamente in Liguria e Veneto. Il 5 dicembre è il turno della Sicilia (Pd al 13,02%). Sempre a dicembre, un ulteriore dispiacere per il Segretario: il sindaco e la giunta del suo paese, Rignano sull’Arno, lasciano il partito e aderiscono a Liberi e Uguali.
Il “Rosatellum”
Il 10 ottobre 2017 il Governo Gentiloni pone la fiducia sulla legge elettorale. Barbara Fiammeri, su Il Sole 24 Ore scrive che “(…) Paolo Gentiloni ha dovuto rinunciare alla neutralità sulla legge elettorale, annunciata dal premier fin dal momento del suo insediamento e piegarsi alle esigenze politiche del suo partito”.
Ezio Mauro si spinge oltre, con parole rivelatesi premonitrici: “In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un’autotutela ad ogni costo, dando fiato ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia”.
Molti osservatori esprimono sorpresa per la scelta del “Rosatellum”, che – in base ai sondaggi – potrebbe favorire la coalizione di centro-destra e determinare comunque l’ingovernabilità.
Renzi è invece convinto che il “Rosatellum” da un lato impedirà il conseguimento della maggioranza a qualsiasi schieramento, dall’altro garantirà al PD la permanenza al governo, grazie ad una alleanza con Forza Italia, sul modello della Große Koalition.
Non rilevano qui l’analisi sulle incongruenze e contraddizioni della legge, ovvero le proiezioni di YouTrend tese a dimostrare che anche l’adozione di sistemi elettorali di altri Paese avrebbe determinato l’assenza di una maggioranza.
Se le previsioni della vigilia si fossero avverate, sarebbe stato naturale il ricorso ad un esecutivo di solidarietà nazionale, o comunque lo si voglia chiamare, in cui il partito di maggioranza relativa sarebbe stato il Pd, seguito da Forza Italia. Rimaneva, certo, il rischio che, qualora la Lega si fosse sfilata, non ci sarebbero stati numeri sufficienti in Parlamento: ma si sa, il rischio è sempre parte del gioco, specie di quello d’azzardo.
Il Rosatellum avrebbe determinato, nelle intenzioni del partito proponente, un altro risultato, non secondario, sottovalutato nei commenti: l’accordo tra PD e Forza Italia per la scelta, nel 2022, del candidato al Quirinale.
La campagna elettorale
Le campagne elettorali del Pd – che nella composizione delle liste non ha rispettato i risultati ottenuti dai tre candidati alle primarie – e di Forza Italia hanno seguito percorsi paralleli: scarsa belligeranza reciproca; M5s, che non è rimasto a guardare, nemico comune. Il fatto inedito, solo in apparenza, è stata la cruenta guerra interna al centro-destra: l’accusa di Silvio Berlusconi al leader del M5s di essere privo di esperienze lavorative e di laurea – e quindi unfit to lead Italy – non era rivolta anche ai leader dei due partiti alleati, con eguale background?
Nella settimana precedente alle elezioni, Silvio Berlusconi ha annunciato la candidatura a Palazzo Chigi di Antonio Tajani, Presidente del Parlamento europeo. L’uomo ha le qualità, anche caratteriali, e l’esperienza necessaria sia per garantire la coesistenza tra le diverse forze politiche, sia per rassicurare gli interessati attori esterni: Germania, Francia, Stati Uniti, Commissione europea, BCE, i mercati finanziari. Matteo Renzi si è rifiutato – pur sollecitato – di proporre Paolo Gentiloni:non ce n’era bisogno, il candidato lo aveva già indicato Berlusconi; inoltre, si dice, il leader Pd mal sopporta avere un compagno di partito davanti a sé. In molti avevano ipotizzato, infine, che Matteo Renzi avesse lo sguardo rivolto alla Farnesina.
Ipotesi sulle ragioni del voto del 4 marzo
Il 4 marzo uno “tsunami” elettorale travolge le previsioni e quindi lo scenario prefigurato con il “Rosatellum”. Il centro-destra vince le elezioni; alla Camera (al Senato i risultati sono simili) raggiunge il 37%, ma la Lega (17,37%) supera Forza Italia (14,01%) e Fratelli d’Italia (4,35%). Il M5s si conferma primo partito (32,78%). Il PD crolla (18,72%); Liberi e Uguali supera di poco il quorum (3,39%).
Limitiamoci a poche considerazioni sul voto degli italiani.
L’esito delle elezioni appare in sintonia – sia pure con caratteristiche nazionali – con i processi in atto nella comunità internazionale, attraversata da fenomeni indicati, con approssimazione, “populismo” e “sovranismo”.
Scrive Stefano Feltri, nel suo pregevole “Populismo Sovrano”, pubblicato alla vigilia della competizione elettorale: “I populismi alimentano un’illusione, che può essere pericolosa: il recupero della sovranità. Ma si tratta di una promessa che non si può mantenere, perché le leve del potere sono, ormai, inesorabilmente altrove”.
I cittadini si sentono vittime della globalizzazione selvaggia che li ha espropriati dei poteri decisionali e li ha resi, a partire dalle classi medie, più poveri e insicuri(anche per via delle migrazioni di massa); del liberismo che ha aumentato le diseguaglianze; della finanza predatrice e priva di principi etici che ha sostituito il capitalismo industriale; dell’avvento delle nuove tecnologie che riduce l’occupazione e riscrive le regole del mercato del lavoro; dei social network americani che impongono modelli culturali, controllano, elaborano e rivendono i dati personali e i big data, e sottraggono risorse economiche alle imprese dei singoli Paesi senza corrispondere i tributi.
Le istanze poste dai due partiti risultati vincitori delle elezioni rappresentano un tentativo, al di là del giudizio di merito che ciascuno può dare, di offrire risposte alla crisi della sovranità nazionale; in passato questa strada sarebbe stata percorsa dai partiti di ispirazione comunista, socialista ovvero popolare-cattolica (Aldo Moro sosteneva che la Dc non avrebbe mai rinunciato alla competizione con il Pci per la rappresentanza delle classi popolari).
Stefano Feltri prosegue: “La sequenza che osserviamo in questi anni è sempre uguale: chi è al governo perde consenso perché non riesce a contrastare gli effetti della crisi del cambiamento tecnologico, promette soluzioni rapide e il ritorno allo status quo ma, incapace di ottenere grandi risultati, alimenta la frustrazione degli elettori. I partiti tradizionali competono per ottenere la possibilità di applicare politiche prive di efficacia o del consenso necessario a renderle davvero utili, mentre gli elettori, frustrati, si spostano verso i movimenti populistiche non hanno un passato di fallimenti alle spalle e promettono una rottura radicale. O almeno di non fare peggio dell’establishment che vogliono sostituire.”
Vi è poi il tema del tradimento delle élite, di cui il Partito Democratico – erede delle culture sopra richiamate, ora divenuto semplicemente “di sinistra” – sostenuto dall’establishment, è oramai elemento organico (persino Liberi e Uguali, al di là del poco tempo a disposizione per organizzarsi, è stato percepito come parte del “sistema”).
Su un tema così complesso, Feltri interpreta le analisi che lo storico e sociologo statunitense Christopher Lasch aveva elaborato già negli anni ‘90: “L’affermarsi dei movimenti populisti si può quindi spiegare anche e forse soprattutto come una reazione al ‘tradimento delle élite’. Per loro natura anti-establishment, uno dei pochi tratti comuni a tutte le definizioni di populismo, questi movimenti mettono in discussione l’organizzazione meritocratica della società, [qui il riferimento è ai modelli imposti dalle élite medesime] rifiutano di ammettere che dietro i privilegi dei pochi ci sia l’inadeguatezza dei molti. I populisti non si lasciano impressionare dalle pretese di superiorità morale delle élite, anzi, teorizzano la superiorità dell’uomo comune che, proprio perché escluso dal vertice, e più capace di prendere decisioni nell’interesse di tutti, armato del buon senso da padre di famiglia.”
L’elezione del Presidente Trump, il consenso ottenuto dai cosiddetti partiti populisti in numerosi Paesi, rappresentano il segnale tangibile della perdita di fiducia dei cittadini verso il “sistema” e i gruppi dirigenti.
Forza Italia e Pd erano privi della capacità, vista la loro collocazione nella società, di interpretare i cambiamenti. Matteo Renzi ha martellato gli elettori sulla ripresa economica in atto e sugli effetti positivi del Jobs Act, ma i cittadini sanno benissimo che l’Italia – pur essendo la seconda potenza manifatturiera del continente – è all’ultimo posto tra i Paesi Eu in termini di crescita, della quale in ogni caso non hanno avvertito alcun beneficio.Le nuove generazioni, che convivono con le reti digitali – la loro influenza è stata determinante nella campagna elettorale (che tristezza vedere vuoti i tabelloni approntati dalle municipalità, un tempo addirittura oggetto di attacchinaggio selvaggio e persino di scontri fisici tra i militanti dei diversi partiti) – hanno abbandonato il Pd, disillusi dalle promesse e da un partito che, di fatto, ha indicato nella precarietà l’antidoto ai problemi dell’occupazione.
L’epilogo
Il 5 marzo 2018 Matteo Renzi convoca una pseudo-conferenza stampa – ai giornalisti non è concessa la possibilità di fare domande – per annunciare le dimissioni, che sarebbero diventate effettive dopo la costituzione del nuovo governo (ipotesi, quest’ultima, poi abbandonata).
Renzi addossa la colpa della sconfitta ad altri.Innanzitutto il risultato della ingovernabilità è da attribuire al fallimento del referendum. Seguono poi velate accuse al Capo dello Stato, che non avrebbe acconsentito a sciogliere le Camere nel 2017, in concomitanza con le elezioni tedesche e francesi, e che poteva spostare l’agenda delle elezioni sulla questione europea. Le critiche non risparmiano il premier Paolo Gentiloni: “In campagna elettorale noi siamo stati sin troppo tecnici, è come se non avessimo mostrato sino in fondo le cose fatte e soprattutto quelle che volevamo fare”. Il Premier avrebbe inoltre espresso una qualche vocazione all’inciucio e alle larghe intese, mentre – afferma Renzi indicando la via da seguire – “il Pd, nato contro i caminetti e nato contro le forze antisistema, non diventerà la stampella per un governo delle forze antisistema, magari con una decisione presa a porte chiuse. (…) La nostra responsabilità consisterà nello stare all’opposizione”. Il leader annuncia che il Pd non accetterà il confronto con i vincitori delle elezioni, da lui definiti “estremisti”, accusati di anti-europeismo, antipolitica e odio verbale nei confronti del suo partito.
Le espressioni usate davanti ai giornalisti e alle telecamere evidenziano il fatto che probabilmente il Segretario dimissionario non ha avuto il tempo per una analisi approfondita sulle dinamiche che hanno determinato l’esito del voto o, forse, ha preferito rinunciare ad esplicitarla.
Un’ultima nota
Ha detto Charlie Chaplin: “Non è importante come entri nel palcoscenico della vita degli altri, l’importante è l’uscita di scena; quindi prendi fiato, sorridi comunque sia andato lo spettacolo e fai il tuo inchino migliore”. E per concludere: “Ma soprattutto, non concedere mai il bis ad un pubblico che non lo merita”.
Matteo Renzi non sta seguendo questa strada.
Forte del controllo precostituito sui gruppi parlamentari e sull’organizzazione, vorrà continuare a guidare le scelte del partito – sia pure in presenza di resistenze interne.
Lo ritroveremo sul palcoscenico. Si vedrà con quale ruolo, con quali modalità e tempi.---
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