L'ipocrisia di chi s'indigna oggi fingendo di non aver capito quale lesione dei diritti sia nata dalle decisioni degli USA.
L'ipocrisia di chi s'indigna oggi fingendo di non aver capito quale
lesione dei diritti sia nata dalle decisioni degli USA di Bush
all'indomani dell'11 settembre 2001, accettate da tutti i potenti ed
elevato a mantra della "sicurtà".
Chi aveva decretato la fine dell'età dei diritti,
oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati
Uniti e Unione europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un
diritto fondamentale - quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra
con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali
siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai
le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di
diritti.
L'Europa reagisce, ma non è innocente...... Non si può dire che questa sia
una sorpresa, una vicenda imprevedibile, se non per la dimensione del
fenomeno. Fin dai giorni successivi all'11 settembre, era chiaro che la
strada imboccata dall'amministrazione americana andava verso
l'estensione delle raccolte di informazioni personali, la cancellazione
delle garanzie per i cittadini di paesi diversi dagli Stati Uniti,
l'accesso alle banche dati private. Vi è stata una colpevole
sottovalutazione di queste dinamiche e sono rimaste inascoltate le
sollecitazioni di chi riteneva indispensabile un cambio di passo nelle
relazioni tra Unione europea e Stati Uniti, per impedire che sul mondo
si abbattesse il "digital tsunami" poi organizzato dalla National
Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden.
Angela Merkel ha reagito alla notizia di un controllo sulle sue
telefonate. Ma negli anni Novanta si seppe di un sistema mondiale di
intercettazione delle comunicazioni chiamato Echelon (gestito da Stati
Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda), che riguardò
anche Romano Prodi, allora Presidente del consiglio.
Le reazioni furono
deboli e il Parlamento europeo svolse una indagine assolutamente
inadeguata. L'atteggiamento dell'Unione europea, quando ha negoziato con
l'amministrazione americana in queste materie, è sempre stato debole,
addirittura subalterno, e le pressioni delle lobbies americane
continuano a farsi sentire in relazione al nuovo regolamento europeo
proprio sulla protezione dei dati personali. Ora Barroso fa
dichiarazioni molto dure, che tuttavia hanno senso solo se accompagnate
da un profondo cambiamento di linea.
Tutto questo non diminuisce le responsabilità degli Stati Uniti,
gravissime, perché è ormai chiaro che la gigantesca caccia alle
informazioni non aveva come fine la sola lotta al terrorismo. Altrimenti
non si sarebbero intercettate le comunicazioni di capi di Stato o di
governo. Fin dai tempi di Echelon era chiaro che i dati raccolti
servivano per conoscere strategie politiche ed economiche, per dare alle
imprese americane un di più di informazioni per renderle più
competitive rispetto a quelle europee.
Vale la pena di ricordare le parole dette all'ultima assemblea dell'Onu
dalla Presidente del Brasile, Dilma Rousseff, anch'essa intercettata:
«Senza tutela del diritto alla privacy non v'è libertà di opinione e di
espressione, e quindi non v'è una vera democrazia». E questa
dichiarazione è stata seguita dalla cancellazione del suo viaggio
ufficiale negli Stati Uniti. Siamo dunque di fronte ad una vera
questione di democrazia planetaria, che nessuno Stato può pensare di
affrontare da solo, sulla spinta di risentimenti nazionali o personali.
Angela Merkel usa parole dure, Enrico Letta invoca verità, François
Hollande protesta. Ma loro sono governanti della regione del mondo dove
la tutela dei dati personali ha trovato la tutela più intensa,
considerata come diritto fondamentale dall'articolo 8 della Carta dei
diritti dell'Unione europea. Essi hanno l'obbligo e l'occasione per
aprire una fase in cui la tutela dei diritti fondamentali sia adeguata
alle nuove sfide tecnologhe, che si traducono in una offerta crescente
di strumenti utilizzabili proprio per violare quei diritti.
Di fronte al Datagate non bastano fiere dichiarazioni di buone
intenzioni, e quindi non ci si può appagare delle parole di chi, dagli
Stati Uniti, promette misure in grado di "bilanciare le esigenze di
sicurezza con quelle della privacy". Non si tratta di scegliere la via
delle ritorsioni, ma bisogna dire chiaramente che, proprio per le
dimensioni della vicenda, questa non può essere gestita come un affare
interno statunitense.
Alcuni punti fermi, comunque, vanno stabiliti
subito.
Accelerare le nuove normative europee sulla privacy con un
rifiuto netto delle pressioni americane.
Rendere effettiva la linea
indicata dalla risoluzione del Parlamento europeo che ha chiesto di
sospendere l'accordo che prevede la trasmissione agli Stati Uniti di
dati bancari di cittadini europei per la lotta al terrorismo, già per sé
inadeguato per la debolezza con la quale l'Unione concluse
quell'accordo.
Mettere in evidenza l'impossibilità di proseguire la
negoziazione del trattato commerciale in un contesto in cui la fiducia
reciproca si è incrinata, sì che non è pretesa eccessiva chiedere agli
americani azioni effettivamente risarcitorie e non cedere al ricatto di
chi sottolinea i vantaggi di quel trattato, ponendo così le premesse per
un perverso scambio tra benefici economici e sacrificio di diritti.
E
poiché l'intero continente latinoamericano ha adottato il modello
europeo in questa materia, è davvero impossibile pensare all'avvio di
iniziative coordinate, come esige una situazione in cui la tecnologia
non conosce frontiere e, quindi, conferisce agli Stati più forti
l'opportunità di divenire potenze globali?
A questa globalizzazione
delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni
privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei
diritti altrettanto
globale.
Questa strategia più larga può incontrare l'opinione pubblica
americana, dove già le associazioni per i diritti civili avevano avviato
azioni giudiziarie e ora vi sono esplicite e diffuse manifestazioni di
dissenso.
Lì è vivo il "paradosso Snowden", con l'evidente
contraddizione legata alla volontà di perseguire proprio la persona che
ha svelato le pratiche oggi ufficialmente ritenute illegittime. E non
cediamo al riduzionismo, dicendo che si è sempre spiato e che, tanto, le
tecnologie hanno già sancito la morte della privacy. Si è ormai aperta
una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo
della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato.
Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell'argomento che, in nome
della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d'informazioni
senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto
come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l'inefficienza
di raccolte d'informazione che non abbiano un fine ben determinato.
Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è
una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di
affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa
non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come
Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come
loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica,
come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e
mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com'è accaduto
in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla
gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che
oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in
regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini. Se la
posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono
ammissibili.
Fonte: La Repubblica, 26 ottobre 2013.
Tratto da: http://www.eddyburg.it/2013/10/ma-i-colpevoli-sono-due.html.
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