PS: <<Traduzione
a cura di Matzu Yagi. Questa
"cronaca settimanale di politica estera" appare
simultaneamente in versione araba sul quotidiano "Al-Watan"
(Siria), in versione tedesca sulla "Neue
Reinische Zeitung",
in lingua russa sulla "Komsomolskaja
Pravda",
in inglese su "Information
Clearing House",
in francese sul "Réseau
Voltaire".>>
umberto marabese
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«Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n°56
di
Thierry Meyssan.
Mentre
l'Arabia Saudita ha ripreso per conto suo il piano del Qatar volto a
rovesciare il regime laico siriano, Riyadh sembra incapace di
adattarsi all'improvvisa ritirata USA. Non solo rifiuta l'accordo
russo-americano, ma continua la guerra e annuncia misure di
ritorsione per «punire»
gli Stati Uniti. Per Thierry Meyssan, questa ostinazione equivale a
un suicidio collettivo della famiglia dei Saud.
Scaricata
dagli Stati Uniti in Siria, l'Arabia Saudita va a suicidarsi non
potendo vincere? Questo è ciò che si potrebbe concludere per
effetto dei seguenti avvenimenti:
Il
31 Luglio 2013 , il principe Bandar bin Sultan si è recato in
Russia, dove è stato ricevuto non solo dal suo omologo, il capo dei
servizi segreti, ma anche dal presidente Vladimir Putin. Esistono due
versioni di questo incontro. Per i sauditi, Bandar si è espresso a
nome del Regno e degli Stati Uniti. Si è offerto di acquistare 15
miliardi di dollari di armamenti russi se Mosca avesse lasciato
cadere la Siria. Per i russi, ha parlato con arroganza minacciando
dapprima di inviare degli jihadisti a disturbare le Olimpiadi di Soči
se Mosca si fosse ostinata a sostenere il regime laico di Damasco, e
poi cercando di corromperlo. Qualunque sia la verità, il presidente
Putin ha percepito le proposte del suo interlocutore come insulti
rivolti alla Russia.......
Il
30 settembre, il principe Saud Al-Faisal era stato inserito
nell'ordine del giorno per parlare nel corso del dibattito generale
della 68esima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite,
ma infuriatosi per via del disgelo nelle relazioni tra l'Iran e gli
Stati Uniti, il ministro degli Esteri saudita è partito senza
scusarsi. Nella sua rabbia, ha persino rifiutato che il suo discorso,
preparato e stampato in anticipo, fosse distribuito alle delegazioni.
L'11
ottobre, il Vice Segretario Generale delle Nazioni Unite nonché ex
responsabile del Dipartimento di Stato per il Medio Oriente, Jeffrey
Feltman, ha ricevuto una delegazione libanese. Parlando a nome di
Ban, ma probabilmente più ancora a nome del Presidente Obama, non
aveva parole abbastanza forti per criticare la politica estera
saudita, fatta di "risentimenti" e incapace di adattarsi al
mondo che cambia.
Il
18 ottobre, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha eletto, con
176 voti a 193, l'Arabia Saudita come membro non permanente del
Consiglio di sicurezza per due anni a decorrere dal 1° gennaio 2014.
L'ambasciatore Abdallah El-Mouallemi si felicitava di questa vittoria
che riflette «l'efficacia
della politica saudita all'insegna della moderazione»
(sic). Tuttavia poche ore dopo, il principe Saud Al-Faisan ha
emesso un comunicato stampa dagli accenti nasseriani sull'incapacità
del Consiglio di sicurezza ed esprimendo il rifiuto del Regno di
sedervisi. Se la principale ragione ufficiale è stata la questione
siriana, il ministro si è permesso perfino il lusso di denunciare
anche la questione palestinese e quella delle armi di distruzione di
massa in Medio Oriente, vale a dire di designare come nemici della
pace sia l'Iran sia Israele. Sapendo che la critica alla politica
siriana dell'ONU è una sfida diretta alla Russia e la Cina, che
hanno fatto uso per tre volte dei diritti di veto, questo comunicato
stampa risultava come un insulto rivolto a Pechino, benché la Cina
sia il principale cliente attuale del petrolio saudita. Questo
voltafaccia, che ha precipitato le Nazioni Unite nello sgomento, è
stato però applaudito a gran voce dai presidenti della Turchia e
della Francia che hanno dichiarato di condividere le "frustrazioni"
dell'Arabia Saudita sulla Siria.
Il
21 ottobre, il Wall Street Journal ha rivelato che il principe
Bandar bin Sultan aveva invitato a casa sua dei diplomatici europei
insediati a Riyadh. Il capo dei servizi segreti avrebbe loro
raccontato la furia saudita nei confronti del riavvicinamento fra
Iran e USA e del ritiro militare statunitense dalla Siria. Davanti ai
suoi ospiti sbigottiti, avrebbe annunciato che il regno per
ritorsione stava per ritirare i propri investimenti in America.
Tornando sull'episodio del seggio al Consiglio di Sicurezza, il
giornale ha precisato che secondo il principe Bandar, il comunicato
non era rivolto contro Pechino, ma contro Washington; una precisione
ancora più interessante poiché non corrisponde alla situazione.
Di
fronte all'incredulità suscitata da queste dichiarazioni e ai
commenti provenienti dal Dipartimento di Stato che stemperavano i
toni, il principe Turki bin Faisal ha spiegato alla Reuters che le
parole del suo nemico personale, Bandar, ben impegnavano il regno e
che questa nuova politica non sarebbe stata rimessa in questione. Non
si tratta pertanto di una divisione del potere fra i due rami rivali
della famiglia regnante, i Sudairi contro i Shuraim, ma proprio della
loro visione comune.
In
sintesi, l'Arabia Saudita ha insultato la Russia a luglio, la Cina
due settimane fa, e ora gli Stati Uniti. Il Regno ha annunciato che
ritirerà i suoi investimenti d'America per rivolgersi probabilmente
verso la Turchia e la Francia, sebbene nessun esperto veda in che
maniera tutto ciò sarebbe possibile.
Due
spiegazioni per questo comportamento sono possibili: o Riyadh ha
finto la rabbia per permettere a Washington di continuare la guerra
in Siria senza assumersene la responsabilità, o la famiglia dei Saud
ha commesso un suicidio politico.
La
prima ipotesi sembra smentita dalla sortita del principe Bandar
davanti agli ambasciatori europei. Se giocasse dietro le quinte per
gli Stati Uniti, si asterrebbe dal venire a predicare la rivoluzione
con i suoi alleati.
La
seconda ipotesi richiama il comportamento dei cammelli, animali
simbolo dei beduini sauditi. Sono ritenuti capaci di lasciare che
dentro di essi vivano per anni i loro rancori e di non trovare pace
finché non abbiano soddisfatto la loro vendetta, costi quel che
costi.
Tuttavia,
la sopravvivenza dell Arabia Saudita è in gioco fin dal momento
della nomina di John O. Brennan a capo della CIA, nel marzo 2013.
Precedentemente di stanza in Arabia, è uno strenuo oppositore del
sistema messo in atto dai suoi predecessori assieme a Riyadh: lo
jihadismo internazionale. Brennan ritiene che, ancorché questi
combattenti abbiano svolto bene il loro compito, un tempo in
Afghanistan, Jugoslavia e in Cecenia, siano nondimeno diventati
troppo numerosi e troppo ingestibili. Quella che all'inizio era
costituita da alcuni estremisti arabi partiti per sparare all'Armata
Rossa, è poi diventata una costellazione di gruppi, presenti dal
Marocco alla Cina, che si battono in definitiva molto di più per far
trionfare il modello saudita di società che per sconfiggere gli
avversari degli Stati Uniti. Già nel 2001, gli Stati Uniti avevano
pensato di eliminare Al-Qa'ida attribuendole la responsabilità degli
attentati dell'11 settembre. Tuttavia, con l'assassinio ufficiale di
Osama Bin Laden, nel maggio 2011, hanno deciso di riabilitare questo
sistema per farne ampio uso in Libia e in Siria. Mai senza di
Al-Qa'ida si sarebbe potuto rovesciare Muammar Gheddafi, come
dimostra oggi la presenza di Abdelkader Belhaj, ex numero due
dell'organizzazione, come governatore militare di Tripoli. Comunque,
agli occhi di John O. Brennan, lo jihadismo internazionale deve
essere ridotto a proporzioni più deboli per essere conservato
soltanto come forza di riserva della CIA in alcune occasioni.
Lo
jihadismo non è solo l'unica forza effettiva dell'Arabia Saudita, il
cui esercito è diviso in due unità che obbediscono ai due clan
della famiglia Saud, ma è anche la sua unica ragione di esistenza.
Washington non ha bisogno del regno per rifornirsi di idrocarburi, né
per perorare la causa della pace con Israele. Da qui il ritorno al
Pentagono del vecchio piano neocon: «Gettare
i Saud fuori dall'Arabia»,
come recitava il titolo di una presentazione in powepoint proiettata
nel luglio 2002 presso il Consiglio Politico del Dipartimento della
Difesa. Questo progetto prevede lo smantellamento del paese in cinque
aree distinte, tre delle quali sono chiamate a formare Stati
reciprocamente indipendenti mentre le altre due dovrebbero essere
annesse ad altri Stati.
Scegliendo
la resa dei conti con gli Stati Uniti , la famiglia dei Saud non dà
loro la scelta . È improbabile che Washington si lasci dettare la
propria condotta da alcuni facoltosi beduini, mentre è prevedibile
che li rimetterà a posto. Nel 1975, non esitarono a far assassinare
il re Faysal. Questa volta, dovrebbero essere ancora più radicali.
Thierry
Meyssan, 27 ottobre 2013.
http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=89487&typeb=0&Suicidio-saudita
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