
...A Decine. Cisgiordania, Violenza dei Coloni fuori Controllo...!
9 Giugno 2025
Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, mentre volge al termine con un atto di pirateria internazionale la vicenda di Fredoom Flotilla, abbordata da un Israele sempre più legibus solutum, offriamo alla vostra attenzione qualche elemento di valutazione su quanto si sta compiendo a Gaza e in Cisgiordania con la complicità e il sostegno di molti Paesi occidentali, fra cui, ahimè, il nostro.
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Questo articolo pubblicato da Giuseppe Rusconi, che ringraziamo, su Rosso Porpora:
CISGIORDANIA, GAZA: UNA RIFLESSIONE TORMENTATA DELLO STORICO ANTONIO MUSARRA SUSCITATA DAL FILM-DOCUMENTARIO ‘NO OTHER LAND’
Martedì 3 giugno 2025 abbiamo visto al Cinema delle Provincie di Roma (legato alla parrocchia di Sant’Ippolito, zona Piazza Bologna) un film-documentario che prometteva di essere di grande interesse, “No Other Land” (miglior documentario ai premi Oscar 2025) sulla situazione in Cisgiordania. Una proiezione non casuale, dato che in questi giorni – e fino a lunedì 16 giugno – il gruppo scout di Sant’Ippolito ospita 29 capi-scout proveniente dalla parrocchia gemellata di Zababdeh (villaggio cisgiordano in gran parte cristiano vicino a Jenin, vedi https://www.rossoporpora.org/rubriche/vaticano/1170-parrocchia-gaza-dolore-e-indignazione-ancora-riccardi-a-sant-ippolito.html ).
Eravamo in duecentocinquanta a gremire la sala (molti i giovani). Soprattutto la serata è stata caratterizzata dalla grande attenzione con cui il pubblico ha seguito i tanti episodi drammatici evocati sullo schermo. E, alla fine, ne è scaturito un silenzio da mettere i brividi durato per più minuti. Nessuno osava parlare. La proiezione di “No Other Land “ ha dato occasione allo storico Antonio Musarra (collega nel Gruppo Cultura di Sant’Ippolito, docente alla Sapienza e collaboratore di ‘Avvenire’) di elaborare una riflessione tutt’altro che banale di cui proponiamo ampi stralci a chi ci legge.
. La sala era gremita, ma ciò che colpiva era il silenzio. Un silenzio fitto, corale, come se tutti – per una volta – stessimo davvero ascoltando. Sullo schermo, la storia delle comunità palestinesi di Masafer Yatta, cancellate nella Cisgiordania occupata. A raccontarla, Basel Adra e Yuval Abraham: palestinese, l’uno; israeliano, l’altro. Coetanei, diversi per destino, uniti da una sola fedeltà: quella alla verità. Un film senza retorica, senza eroi. Soltanto volti, voci, rovine. Una delle immagini più laceranti mostra Harun Abu Aram, un attivista palestinese, colpito e paralizzato da un soldato dell’IDF mentre tenta di impedire la confisca di un generatore. Poco dopo, la madre, tra le macerie d’una casa demolita, sussurra: “Non abbiamo altra terra”. Quel titolo – “No Other Land” – non è una metafora: è un atto d’accusa e una diagnosi storica. La forza del film non sta solo nel dolore che documenta, ma nel coraggio con cui lo si nomina. Yuval non tace. Interroga. Chiama per nome le contraddizioni del proprio Paese, e nel farlo ci mette davanti a una domanda che ci riguarda tutti: qual è il nostro grado di responsabilità morale?
. C’è una parola, nella tradizione ebraica, che può aiutarci a pensarla: teshuvà, che significa “ritorno”, ma anche “risposta”. È il nome del cammino che la coscienza intraprende quando decide di non ignorare il male compiuto. Non si tratta solo di colpa, ma di consapevolezza, di trasformazione. Teshuvà è conversione nel senso più profondo: non solo religiosa, ma etica. È la decisione di guardarsi dentro, di fare verità, di riparare. L’ebraismo non nega il peccato: lo assume. Non cerca un capro espiatorio: chiede il pentimento. Non invoca l’oblio: custodisce la memoria del male per convertirla in giustizia. (…)
. Qui nessuno nega il diritto d’Israele d’esistere, nessuno nega gli orrori di Hamas, nessuno cancella la complessità di un conflitto radicato nella storia e nel sangue. Ma c’è un fatto. La teshuvà non si compie con parole solenni, ma con gesti concreti: fermare la colonizzazione, riconoscere l’altro, restituire ciò che è stato tolto. Chi porta un’arma ha sempre una scelta.
Certo, tra le rovine, appaiono segni importanti. All’alba del primo giorno dell’ʿĪd al-Aḍḥā, mentre migliaia di palestinesi si accalcavano attorno ai luoghi di distribuzione del cibo, migliaia di cittadini israeliani portavano sacchi di farina ai checkpoint. Senza proclami. Solo per dire: “non in mio nome”. Il movimento “Standing Together” ha marciato fino alla barriera di Gaza, unendo ebrei e arabi in una protesta nonviolenta. In un Paese dominato dalla paura e dalla propaganda, questo è già un atto di ritorno: alla coscienza, all’umano (…) .
. E qui, tuttavia, sorge una nota stridente, che riguarda maggiormente noialtri. Perché così tanti ebrei italiani tacciono? Non per mancanza di coscienza, spero. Né per cecità. Credo – ma posso soltanto immaginarlo -, a causa di una lacerazione profonda, che ha a che fare con la storia. Una paura duplice e fondata: da un lato, quella d’offrire involontariamente argomenti all’antisemitismo, d’esporsi a un’ondata d’odio che in Europa ha sempre trovato pretesti per risorgere; dall’altro, quella di spezzare un vincolo d’identificazione con Israele percepito come unica garanzia di sopravvivenza dopo la Shoah. È una paura che ha radici nel trauma, e che merita rispetto. Ripeto: non ho gli strumenti per capire dall’interno. Posso soltanto immaginare. Certo, se così fosse – e su questo dovremmo aprire la discussione -, si potrebbe obiettare che il trauma non può diventare prigione. Proprio la Shoah impone un compito diverso: non la fedeltà cieca, ma la vigilanza morale. Non l’identificazione incondizionata, ma la distinzione tra vendetta e giustizia. In molte sinagoghe italiane si prega per la pace, ma si tace sul prezzo della guerra. Si teme di apparire infedeli, traditori, ambigui. Ma la vera ambiguità è il silenzio. È credere che la fedeltà consista nell’adesione. Che amare Israele significhi giustificarlo. Nossignori: il vero amico non è chi applaude sempre, ma chi avverte quando il cammino devia. Come fece Natan con Davide. (…)
. Per questo mi rivolgo a voi, amici ebrei: se non sarete voi a ribellarvi, ad alzare la voce, a chiedere giustizia e non solamente vendetta, Israele si smarrirà. Anzi, forse si è già smarrito. Non per mano dei propri nemici, ma sotto la guida di uomini che hanno smarrito la misura, trascinando con sé l’intera nazione nel peso della propria cecità morale. Il vostro silenzio pesa, pesa il doppio, perché nasce da una coscienza che conosce il dolore. “Kol Yisrael arevim zeh ba-zeh”. “Tutto Israele è responsabile l’uno dell’altro“. Non c’è identità che valga, se rinuncia a interrogarsi. È tempo di scegliere. Perché “chi ha lottato con Dio” può ancora lottare per l’uomo. E, forse, proprio da questo ritorno – difficile, doloroso, necessario – potrà nascere non la fine, ma un principio.
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Poi c’è questo post di Infosubmarine:

Tra il 17 e 20 giugno si terrà a New York una conferenza delle Nazioni Unite che doveva essere occasione per una forte spinta internazionale per il riconoscimento dello stato palestinese.
Nelle scorse settimane Emmanuel Macron si era speso personalmente per sottolinearne l’importanza, arrivando a parlare di “dovere morale e necessità politica.” Macron ha visitato diversi paesi per cercare di organizzare la cordata — la conferenza a New York è sostenuta da Francia e Arabia Saudita.
Nelle scorse ore, però, i diplomatici francesi hanno rassicurato le proprie controparti israeliane che la conferenza di New York non sarà occasione per questo momento di rilievo internazionale.
La decisione segna un drastico arretramento nella contrapposizione liberale alla pulizia etnica in corso a Gaza: il riconoscimento dello stato palestinese ora è inteso come un “premio” che potrebbe arrivare in seguito al siglare un accordo per il cessate il fuoco permanente, compresa la liberazione degli ultimi prigionieri israeliani ancora a Gaza.
Ma non solo: sarebbe necessaria anche una riforma dell’Autorità palestinese, garanzie per la ricostruzione della Striscia di Gaza, e la fine del controllo politico della regione da parte di H████. Francia e Arabia Saudita coordineranno otto gruppi di lavoro per “preparare gli ingredienti” per una soluzione dei due stati — il Regno Unito dovrebbe coordinare quello sulla risposta umanitaria, la ricostruzione della Striscia e la sostenibilità economica di un futuro stato palestinese.
Nonostante Francia, Regno Unito e i paesi che si sarebbero dovuti accodare a loro abbiano funzionalmente ceduto a ogni singola richiesta di Tel Aviv — compresa, in ultima analisi, quella di non riconoscere lo Stato palestinese — secondo le fonti del Guardian Stati Uniti e Israele boicotteranno comunque i lavori.
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Intanto, il massacro, comunque voi vogliate chiamarlo, continua. Cliccate per il video:

Almeno 66 persone sono state uccise in seguito a nuovi attacchi israeliani che proseguono dall’alba sulla Striscia di Gaza.
Lo rivelano i reporter di Al Jazeera e dall’agenzia palestinese Wafa, aggiungendo che le vittime si contano in diverse aree del territorio, con bombardamenti che hanno colpito anche tende per sfollati e quartieri residenziali.
A Khan Yunis, tra le dodici vittime figurano quattro membri della stessa famiglia. A Gaza City, nel quartiere di Sabra, un raid ha provocato almeno 16 morti, tra cui sei bambini, e oltre cinquanta feriti.
Secondo la Protezione civile locale, circa 85 persone sarebbero ancora intrappolate sotto le macerie. «Un vero e proprio massacro», ha dichiarato un portavoce.
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Questo post parla di un fotoreporter che ha trovato la sua casa distrutta e tutti i membri della sua famiglia massacrati. Cliccate per il video.

Venerdì 6 giugno l’esercito israeliano ha bombardato l’abitazione del fotoreporter palestinese Abdulraheem Khodr a Jabalia al-Balad, nella Striscia di Gaza settentrionale.
Abdulraheem era appena uscito per andare al lavoro quella mattina quando i vicini lo hanno chiamato per dirgli che la casa era stata distrutta dalle bombe israeliane. Al suo ritorno ha trovato solo macerie e 48 membri della sua famiglia uccisi.
“Sono riuscito a seppellire solo quattro persone della mia famiglia”, ha raccontato. Molti sono ancora intrappolati sotto le macerie. L’IDF continua a impedire ai soccorritori di svolgere il loro lavoro e raggiungere coloro che potrebbero ancora essere salvati.
“Nel primo giorno di Eid al-Adha, Israele mi ha tolto tutto.” ha detto il fotoreporter.
#GazaGenocide #palestine #EidAlAdha #IDF
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E questo post invece illustra cosa sta accadendo in Cisgiordania, dove, come tutti sanno, Hamas non c’è, mentre c’è invece l’occupazione illegale israeliana e le violenze squadristiche commesse dai coloni con la protezione dell’esercito. Cliccate per il video.

Nessun arabo è al sicuro in Cisgiordania.
Violenti attacchi, spedizioni punitive, saccheggi sistematici, ulivi sradicati, bestiame ucciso non per necessità ma per infliggere danno e umiliazione. Questa la quotidianità imposta ai palestinesi della Cisgiordania occupata.
Una realtà che non è iniziata il 7 ottobre 2023, ma che da quella data ha subito un’escalation brutale, raggiungendo livelli di disumanità senza precedenti. Mai, prima di quest’anno, si erano registrati così tanti attacchi: nel suo ultimo rapporto, l’OCHA ha documentato oltre 220 feriti da gennaio 2025. Con una media aritmetica di 44 palestinesi feriti ogni mese, le Nazioni Unite hanno dichiarato che si tratta del “più alto tasso di attacchi degli ultimi vent’anni”.
Il 24 maggio scorso, tutti i residenti di Mughayyir al-Deir, un villaggio a est di Ramallah, sono stati costretti a un trasferimento forzato per sfuggire alla furia dei coloni, che hanno aggredito selvaggiamente dodici palestinesi, tra cui un ragazzo di quattordici anni. Ad oggi, le 125 persone della comunità beduina di Mughayyir al-Deir non sono ancora tornate al loro villaggio. Nel frattempo, i coloni vi hanno piantato grandi tende, nel tentativo di trasformarlo in un nuovo avamposto.
In tutto questo, lo Stato di Israele non solo permette ai coloni di agire impunemente, senza alcuna conseguenza legale, ma li asseconda apertamente.
A rendere la vita impossibile ai palestinesi della Cisgiordania non sono solo i coloni, che pure agiscono in totale impunità. Dal 21 gennaio scorso, è iniziata la cosiddetta “Operazione Muro di Ferro”, definita dal quotidiano Haaretz come un processo di “gazificazione della West Bank”.
Leggi l’articolo di @claudiacarpi_ Linki nelle stories
#WestBankUnderAttack #settlers #israel
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E questo post testimonia una verità evidente: e cioè che i governi occidentali, con qualche rara e nobile eccezione, sono attivamente complici dello sterminio e della pulizia etnica che Israele sta compiendo a Gaza e in Cisgiordania:

Oltre 300 funzionari del Ministero degli Esteri che collettivamente hanno sollevato preoccupazioni sulla gestione del genocidio di Gaza da parte del governo sono stati schiaffeggiati dai loro superiori di Whitehall in una lettera descritta da un ex diplomatico anziano come “vergognoso”.
Sir Oliver Robbins e Nick Dyer, i due funzionari più anziani dell’Ufficio Estero, Commonwealth e Sviluppo (FCDO), hanno ricordato a un gruppo di funzionari che, mentre accolgono con favore la “sfida sana”, c’erano altri “meccanismi a disposizione di chi è a disagio” con la politica oltre ad esercitare pressioni collettive – compresa la dimissioni.
A metà maggio, i funzionari hanno scritto al segretario degli Esteri David Lammy invitando il governo a porre fine alla collaborazione con Israele e a rispettare il diritto internazionale.
Nella loro risposta, vista esclusivamente da Novara Media e pubblicata interamente qui sotto, Robbins e Dyer hanno suggerito ai dipendenti preoccupati che il governo possa consentire ai crimini di guerra di parlare con i loro dirigenti di linea, sfogarsi con un consigliere dello staff o dimettersi, l’ultimo dei quali ha descritto come “un corso onorevole”.
Zarah Sultana, un parlamentare attualmente sospeso dalla frusta laburista per essersi opposto al tetto dei benefici per due figli, ha dichiarato a Novara Media: “Questo è quello che succede quando un governo consente il genocidio: zittisce i propri lavoratori, censura le domande e li sfida a lasciare piuttosto che cambiare rotta. ”
Leggi di più su novaramedia.com ora.
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Questo post non è commentabile.

Ospite della trasmissione Coffee Break su La7, il giornalista Davide Vecchi ha dichiarato che “quelli che oggi sono sotto le bombe a G4z4 sono tutti potenziali futuri terroristi.”
È così che si finisce per cancellare l’umanità di un intero popolo con una sola frase. Non serve una propaganda esplicita: basta ripetere che chi oggi è sotto le bombe a G4z4 un giorno sarà per forza una minaccia. È così che si anestetizza la coscienza pubblica.
Ma chi c’è sotto queste “bombe”?
Sono case sbriciolate, corpi senza nome, famiglie sradicate. Sono bambini che imparano la paura prima ancora di parlare. Sono madri che non hanno più nulla da dare se non il proprio corpo per proteggere.
Sono uomini che scavano a mani nude nella polvere.
E tu, dal comodo di uno studio TV, li chiami “futuri terroristi”.
No. Questo non è giornalismo. È un modo raffinato per discolpare chi bombarda e colpevolizzare chi muore. È una retorica tossica che trasforma ogni vittima in colpevole potenziale.
Chi ha il potere delle parole dovrebbe sapere che non esistono “popolazioni pericolose”, esistono storie spezzate. E chi non le sa ascoltare, non dovrebbe raccontarle.
#stopwar #disinformazione #poveraitalia #umanità #bambini #pace
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E infine questo post di Jewish Voice for Peace. Non smetteremo mail di provare ammirazione per le persone di religione ebraica che osano sfidare le costrizioni tribali e politiche, e parlano con coraggio e lucidità su ciò che sta avvenendo:

Il governo israeliano sta usando la fame come strumento di genocidio, e sta deliberatamente producendo condizioni destinate a portare alla distruzione del popolo palestinese. Nella sua crudeltà e portata di annientamento, i crimini di guerra del governo israeliano assomigliano sempre più alle tattiche naziste.
In base al nuovo regime di aiuti USA-Israeliano, i palestinesi affamati sono costretti a viaggiare nell’estremo sud di Gaza. Fanno la coda a migliaia sotto il sole aperto, come appaltatori privati armati, tra cui mercenari americani, fanno la guardia. Droni quadricotteri israeliani volano sopra la testa.
Dal momento in cui il governo israeliano ha dichiarato il suo piano per rilevare la distribuzione degli aiuti, i suoi obiettivi genocidi sono stati abbondantemente chiari. Durante tutto il genocidio, il governo israeliano ha apertamente usato la fame come strumento di annientamento, prendendo di mira gli operatori umanitari e limitando gli aiuti a una goccia o bloccandola interamente per mesi, mentre i palestinesi di tutta Gaza morivano di fame.
Gli echi del passato non ci si perdono. Le immagini inquietanti di palestinesi disperati e affamati che scappano dagli spari e costretti ad affollarsi in gabbie metalliche per ore in attesa di aiuti invocano le sofferenze cui molte nostre famiglie sono state sottoposte durante l’olocausto nazista.
I soldati nazisti controllavano strettamente l’accesso al cibo nei ghetti, dove ebrei, disabili, queer e altri ritenuti “indesiderabili” venivano isolati dal mondo esterno e deliberatamente affamati: costretti a rischiare la vita, tra contrabbando o fila per ore al freddo gelido, nella speranza di nutrirsi le loro famiglie. I corpi dei morti hanno sparso le strade. L’acqua pulita era scarsa. La malattia dilagava.
Come ebrei antisionisti, abbiamo l’imperativo morale di attirare l’attenzione su questi paralleli. Mai più è ora.
Per saperne di più: Jvp.org/wireins
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