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martedì 14 marzo 2023

Marco Tosatti - Un Governo di Destra che Fa Troppe Cose di Sinistra. Formicola. mar 14, 2023

 

l'avvocato Giovanni Formicola -  mar 14, 2023


Marco Tosatti

Carissimi StilumCuriali, l'avvocato Giovanni Formicola, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione queste riflessioni sulla situazione politica e sociale italiana, e soprattutto sull'esecutivo in carica. Questa è la prima parte dell'articolo, la second verrà pubblicata nei prossimi giorni. Buona lettura, meditazione e condivisione. 

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Grande è la confusione sotto il cielo: al governo è un centrodestra troppo «di sinistra».

Infatti, quanto, per cominciare, alla politica economica, dovremmo credere che quando a governare sia il cosiddetto centrodestra, e che se di centrodestra sia – culturalmente e politicamente – il ceto parlamentare di maggioranza, una manovra finanziaria-fiscale avrebbe anzitutto l’obiettivo (lodevolissimo!) di raggiungere il pareggio di bilancio e avviare la riduzione del mostruoso debito pubblico e relativo servizio d’interessi, che gravano oltre che sulla nostra su un numero indefinito di generazioni d’italiani a venire.

E perciò sarebbe antitetica a quella prescritta dal manuale della «socializzazione fredda».

«Socializzazione», nella misura in cui tende – in modo solo apparentemente meno radicale – all’espropriazione e al controllo economico contro la proprietà (cui si vuol sostituire l’affitto, detto sharing) e contro l’impresa micro, piccole e medie. Ieri con il pretesto proletario e della «giustizia sociale», oggi con quello del grande reset, che sarebbe necessitato e motivato da pseudo-emergenze climatico-ambientali, ovvero sanitarie, ovvero finanziarie – e questi «ovvero» non sono disgiuntivi, ma congiunzioni.

«Fredda», perché attuata senza visibile e cruento terrore di stato, ma comunque Equitalia, Agenzia delle Entrate e Polizia Tributaria non sono estranei ai peggiori incubi degl’italiani.

E in questione non è solo l’espropriazione economica e patrimoniale, ma soprattutto la primogenitura, rispetto allo stato, della persona, della famiglia, dei corpi sociali e dell’intera società. In causa, dunque, più che la finanza pubblica è un’idea della politica, che discende naturalmente da una concezione antropologica. E stupirebbe davvero se il centrodestra, come purtroppo sembra dai suoi primi atti e proposte, optasse di fatto per una visione che è troppo lontana dalle radici culturali (ma quelle fascistiche pesano ancora, sotto il nome «sociali») che definiscono la sua collocazione politica e dalle aspettative del suo elettorato, per non indurre il sospetto che sarebbe ormai infiltrato di cultura socialista o vittima della di essa egemonia, soprattutto psicologica, dura a morire.

Tali radici e aspettative consistono – non senza sfumature e differenziazioni di sensibilità, di toni e di sottolineature, che tuttavia rimangono variazioni sul tema – appunto nell’idea che la persona, la famiglia, i corpi sociali e l’intera società civile vengano prima dello stato e del governo, e che questi debbano gravare il meno possibile su tali realtà primarie, di cui sono piuttosto il momento organizzativo – irrinunciabili garanti dell’ordine, della sicurezza e del bene comune – che fattore costitutivo e regolativo tendenzialmente totale. Già nel 1792 (nel 1792!) uno dei padri della costituzione degli Stati Uniti d’America individuava, profeticamente, il pericolo per la libertà e per l’autogoverno della società – che nel suo contesto politico cominciava con quello dei singoli stati dell’Unione – rappresentato dalla dilatazione delle competenze dello stato e del governo centrali. «Se gli uomini del Congresso potessero stanziare denaro senza limiti per il benessere generale, di cui immaginano di essere i soli e i supremi giudici, finirebbero per occuparsi personalmente persino della religione; pretenderebbero di nominare gli insegnanti in ogni Stato, contea o parrocchia e di pagarli con i soldi dell’erario pubblico; potrebbero assumere personalmente il controllo dell’educazione dei bambini stabilendo in tal guisa scuole in ogni parte dell’Unione; si farebbero carico dei bisogni dei poveri; potrebbero voler regolamentare tutte le strade, non solo quelle proprie dei percorsi postali; in breve, ricadrebbe sotto il potere del Congresso tutto ciò di cui dovrebbe occuparsi la legislazione dei singoli Stati, dagli obiettivi più generali ai più minuziosi provvedimenti di polizia»[1].

Da questo principio dell’esistenza politica derivano alcune conseguenze – non posso certo elencarle tutte – sul piano della retta filosofia sociale.

In base a tali conseguenze, mi sembra evidente che non è e non può essere solo questione di aliquote e di riduzione delle tasse. Soprattutto se questa è sostanzialmente apparente, cioè a «costo zero» per l’erario, in quanto compensata, per esempio, con un (possibile e depressivo) aumento dell’IVA. Vero e proprio pizzo di stato sulle transazioni commerciali, quest’ultima, che grava sul consumatore (fa rima con peccatore?), il quale paga anche le tasse sulla parte del suo reddito che se ne va in IVA, come le paga sulla parte di reddito che se ne va in accise sui carburanti e altri oneri indiretti, trattandosi d’imposte detraibili solo pochissimo e per pochissimi.

E in proposito – anticipo la premessa di un tema ulteriore, che tratto in una seconda parte –, se l’italico centrodestra crede di «comprare» il proprio elettorato con un po’ di economia (peraltro, allo stato, più promettendo che facendo), temo si sbagli. Anche perché la centralità dell’economia è rivincita postuma del marxismo, come sua rivincita postuma è la lotta bancario-statalista alla circolazione del contante, la cui abolizione per controllare definitivamente e totalmente la società e le sue dinamiche era precisamente il programma (fallito) di Lenin.

Il centrodestra, invece, ricupererà – e anche alla grande – i suoi elettori, che sono rimasti a casa nelle ultime consultazioni amministrative piuttosto che avventurarsi a sinistra, solo se e quando farà cose di centrodestra, tra le quali, certo anche la riduzione (vera) delle tasse, ma in quanto parte di qualcosa di più strutturale, di cui appunto si dirà ora, ma anche poi.

Si tratta, anzitutto e né più e né meno, di ridurre lo stato e la sua spesa. Ciò che i politici sono sempre più riluttanti a fare, perché se lo stato governa tutto, chi governa lo stato ha un enorme potere, e questo è troppo seducente per chi non abbia una solida formazione culturale e morale conservatrice e, perché no?, cristiana. Ma l’iper-trofia dello stato è precisamente il carattere proprio – e rivendicato – d’ogni socialismo.

Lo stato è stato (la cacofonia è intenzionale e antistatalista) ed è, con le banche, il principale fattore dell’attuale e d’ogni crisi economica (al di là di cause congiunturali, come la psico-pandemia e la sua strumentalizzazione contro le libertà tutte, non solo quelle economiche), e non la sua soluzione o argine. Per fare giusto un primo esempio, sono state le sue inframmettenze nel sistema creditizio, come tutti coloro che vogliono sapere sanno, e soprattutto la pretesa di finanziare e far finanziare il non finanziabile a far saltare un mercato, quello mobiliare-finanziario, che spesso non è amico di quello reale, come insegna Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate (n. 21). Così come ogni rischio di default, che riguardi gli stati, non dipende dall’economia libera, ma dalla sua sostituzione con l’utopia egualitaria, perseguita dai governi che si sono dati il compito di distribuire dall’alto il benessere, sottraendolo, novelli Robin Hood, ai ricchi che egoisticamente avrebbero voluto esserne gli unici gelosi titolari. Gli stati – praticamente tutti: è lo stato moderno ad essere strutturalmente in crisi perché difforme dalla natura della res publica – sono in crisi perché si sono gonfiati come le rane, e ora rischiano di scoppiare, e non perché hanno concesso troppa libertà economica alla società.

Ridurre lo stato, dunque.

Questo significa capire che i conti privati importano più di quelli pubblici, che la tenuta di questi se è a scapito dei primi è una falsa tenuta e un’autentica rapina, che, anzi, è dalla salute dei conti delle famiglie e di chi produce che dipende quella del bilancio dello stato. Significa, dunque e anzitutto, re-invertire l’ordine prioritario dei rapporti.

Sono la persona, la famiglia e i corpi intermedi, come le imprese, a meritare la presunzione del diritto in una controversia, non la piovra amministrativa, che dev’es-sere invece essa a provare la legittimità delle proprie pretese: è un onere che non incombe sul contribuente, ma sul governo.

Sono le persone e i corpi intermedi i primi, naturali e fondamentali titolari del reddito e dei beni che legittimamente producono o che hanno ereditato, e non lo stato, che quindi deve chiedere con garbo e sottovoce quello che ritiene possa servirgli per il bene comune, dopo aver trattato le proprie richieste con le rappresentanze della società.

Sono i diritti accertati delle persone e dei corpi intermedi a dover godere della clausola di esecutività, e che quindi vanno immediatamente soddisfatti, e non quelli meramente affermati da parte dello stato come avviene oggi (solve et repete): le ganasce fiscali sono socialismo allo stato puro, e l’elettorato del centrodestra non è punto socialista (in senso tecnico).

Insomma, lo «Stato deve essere ridotto alla forma più semplice. Esso deve aver un buon esercito, una buona polizia, un ordinamento giudiziario che funzioni bene, fare una politica estera intonata alle esigenze della nazione: tutto il resto deve essere abbandonato all’attività privata». Difesa delle frontiere (non solo dalle invasioni armate, ma anche da quelle apparentemente incruente), tutela della sicurezza, dell’ordi-ne pubblico e dell’identità culturale e religiosa nazionale, politica estera e, se vogliamo, le grandi infrastrutture: questi i compiti naturalmente propri del governo. Solo così avremo uno stato snello il giusto per non pesare sulla nazione. La riduzione delle tasse, e cioè l’incremento di libertà per la società, che oggi lavora forzosamente più di sei mesi all’anno per lo stato, inizia da qui. Inizia da un’azione politica tendenziale, graduale, ma inesorabile in questa direzione, affinché lo stato sia per la società e non la società per lo stato, così come la società è per l’uomo e la famiglia e non l’uomo e la famiglia per la società. È la sussidiarietà, principio di libertà e di efficienza, che genera la solidarietà.

Nel 1993 non feci vacanze (avevo già quattro dei miei cinque figli): tutti i miei (pochi) risparmi se li prese Amato. Quando succede qualcosa del genere, vuol dire che il patto sociale è già rotto, come gli storici Tea parties ritennero a ragione rotto il patto sociale con la Corona britannica.

Si dirà, però, che adesso la representation c’è, e quindi ogni taxation è legittima.

Rispondo che, se così fosse, il Parlamento non sarebbe il sostegno del governo, ma il suo interlocutore dialettico quale rappresentante degl’interessi sociali, come, ancorché in modo ormai residuale, ancora accade nei rapporti tra Presidente e Congresso negli USA.

Rispondo che, se così fosse, al popolo sovrano non sarebbe impedito di pronunciarsi con il referendum sulle leggi tributarie.

In realtà, la società oggi non può in alcun modo difendersi dalla pretesa fiscale che la strozzi, se non degradandosi nell’illegalità dell’evasione.

Si dirà e si dice, ancora, che siamo su un Titanic che rischia di affondare. Do per buona la tesi, ma ne contesto l’idoneità a giustificare le soluzioni che purtroppo rischiano di non differenziare più il centrodestra dal centrosinistra: le famose «mani nelle tasche» o nei patrimoni o nei conti correnti dei cittadini.

Veniamo al caso concreto italiano. Siamo soffocati da un mostruoso debito pubblico, eredità della pessima esperienza della Prima Repubblica. Quando sento qualcuno rimpiangerla, quando sento pontificare uomini che rivendicano con assurdo orgoglio le politiche di bilancio tutte fondate sul debito, davvero la mano corre idealmente alla rivoltella che non possiedo, non ho mai posseduto, né mai possiederò. Quegli uomini – e la loro memoria non sarà mai damnataabbastanza per questo: altro che tangenti, il futuro ci hanno rubato! – hanno fondato il loro potere sull’emissione di cambiali che sapevano bene non sarebbero mai stati chiamati (loro) ad onorare, ma che avrebbero avvelenato il futuro di generazioni d’italiani, tra i quali noialtri.

Gli uni lo facevano per nutrire clientele e alimentare greppie pubbliche da cui trarre consenso; gli altri per un forsennato ugualitarismo nutrito d’invidia sociale. Era quello che fu definito «consociativismo» tra maggioranza e finta opposizione – finta perché tale non può definirsi una forza politica che ha votato a favore o si è tutt’al più astenuta, dal finire degli anni 1960, in occasione di ogni legge di bilancio, per non dire del concorso alle «riforme di struttura» che hanno mutato l’abito morale della nazione, dal divorzio alla legalizzazione dell’aborto.

Geniale: si facevano e si fanno prestare danaro con il quale pagare pensioni a quarantenni, dilatare il pubblico impiego, «perequare» la società, intraprendere opere pubbliche senza sbocco, entrare nell’economia e produrre in perdita, fingere che sanità, istruzione e trasporti possano essere assicurati a tutti praticamente gratis, elargire redditi di cittadinanza, cioè danaro senza lavoro, e contemporaneamente aumentavano e aumentano le tasse per pagare gl’interessi del debito, che ogni anno cresce, e per colpire i ricchi. Si stava realizzando e si sta realizzando quello che Hilaire Belloc chiamò lo «stato servile»: una società in cui una minoranza lavora e produce per mantenere con le tasse – fino a due terzi del reddito, cioè fino a due terzi del proprio tempo, della propria vita, e talora anche oltre – una maggioranza di assistiti a vario titolo.

Ora che i nodi vengono al pettine, chi deve pagare? Perché noi? «Perché lo stato siamo noi», si dice, e quindi offrire questo «contributo di solidarietà» è doveroso, e più siamo «ricchi», più dobbiamo pagare. Ebbene, questa formula è la più totalitaria e liberticida che si possa immaginare: se «lo stato siamo noi», noi stato su di noi società possiamo tutto… ma, come il Pulcinella di Monaldo Leopardi, ci accorgiamo ogni giorno di essere i «noi» assoggettati, mai di essere lo stato che decide e comanda. No. Lo stato, in realtà, sono «loro», e devono lasciarci in pace tanto quanto – e non dev’essere poco – è possibile. E quindi i debiti dello stato li paga lo stato. Come un buon padre di famiglia – che corregge, e talvolta punisce, i figli quando sbagliano, ma né si sostituisce a loro nelle scelte legittime di vita, né pensa di nutrirsi novello Conte Ugolino del loro sangue –, mutatis mutandis, anche lo stato quando è in difficoltà riduce le spese, abbassa il proprio tenore di vita, rinuncia al superfluo e agli sprechi, magari vende qualche proprietà, ma non ipoteca il futuro di coloro che gli sono stati affidati.

Il debito è sempre contro il bene comune, il benessere e la salute sociali.

Non sono contro l’austerità dei costumi e del tenore di vita. Tutt’altro. Ma questa deve riguardare, come imposizione, la compagine statuale – e solo nella misura in cui è la sua austerità a riverberarsi sulla società che diventa accettabile parlare di sacrifici –, non la vita privata dei cittadini e delle famiglie, quasi come se la riuscita sociale ed economica sia una colpa da far pagare.

Mi pare che la politica di bilancio del governo – per quanto necessitata da una congiuntura internazionale tanto sfavorevole quanto causata dagli errori del burocratismo centralista e statalista, nonché dalla prevalenza dell’economia monetaria e finanziaria su quella reale, ma soprattutto pretesa e imposta con sostanziali ricatti politico-finanziari dall’Unione (socialista) Europea, superstato totalitario pur senza apparente apparato repressivo e terroristico – vada nella direzione sbagliata, se non tocchi le cause del malessere, ma le aggravi, togliendo energie al corpo sociale e soffocandolo. Il troppo di sangue, che genera ipertensione, vertigini e squilibri, e che va salassato, circola nelle vene dell’apparato pubblico, non in quelle della società civile. La pretesa soluzione, quando colpisce le famiglie, è difficile pensare che sia sostanzialmente, e non nominalmente solo, di centrodestra. Certo è sbagliata.

E se è vero e sacrosanto il pareggio di bilancio imposto dalla costituzione, tale norma andrebbe emendata con una semplice clausola dello stesso rango giuridico: tale obiettivo non può essere raggiunto aumentando, direttamente o indirettamente, il carico dei tributi. Insomma, è vietato pareggiare il bilancio con i soldi nostri, mettendoci le mani nelle tasche.

Il centrodestra deve smettere d’essere «di sinistra» Solo tornando ad essere senza complessi e orgogliosamente (centro)destra e, poiché agere sequitur esse, a fare cose di (centro)destra come quest’ultima detta, il governo e le forze politiche che lo sostengono ritroveranno il consenso che rischiano seriamente di perdere, almeno in termini di percentuale del corpo elettorale. Altrimenti i loro (già) elettori continueranno il proprio volontario esilio in patria.

E questo sul piano socio-economico. In un prossimo articolo, esamino quello socio-culturale-morale, certamente più importante, come accennavo: non di solo pane vive l’uomo.

(Giovanni Formicola)

[1] John Madison, Discorso alla Camera del 7 febbraio 1792 sul «Cod Fishery Bill». Il testo fu pubblicato, ad esempio, in The Examiner, and Journal of Political Economy del 27 novembre 1833.

 

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