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mercoledì 7 luglio 2021

Thomas Fazi - 6 anni fa la repressione di Draghi della ribellione greca

 


Esattamente sei anni fa, il 5 luglio 2015, mi trovavo in piazza Syntagma ad Atene (la foto che vedete la scattai io) per festeggiare la straordinaria vittoria del "no" ("oxi") al piano di aggiustamento strutturale proposto al governo greco dagli strozzini della troika (Commissione europea, BCE e FMI) in cambio di un nuovo programma di "supporto finanziario".
 
Di fatto il popolo greco disse che preferiva rigettare il piano, con tutto ciò che poteva potenzialmente comportare - inclusa l'uscita della Grecia dall'euro -, piuttosto che continuare con il salasso che nei cinque anni precedenti aveva ridotto il paese in ginocchio.
 
L'emozione fu immensa: per un brevissimo istante sembrava che si fosse aperta una breccia nella fortezza europea. Purtroppo sappiamo come finì quella storia: all'indomani del referendum, e in spregio della volontà popolare, il governo greco capitolò e accettò i termini onerosi di un altro accordo di prestito subordinato a ulteriori misure di austerità e di deregolamentazione, ponendo così fine alla breve “ribellione” greca.
 
Sarebbe facile dare tutta la colpa di quest'esito ignominioso al tradimento di Tsipras. Tuttavia, al netto delle responsabilità del leader di SYRIZA, non è possibile comprendere gli eventi di quell'estate rovente senza prendere in considerazione la condotta vergognosa delle istituzioni europee e della BCE in particolare.
 
La responsabilità della capitolazione di Tsipras, infatti, è generalmente attribuita ai principali Stati europei (prima fra tutti la Germania). Tuttavia, il ruolo più pernicioso fu svolto dalla BCE. Nella guerra europea contro il nuovo governo greco, infatti, i primi colpi furono sparati proprio dalla banca centrale. Il 4 febbraio 2015, appena nove giorni dopo la prima vittoria elettorale di SYRYZA, la BCE tolse al governo greco una delle sue principali linee di credito, dichiarando che non avrebbe più consentito alle banche greche di accedere alla “normale” liquidità della BCE offrendo come garanzia collaterale obbligazioni nazionali greche ufficialmente classificate come “spazzatura” – un’eccezione concessa ai paesi sottoposti a un programma di aiuti finanziari della troika. Da quel momento in poi, le banche avrebbero dovuto fare affidamento sul più costoso Emergency Liquidity Assistance (ELA). La BCE addusse la scusa che «al momento non è possibile ipotizzare una conclusione positiva della revisione del programma [di aiuti finanziari]».
 
Questa fu una decisione straordinaria, per una serie di motivi: il nuovo governo greco aveva solo una settimana di vita e aveva tre settimane per estendere l’accordo di prestito con i creditori e con la troika. Peggio ancora, la mossa della BCE diede il via a una corsa agli sportelli, che accelerò la fuga di capitali che era già iniziata. Seguirono mesi di negoziati molto tesi, durante i quali le proposte del governo greco furono tutte respinte dalla troika, il che esacerbò ulteriormente il deflusso di capitali e fece precipitare il valore patrimoniale e la capitalizzazione di mercato delle banche greche.
 
La vertenza si chiuse nel giugno 2015. Il 25 giugno il governo di Tsipras respinse l'”offerta finale” presentata dalla troika di un nuovo prestito per consentire al governo di rinnovare un pagamento di 1,55 miliardi di euro dovuto all'FMI e due giorni dopo, in una mossa strategica per rafforzare la propria mano nei negoziati futuri, annunciò che avrebbe lanciato un referendum sulle condizioni dell’offerta, che si sarebbe tenuto il 5 luglio. Il giorno seguente, il 28 giugno, la BCE rifiutò alla banca centrale greca il diritto di aumentare la propria disponibilità nel contesto dell’ELA, non lasciando al governo greco altra scelta che chiudere le banche, imporre un controllo sui capitali e limitare i prelievi individuali a 60 euro al giorno, a un costo enorme per le imprese e i cittadini greci.
 
Il resto della storia è noto: sebbene il popolo greco avesse respinto in massa il pacchetto di austerità richiesto dalla troika, il governo greco fece un voltafaccia e accettò la condizioni dell’Unione europea, che erano persino più punitive di quelle che aveva in precedenza respinto. Non c’è dubbio che la BCE abbia svolto un ruolo cruciale nel costringere il governo greco alla resa, in quella che chiaramente equivaleva a una mossa strettamente politica, senza alcuna giustificazione tecnica.
 
Come scrive l’economista Mario Seccareccia, la BCE tagliò la liquidità alle banche greche «anche se sapeva perfettamente che il problema non era la liquidità delle banche, ma che c’era soprattutto un problema di liquidità sistemica, derivante dalla crescente incertezza e paura da parte della popolazione, riflessa nel crescente accumulo di liquidità» - paura che fu «indubbiamente aggravata dalle azioni della stessa BCE»:
 
«Quindi, invece di cercare di sostenere e promuovere il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti di uno dei suoi Stati membri, che in nessun momento, aveva proposto ufficialmente l’uscita dall’eurozona (in effetti, erano i leader tedeschi ad avere proposto di mettere in atto una “temporanea” Grexit), la BCE ha effettivamente interrotto deliberatamente la propria assistenza in materia di liquidità, al fine di destabilizzare ulteriormente il sistema di pagamenti greco e costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità proposte».
 
Questo episodio dimostra che nell’eurozona i presunti benefici dell’indipendenza della banca centrale sono stati invece sostituiti dalla dipendenza dei governi dalla banca centrale, non più soggetta ad alcun tipo di controllo democratico. È difficile trovare un altro esempio nella storia in cui una banca centrale abbia deliberatamente fatto crollare il sistema bancario della "propria" nazione al fine di forzare la sua agenda politica imponendola al governo eletto. Eppure questo è esattamente quello che è successo in Grecia sotto l'egida Draghi.
 
Questa esperienza mostra che i problemi dell’area dell’euro si estendono ben oltre l'eterogeneità dei paesi membri o il fatto che manchino meccanismi di stabilizzazione a livello federale e istituzioni realmente rappresentative (sebbene tutte queste cose siano vere). La realtà è molto più inquietante: nell’ultimo decennio, l’eurozona si è evoluta da una forma di managerialismo post-democratico in una gabbia di ferro autoritaria e "golpista". E, in larga misura, abbiamo Mario Draghi da ringraziare per questo.

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