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martedì 13 aprile 2021

By Alessandro Barbano x HUFFPOST - Dottor Luigi Cavanna: "L'errore italiano contro Covid"...

 

Il primario di Piacenza, pioniere delle cure precoci a domicilio: "Aspettare il virus barricati dentro un ospedale non funziona".



Vinceremo la sfida. In estate saremo al sicuro, dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, alla Repubblica. Protetti sotto l’ombrello dell’immunità di gregge scacceremo le nostre paure. E allora potremmo convincerci che cambiare il nostro modello di salute non era necessario, che curare presto e curare a casa era troppo oneroso, che quei centoventimila, o magari centotrentamila morti, erano un prezzo da pagare, una scommessa sulla nostra inguaribile rigidità. Scommessa vinta, perché i morti si dimenticano presto. E la Sanità potrà restare arroccata dentro gli ospedali a regolare i conti tra le diverse e rivali scuole di pensiero, i medici di base torneranno a distribuire prodighe ricette à gogo, senza mai portare il proprio stetoscopio a casa di un malato, i pronto soccorso si affolleranno nei weekend e durante le vacanze invernali, le liste d’attesa si sgonfieranno ma non troppo, e arriverà finalmente il turno dei malati di cancro e dei cardiopatici, o almeno di quelli non decimati dal ritardo delle cure.

Tutto sarà come prima, o quasi. E il riordino ospedaliero, la medicina di territorio, i piani antipandemici saranno i titoli di faldoni di carta ingiallita e impolverata, stipata negli scaffali ministeriali. Giro questa distopica, ma non troppo, rappresentazione del futuro prossimo a Luigi Cavanna, primario oncoematologo di Piacenza, pioniere delle cure precoci a domicilio, a cui nei giorni del primo lockdown il Time ha dedicato una copertina

Professore, il vaccino coprirà, insieme alla nostra fragilità biologica, anche l’incapacità del sistema di mettersi in discussione?

Tutti i rimedi contro le emergenze portano con sé questo rischio. Nella mia esperienza, è la prima cosa che ho pensato quando è arrivata la pandemia. La molla che mi ha indotto a uscire dal reparto è stata quella di evitare che i pazienti intasassero l’ospedale. E occupassero i letti di altri che hanno bisogno di cure, aggiungendo all’emergenza reale del virus un’emergenza indotta dalla reazione sbagliata del sistema sanitario. Mettiamoci un attimo nei panni dei malati di cancro, che devono essere operati e non trovano il posto letto. Non sapremo mai quanti di loro pagheranno con una metastasi il nostro ritardo. Sappiamo però che la mortalità per infarto è nettamente aumentata durante il Covid. Abbiamo ospedalizzato la crisi sanitaria e ne paghiamo il prezzo. Se mi chiedo perché è andata così, mi rispondo che abbiamo peccato di assoluto. Ma la medicina non ha niente di assoluto in sé, è un’esperienza che non cerca verità, mette insieme i suoi dubbi e approda a una nuova esperienza. Non è accaduto. 

Perché?

Perché la maggior parte dei colleghi che sono nel comitato tecnico scientifico e nelle altre istituzioni di indirizzo hanno un’estrazione ospedaliera. L’ospedale non copre l’intera realtà della malattia, anzi in un certo senso la distorce, perché la schiaccia dentro la sua gravità. Chi segue il paziente oltre l’ospedale e lo prende in carico prima, durante e dopo il ricovero, sa che la sfida alla malattia si combatte in tempi e con strumenti diversi. La sfida al Covid è anzitutto un’impresa del tempismo: curare presto e a casa per evitare che il malato si aggravi e che il suo aggravarsi impatti sul sistema sanitario, indebolendolo.

Lei quando lo ha capito?

Il 29 febbraio del 2020. È un sabato, ho appena finito la visita in reparto. Dal centralino mi passano una paziente oncologica. Respira a fatica. Viene dal pronto soccorso, le hanno fatto una lastra, ma ha visto tante persone in barella ed è stata presa dal panico, ha firmato le dimissioni e con un taxi è rientrata a casa. Le faccio: «Signora, torni qui, le trovo un posto letto». Mi risponde secca: «No, grazie, se volete venite voi, io non mi muovo». Consulto la sua cartella clinica: 66 anni, operata di tumore e in fase di guarigione. Ha una polmonite bilaterale in stadio intermedio, è sola, senza farmaci, e senza fiato. Chiamo Gabriele, il caposala, ci vestiamo con tuta e mascherina e in un baleno siamo da lei. Faceva fatica a star seduta. Le pratico le prime terapie e le propongo di tornare con me in ospedale. Ma non c’è verso. Allora facciamo un patto: lei mi chiama tre volte al giorno e mi invia su Whatsapp la fotografia del saturimetro. Quella notte non ci ho dormito. Ma, dopo pochi giorni di cure precoci, lei ha iniziato a star meglio.

Da lì la decisione di estendere le visite a casa?

Tutte le mattine alle 9.30 ci incontravamo nella sala della direzione generale per la cosiddetta cabina di regia. E già nei primissimi giorni di marzo abbiamo capito che il pronto soccorso stava andando il tilt. L’afflusso dei malati era ingestibile. L’unica cosa da fare era decongestionare l’ospedale. Ho raccontato al manager e al direttore sanitario la mia esperienza con quella paziente, e si è deciso di riprovarci con altri malati. Un’associazione di volontariato ha postato su Facebook l’iniziativa. Dopo poche ore siamo stati sommersi dalle telefonate. Oggi abbiamo otto squadre di medici e infermieri che hanno fin qui visitato migliaia di pazienti. Il territorio è presidiato, non a caso la pressione sugli ospedali è diminuita rispetto alla prima ondata.

Però la strategia delle cure precoci è ancora, dopo quattordici mesi, un’incompiuta nazionale. I medici di base, con rarissime eccezioni, non mettono i piedi in casa del paziente. Le unita speciali di continuità assistenziale sono un fantasma per lo stesso Ministero della Salute, la medicina di territorio è una terra di nessuno. Non abbiamo imparato niente?

Nella segreteria telefonica dell’ospedale ho lasciato il mio cellulare per i pazienti oncologici, che spesso chiamano per le complicanze. Ricevo ancora messaggi e telefonate di malati di Covid da tutta l’Italia: molti di loro aspettano invano a casa una visita che non arriva e si sentono abbandonati. Il monitoraggio del sistema sanitario è burocratico e difensivo: serve a valutare il colore da attribuire a una Regione e ad aspettare la malattia barricati dentro l’ospedale. Non funziona.

C’è voluta una mozione del Senato, votata alla quasi unanimità l’8 aprile scorso, per certificare che curare subito a casa è un dovere. Che però il servizio sanitario non adempie. È come se, non riuscendo a modificare la sua organizzazione che ha l’ospedale al centro, il sistema abbia teorizzato l’inutilità delle cure precoci?

Temo di sì. Eppure si tratta di una credenza ormai ampiamente contraddetta dalla pratica clinica. Le vittime giovani del Covid sono pazienti giunti all’ospedale dopo dieci o quindici giorni di malattia non trattata. Ma se lei avesse un parente con 38/39 di febbre, tosse insistente e fatica a respirare, gli direbbe di chiudersi in casa con il paracetamolo, aspettando di vedere come va? Cerchiamo di essere pratici. Molti miei colleghi che parlano in televisione non hanno alcun rapporto con i malati. 

Che vuol dire in concreto cure precoci?

All’inizio, quando la pandemia è arrivata, eravamo disarmati. I cinesi, colpiti prima di noi, ci suggerivano due o tre farmaci: l’idrossiclorochina, che oggi si fa fatica anche a nominare ma che era nelle linee guida della società italiana di malattie infettive tropicali, e alcuni antivirali già impiegati contro l’Aids, associati ad antibiotici. Timidamente cominciavano a somministrare l’eparina, ma solo per i pazienti allettati. Così abbiamo curato trecentotrenta persone a casa, ricoverandone meno di venti, due sole gravi e nessun morto. Poi sull’idrossiclorochina è caduta la scomunica di Lancet. Oms e Aifa si sono adeguate. Ma eravamo a giugno, e ci siamo illusi che presto non avremmo più visto un malato di Covid. Non è andata così.

Nella seconda ondata lei ha continuato a usare l’idrossiclorochina?

No, ho obbedito all’Aifa socraticamente. Cioè secondo il principio che i divieti si criticano, ma si rispettano. Ho fatto da consulente per i colleghi che hanno portato quel divieto davanti al Consiglio di Stato, vincendo. Ma nel frattempo sono arrivati nuovi farmaci. L’azitromicina, i cortisonici dopo la quinta o la sesta giornata, quando il paziente comincia ad avere difficoltà respiratorie, l’eparina con più coraggio dall’inizio, e molto ossigeno a domicilio. Ma soprattutto i farmaci antinfiammatori suggeriti dall’istituto Mario Negri e dal professor Fredy Suter, cioè Aspirina, Ibuprofene, Aulin. Che, a differenza del paracetamolo, hanno il potere di scongiurare quella reazione autoimmune chiamata cascata di citochine, che attacca e compromette i polmoni.

Com’è andata?

È difficile fare un confronto. Nella seconda ondata abbiamo contato più ricoveri e qualche morto, ma erano malati diversi. Più anziani e con più patologie. Non c’è ancora uno studio retrospettivo, che categorizzi i pazienti per un confronto scientifico. Purtroppo la medicina offre una garanzia di cura che si basa sugli stadi randomizzati, cioè su evidenze sperimentali testate in situazioni ordinarie. Il Covid era ed è qualcosa di straordinario, che meriterebbe una verifica diretta delle terapie applicate. A maggio eravamo stati coinvolti in uno studio dello Spallanzani a quattro bracci, tre sugli antivirali e uno sull’idrossiclorochina. Ma non è mai partito per difficoltà che definirei burocratiche. Peccato, ci avrebbe dato molte informazioni utili.

Vuol dire che ha rinunciato all’idrossiclorochina, ma non è sicuro di aver fatto la cosa migliore?

Molti colleghi dicono che l’idrossiclorochina non funziona ed è pericolosa, citando pubblicazioni che forse non hanno mai letto. Non mi stupisce. Succede così in tutte le professioni. Spunta uno studio, un collega ritenuto importante lo accredita, e una regola s’impone per conformismo. La maggior parte degli studi che bocciano l’idrossiclorochina riguardano pazienti ospedalizzati, con una malattia avanzata, spesso rimasti a casa sette o dieci giorni prima di essere trattati. Non hanno niente, davvero niente a che vedere con un paziente curato precocemente. Assumere un dato in un contesto clinico e trasferirlo in un altro è metodologicamente sbagliato. Con l’idrossiclorochina è stato fatto.

Non vorrà dire che è accaduto perché la sponsorizzava Trump?

No, anche se Trump e Bolsonaro con le loro grossolanità antiscientifiche non hanno fatto le fortune di questo farmaco. Però mi fa un po’ di specie che gli effetti avversi dell’idrossiclorochina sui malati di Covid abbiano tanto preoccupato la comunità scientifica. La stessa che da anni la prescrive senza alcuna remora come profilassi per la malaria a chi va in vacanza in Africa. Anche se magari ha diabete, ipertensione e pesa centoventi chili. Allora mi viene un sospetto: che l’idrossiclorochina sia un farmaco troppo povero per appassionare.

Non teme di apparire ideologico?

E allora dico in premessa che considero gli interessi dell’industria decisivi per il futuro della ricerca. E che se la Coca Cola avesse un effetto anticovid, sarei il primo a prescriverla. Però so che la messa in commercio di un farmaco passa per uno studio randomizzato di fase di tre. Non esiste uno studio simile che non sia sponsorizzato dall’industria. E l’industria non ha un grande interesse a investire su una vecchia molecola antimalarica. Non a caso non esistono riscontri attendibili sull’uso precoce dell’idrossiclorochina. Aggiungo ai miei dubbi quelli del professor Antonio Cassone, ex direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, uno che sa come vanno le cose: lui fa notare che le riviste più autorevoli non hanno pubblicano un solo report a favore dell’idrossiclorochina, ma lavori di basso livello che la demolivano. Questo per dire che la ricerca è sovrana, l’industria è utile, ma talvolta non sempre l’una e l’altra promuovono l’interesse generale.

La stessa sorte l’ha subita il plasma. Prima elevato a terapia risolutiva, poi scartato senza un chiaro perché.

Gli studi spontanei, opera di medici di buona volontà, non saranno mai così potenti da superare tutti i paletti richiesti per imporre una terapia. E nessuna industria che produca farmaci è interessata a investire sul plasma.

L’industria ha puntato tutto sui vaccini, trascurando le cure?

Non dico questo. La cura, il vaccino, le rianimazioni efficienti giocano tutte per la stessa squadra. Una malattia infettiva richiede una risposta integrata e multiprofessionale. Ma nessuna strategia da sola vince la partita.

Vuol dire che è mancato un governo politico della ricerca?

Il Covid è arrivato tra capo e collo e ci ha trovato impreparati. Non sono un censore per costume, e non vorrei stare nei panni del decisore politico. Non ha avuto vita facile. Non tener conto di questa complessità significa cedere ai teoremi cospirazionisti o, peggio, negazionisti. Non mi hanno mai appassionato.

E invece i teoremi non sono mancati nel dibattito pubblico tra gli scienziati. Quando ci siamo chiesti perché il Covid uccide di più in Italia, ne abbiamo sentite di tutti i colori. Dall’inquinamento al fatto che, essendo più anziani, siamo più malati. Ma i dati raccontano che nella prima fase della pandemia in Lombardia una persona su quattro è morta in casa. E che la mortalità è diversa da ospedale a ospedale, e da rianimazione a rianimazione. Vuol dire che il filtro della medicina di territorio è stato inesistente e che la risposta dell’offerta clinica è stata e continua a essere disomogenea. E allora non puoi non chiederti perché il governo politico della sanità ha rinunciato a mettere insieme le diverse esperienze, a chiamare attorno a un tavolo i maggiori esperti sul campo per condividere una strategia comune. Dopo 115mila morti lei se lo chiede, professore?

Praticamente ogni giorno. Attorno a quel tavolo mancava chi cura i malati. La cosiddetta real world evidence, che in un’emergenza inedita e straordinaria vale più di uno studio randomizzato.

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