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giovedì 4 febbraio 2021

Alessandro De Angelis - I partiti si fanno un film senza aver capito chi è il regista

 


I veti del Pd sulla Lega. La richiesta di continuità di Conte. Le condizioni di Salvini. Si è voltato pagina ma i protagonisti della precedente non ne hanno preso atto.



Prodigi dell’italica politica: adesso il governo Draghi è già in overbooking, come un ristorante alla moda dove ci si vuole accaparrare il miglior posto a tavola. Fuor di metafora: posti di governo. Brutalmente: se ieri la discussione era sul “se” il governo sarebbe mai nato, oggi è il “come”, inteso come perimetro e caselle. Un cambio radicale determinato, più che da un sussulto di consapevolezza del momento, dalla disarmata constatazione che, evidentemente, non c’è alcuna possibilità di opporsi al disegno. Perché dopo Draghi non c’è il ritorno a Conte o qualche formula di piccolo cabotaggio, ma il collasso dell’Italia. Bastava leggere come lo strampalato dibattito nostrano è stato fotografato dai giornali internazionali. Titolo di oggi del Ny Times: “Draghi rischia di diventare ostaggio dei partiti”. Titolo del Washington Post: “Draghi sogno impossibile per una coalizione paralizzata da divisioni e incompetenza”. Punto.

Nasce da questa oggettiva forza delle cose più che dalla potenza della volontà l’accettazione, più o meno convinta, a partire da quella di Giuseppe Conte, arrivata dopo la frenata nei giorni scorsi e vincolando il via libera alla richiesta di un “governo politico”, che garantisca la continuità col precedente. A proposito: il “partito di Conte”, altro tormentone delle scorse settimane, è già sparito dai radar e l’ex premier, di fatto, si è proposto come guida del Movimento e, al tempo stesso della coalizione dei centrosinistra, nel tentativo – o illusione – di tenerla viva nel nuovo quadro garantendola con l’assetto di governo.

Insomma, si è voltato pagina, ma i protagonisti della precedente ancora non ne hanno preso atto in fondo, proiettando un film senza sapere le intenzioni del regista, cioè Draghi. È come se si pensasse che, in fondo, a palazzo Chigi ora c’è una controfigura su cui costruire lo stesso copione. Il che, nel gioco di veti, ambizioni e appetiti, non tiene conto di un fatto politico molto rilevante: l’apertura di una dialettica vera nel centrodestra. Che testimonia anch’esso l’elemento dirompente della proposta di Draghi. E non solo perché il centrodestra andrà separato alle consultazioni, dove Silvio Berlusconi si dirà pronto a un sostegno pieno fondato sulla “discontinuità rispetto al precedente”. La vera novità è il travaglio che si è aperto nella Lega, che nel paese è il primo partito, immortalata dalla icastica dichiarazione di Giancarlo Giorgetti, che in quel partito rappresenta la voce dei produttori e di quel blocco del Nord, concreto, di governo e poco parolaio che giudicherebbe incomprensibile il fallimento dell’operazione: “O si è a favore o contro, nessuna astensione”. Parliamoci chiaro: Salvini è trascinato in un orizzonte che non è il suo proprio dalla sua constituency, intesa come amministratori, governatori, produttori. Nasce da qui la sua dichiarazione di disponibilità, sia pur condizionata a un disco rotto sull’immigrazione e a veti rispetto alla presenza di Beppe Grillo.

E allora, la situazione è questa: ci sono due partiti nel centrodestra che, con accenni diversi, possono votate la fiducia, a patto che, dopo mesi di aspro contrasto, ragionevolmente il governo interpreti una discontinuità. E ci sono gli attori della ex maggioranza, a partire dal Pd che pongono veti sulla presenza della Lega, con l’eccezione di Berlusconi, a patto che faccia come Ciampolillo, correndo in soccorso a un governo concepito come una sorta di quello che c’era prima. Il che si può anche dire così: i protagonisti di una crisi di sistema, che non hanno guidato la risposta anzi l’hanno subita, perché Draghi è stato indicato come extrema ratio dal capo dello Stato e non dai partiti vogliono mettere una camicia di forza al nuovo governo. E l’affollamento odierno, neanche tanto sorprendente, testimonia che si può passare da una formula all’altra ma l’unico eccitante è sempre la prospettiva di posti nella tolda di comando, con ministri buoni per tutte le stagioni.

Perché il punto è questo: Draghi non ha il mandato di costruire un governo sulla base di una formula politica, meno che meno di una maggioranza collassata e di un’opposizione anch’essa collassata perché buona a urlare “al voto al voto” fino due giorni fa, ma solo (si far per dire) un governo all’altezza, in grado di fronteggiare l’emergenza. Logica vuole che, in assenza di richieste equilibrate, l’unica possibilità sia un governo tecnico o istituzionale che dir si voglia che si rivolge al Parlamento nel suo insieme, mettendo tutti sullo stesso piano e prospettando una risposta di alto profilo. Ed è evidente che più è larga la maggioranza più cala il tasso di “politicità” e aumenta quello di “tecnicità” se i leader non interpretano quello spirito che in Germania rende possibile la formazione di Grosse Koalition politiche. Se Draghi vuole avere l’ambizione di guidare una risposta che parli al mondo, all’Europa, affrontare la crisi di sistema inevitabilmente non potrà concepire il suo governo come un ter del precedente. Al momento ognuno sembra considerarlo come una Gioconda di Leonardo che, da qualunque parte la guardi sembra che ti guarda. In verità la Gioconda non guarda nessuno, perché ha un altro orizzonte.  

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