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mercoledì 2 dicembre 2020

Roberto Pecchioli - Il proibizionismo progressista:" Comandare è meglio che fottere, dice il proverbio". Ci scusiamo per l’espressione tutt’altro che elegante!

Andrea Romano e Davide Faraone

dal blog di    

 

di Roberto PECCHIOLI

Comandare è meglio che fottere, dice il proverbio. Ci scusiamo per l’espressione tutt’altro che elegante, ma quando ci vuole, ci vuole. Non sono passate che poche ore da dichiarazioni violentemente intimidatorie di un deputato progressista, il renziano Davide Faraone contro i famigerati “negazionisti” del virus, nemici del sacro vaccino, che ci sono ricascati. “Chi ha dei dubbi sul vaccino Covid verrà zittito, non avrà diritto di parola, non scherziamo più”. Parole e musica di Andrea Romano, esponente del PD che svolse i suoi studi giovanili in Russia, pardon Unione Sovietica.  Noblesse oblige. Evidentemente, la mascherina, simbolo del coronavirus, ha il potere di scatenare i veri istinti del lupo progressista “de sinistra”. La fragile protezione antivirus detta DAP (dispositivo di protezione individuale), agisce come il carnevale di ieri, il tempo in cui, protetti dalla maschera, una volta l’anno tutti dicevano quel che pensavano davvero.

Benedetto il maledetto Covid 19 se, dietro la maschera postiche della tolleranza e della libertà, avrà mostrato la nuda verità dei progressisti. Indignati perché l’umanità è fatta di legno storto (Kant), non trovano di meglio che proibire, vietare, minacciare. E’ per il nostro bene, anche se noi, cocciuti, ci ostiniamo a negarlo. Nel piacere di comandare – che ha indubbiamente risvolti erotici, come sa la saggezza popolare – vi sono due elementi che l’emergenza sanitaria ha enfatizzato: il dominio sull’Altro e il brivido di poter imporre divieti. Quanto è lontano il Sessantotto dai suoi figli e nipoti: allora si esigeva che al potesse salisse l’immaginazione, oggi sostituita dalla Scienza e dai nuovi sciamani chiamati esperti. Si odiava l’autorità al grido di “vietato vietare”. Mezzo secolo dopo, il divieto si è trasformato in totem indiscutibile.  Come i serpenti, hanno cambiato pelle, ma il morso è sempre velenoso. Chiamiamola dittatura sanitaria, ossessione per la sicurezza, ansia di controllo, ma fatto sta che il proibizionismo in salsa progressista si è disvelato. Il re non è nudo: ha solo cambiato costume di scena.

Oggi prevale la gioia selvaggia e primordiale di vietare, strana involuzione dei cittadini civilizzati, progrediti, riflessivi, pacifisti. Si dice che un regime libero si distingue da uno dittatoriale proprio dai divieti. E’ libera una società in cui è permesso tutto ciò che non è esplicitamente proibito, non lo è quella in cui è vietato tutto ciò che non è espressamente permesso. Il proibizionismo progressista si differenzia da altre forme di totalitarismo per una specificità assai singolare: il suo moralismo, invertito, ma sempre rancoroso, ottuso, stucchevole, cupo. Il proibizionista progressista somiglia a certe vecchie zie di una volta, signorine attempate e un po’ inacidite, presenti quasi in ogni famiglia, custodi non della morale, ma del conformismo. In genere, rappresentavano la morale della favola di Esopo della volpe e dell’uva. Affermavano di disprezzare – dunque cercavano di proibire con le sopracciglia aggrottate e l’indice alzato – quello che non erano riuscite a raggiungere. Fortunatamente, gli interdetti delle buone signorine erano in genere limitati alla sfera sessuale, ma fortissimo era il senso di invidia e di frustrazione che diffondevano.

Uguale è l’attitudine psicologica dei progressisti, che in cuor loro odiano le libertà, quelle concrete, plurali, e amano una loro particolarissima libertà che consiste nell’odio per tutto ciò che si eleva, guarda in alto, revoca in dubbio le loro granitiche certezze di cartapesta. Niente dà loro più gioia che proibire le idee e il pensiero libero. Certo, hanno bisogno, per placare il loro moralismo d’accatto, di una buona causa, di una motivazione forte. Il virus ne fornisce una a prova di bomba: l’ossessione per la sicurezza individuale prodotta dalla paura, dal terrore della morte. Il governo in carica, quintessenza di ogni ubbia progressista, pare voglia persino limitare il pranzo di Natale, stabilendo il numero massimo di partecipanti. Dicono di essere preoccupati per noi, per il nostro bene, ma in realtà detestano le famiglie, la vicinanza comunitaria, l’amore disinteressato, la civiltà di cui il Natale è simbolo. Vogliono separare: le generazioni, le comunità, le famiglie, i sessi, pardon i generi, per dominarli meglio. Il termine diavolo viene dal verbo greco “diaballo”, separo, disgrego. Meditiamo, qualche volta, sulle parole.

Non sono soli: una colta monaca, suor Alessandra Smerilli, docente alla Pontificia Università Auxilium, indubbiamente anch’essa progressista e certo animata dalle migliori e pie intenzioni, approva la rinuncia a festeggiare il Natale. “Non voglio sminuire l’importanza del Natale (intanto lo fa, N. d. R.), ma esiste un bene più grande”. Un bene più grande!  Dev’essere la sopravvivenza biologica, alla quale suor Alessandra non dovrebbe tenere più che all’anima sua. Prosegue, la campionessa del proibizionismo progressista in versione clericale, proponendo, per quando “sarà finito tutto questo, una festa nuova, la festa dell’incontro”. Ecco la chiave di tutto: una “festa nuova”, dedicata all’ “incontro”, un’altra delle parole multiuso che non significano nulla e tanto piacciono a sinistra. La novità soppianterà il Natale, così antiquato, così assertivo, poiché chi nacque si proclamò Redentore e addirittura “via, verità e vita”. Ohibò, meglio insistere sul carattere (falso) di migranti della sacra famiglia, che invece andava soltanto a rispondere al censimento dei romani.

Impressionano anche i toni apocalittici, grondanti un’indignazione inestinguibile, utilizzati dalla triste compagnia proibizionista per vietare lo sci e gli sport invernali.  “Irricevibile” è la burocratica liquidazione del democratico Orlando, ex ministro di Giustizia, “assurdo”, eccetera. Strano che non sembri così assurdo ai governi nostri confinanti, orientati a consentire le attività sportive e turistiche alpine. Non sappiamo giudicare il torto e la ragione in termini di contrasto al virus, ma fa specie la soddisfazione voluttuosa che traspare nel dire di no, nel vietare un’attività ludica che è anche un importante volano economico. “Consentire”, preceduto dalla negazione, è il verbo che dovrebbe far orrore a quelli di “vietato vietare”, ai libertari di tutta vita. Loro consentono o non consentono, ovvero vietano, con gioia non più celata. Indossata la mascherina, hanno gettato la maschera. Come sempre, vogliono lo Stato padrone, giudice, pedagogo, vigile urbano, caporale di giornata, ovviamente se diretto da loro. Lanciano anatemi contro lo Stato etico, ma appena possono lo realizzano con lena sorprendente: basta invertire l’etica e il gioco è fatto.

Pare proprio che vivere, reagire alla durezza dei tempi, essere liberi di agire, scegliere, fare comunità, tentare addirittura di divertirsi e- per i tanti addetti dei settori economici interessati – lavorare, impegnarsi, sia il nuovo peccato mortale. Un peccato inestinguibile, da punire a giudizio insindacabile del tribunale “morale” del nuovo Buon Costume proibizionista. Viene in mente il successo travolgente del monaco Savonarola, nella gaia, ricca, corrotta Firenze medicea, fustigatore dei costumi dissoluti dei cittadini in nome di un Dio corrucciato. I suoi seguaci, i Piagnoni, organizzavano periodici “falò delle vanità “in cui bruciavano i simboli del lusso, ma anche dell’arte e della bellezza. Sandro Botticelli, piagnone convinto, vi distrusse alcuni suoi capolavori. Il frate ferrarese, per un periodo padrone della città, terminò i suoi giorni sul patibolo, arso a sua volta dagli stessi fiorentini.

Il sinistro proibizionismo di oggi sembra la variante postmoderna della “morale degli schiavi” denunciata da Nietzsche. Perché (soprav)vivere? Solo perché è un istinto primordiale, al quale l’uomo contemporaneo sacrifica tutto. L’unico diritto rimasto agli animali nella tana è avere paura. Nella caverna, ci condanniamo a vedere ombre e chiamarle realtà. Siamo talmente condizionati che invochiamo la gabbia, la occupiamo volontariamente sperando che arrivi il vaccino, nuovo Messia, e ci liberi attraverso il potere misterioso della Scienza. Il dissenso è una malattia. Medicalizzata l’intera vita, alla mercé di interessati stregoni a tassametro, la Scientologia globale non può che considerare una patologia non pensare come è prescritto, anzi come pare ovvio.

In Alto Adige, dove hanno realizzato un controllo di massa della popolazione ed è risultato positivo al Covid 19 meno dell’uno per cento della popolazione, alcuni bambini non sono stati ammessi a scuola in quanto non sottoposti all’indagine. Criterio crudele, violento in quanto non dichiarato preventivamente, prova evidente del futuro che ci attende. Un gregge che non può opporsi né obiettare, sotto pena di punizione ed esclusione sociale. Non è lontano il momento in cui invocheranno e otterranno non solo la segregazione, ma la cura psichiatrica, il TSO obbligatorio per chi non è d’accordo. D’altronde, come è possibile dubitare di vivere nel migliore dei mondi possibili?

Apre la strada un sopravvalutato “venerato maestro” di servizio, il filosofo Umberto Galimberti, per il quale i “negazionisti “(l’etichetta bugiarda, spregiativa, liquidatoria e sottilmente criminale appiccicata ai dissidenti) sono pazzi “deliranti”. I manicomi saranno forse riaperti, con buona pace di Franco Basaglia e della sua antipsichiatria, ma è- come dubitarne- necessario per la buona causa del progresso. La creazione di una sorta di terrore sanitario è il grimaldello per scardinare le libertà individuali e stringere le maglie del controllo sociale in nome di un’equivoca “biosicurezza”. E’ la tesi della coraggiosa saggista Enrica Perucchietti, sulla scia di affermazioni di Aldous Huxley in Ritorno al mondo nuovo, relative alla dittatura “dolce”, fondata sulle risorse farmacologiche della psichiatria, arma decisiva per piegare le menti.

Impressionano per lucidità le riflessioni di un intellettuale considerato di estrema sinistra, ma espulso nell’anno del virus dalla confraternita del Bene e del Giusto per le sue idee libere, Giorgio Agamben. Probabilmente già sospetto agli occhi della polizia del pensiero per aver lavorato per decenni a un’opera complessiva dal titolo Homo Sacer, il pensatore romano ha osato affermare che scopo del potere è rubarci l’anima e ridurci a macchine con la scusa della salute. Sia predisposto per lui il rogo che chiuse l’avventura di Gerolamo Savonarola. In un libro pubblicato da una piccola casa editrice- il destino dei reprobi – Agamben considera il virus prova e simbolo del naufragio della civilizzazione europea. “I naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo, soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria”.

Un autoritarismo di risacca, senile come la società ingrigita e terrorizzata. E’ come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto, e controllarla con ogni dispositivo, poliziesco, medico e tecnologico. Ma uomini ridotti alla pura esistenza biologica, circondati da obblighi e proibizioni, “non sono più umani; governo degli uomini e governo delle cose coincidono”. L’ansia del controllo, la dimensione meramente tecnica della vita e del potere rivelano una debolezza complessiva, nascosta sotto il velo della moralità invertita che vieta e insieme provvede, o crede di farlo. Vieta chi si sente debole, impotente ed arriva a fondare l’obbligo della paura, una terribile inversione della virtù del coraggio, che ha permesso all’uomo di affrontare e vincere grandi sfide.

Impressionano le priorità, nel proibizionismo invertito. Il fumo e l’alcool sono oggetto di campagne mondiali che ne svelano giustamente i pericoli, ma non vi è uguale severità nel condannare la droga, le pasticche, l’abuso di farmaci, la dipendenza dal gioco o dal sesso. Nel tempo degli “eventi”, è guardata con sospetto la semplice vicinanza tra esseri umani. Il divieto di assembramento ha aspetti grotteschi. Da un lato, l’’occhiuta sorveglianza, con annesso diritto (dovere?) di delazione a carico  di innocui gruppetti di familiari e amici, dall’altro l’indifferenza per autobus strapieni, file disordinate davanti a farmacie e pronto soccorso, calche scomposte di stranieri. Rispolvereranno il reato di adunata sediziosa, e non sarà altro che il naturale esito della repressione del dissenso, diventato crimine o prova di disturbo mentale.

L’antico paternalismo autoritario si trasforma, nel divieto moralistico progressista, in abuso del potere che richiede cieca sottomissione e usa le armi onnipotenti della sorveglianza di massa, in nome del pregiudizio scientista.  Si diffonde un totalitarismo dei cosiddetti “buoni sentimenti” di un cittadino medio pauroso, gregario, disciplinato, disposto a tutto pur di prolungare l’esistenza in vita biologica. Per che cosa vivere, se valga la pena la penosa sopravvivenza di servi volontari è vietato chiederselo, ed è forse la proibizione più tragica, ancorché favorevolmente accolta dai più. I forzati del progressismo proibizionista diventano i fedeli cani da guardia del potere, i persecutori più instancabili e convinti di chiunque dissenta o esprima dubbi.

Il presente mostra già tratti di psico dittatura: uno Stato etico salutista che punisce, come e più di Dio, “pensieri, parole, opere e omissioni “e vuole convincere che i nuovi presunti peccati sociali sono commessi per “mia colpa, mia grandissima colpa”. Il passo successivo è la supplica a essere riaccolti in società, attraverso l’espiazione e la rieducazione. Ogni divieto ha bisogno di una giustificazione etica: ecco dunque la trasvalutazione di tutti i valori (Umwertung aller Werte) da parte di un’umanità che ha risolto l’alternativa posta da Friedrich Nietzsche. Non più corda tesa tra la bestia e l’Oltreuomo, ma specie tremebonda impegnata nell’ impresa di sopravvivere biologicamente, qui e adesso, ignara di ogni Oltre, dimentica della trascendenza. Ultimi uomini che ammiccano e non conoscono altra verità, altro linguaggio, altro approccio con la realtà che quello delle ombre proiettate dal potere sul muro della caverna. Quel potere che diventa moralistico, proibizionista, grettamente conformista in quanto non sa più neppure concepire di pensare altrimenti. Anche in questo, aveva ragione l’uomo di Sils-Maria: dove il moralismo (invertito o meno) è troppo forte, l’intelletto perisce. Il moralismo d’accatto porta proibizioni, tabù, interdetti. “Coloro che danzavano, furono giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica “(Così parlò Zarathustra).

Il proibizionismo progressista non è diverso dagli altri: è solo più ipocrita, giacché finge di liberare coloro che chiude in gabbia. Chiama progresso il degrado e crescita il declino.  Appare per placare il bisogno dell’uomo di avere un destino, dopo averlo svuotato di contenuto spirituale. Vieta perché non sa più convincere. E’ nemico della libertà in quanto ostile alla vita, agli istinti naturali, al dispiegarsi del pensiero, della volontà, delle ambizioni, degli obiettivi. Soprattutto, l’odio per la libertà è figlio di una tenace ansia di uniformità che ci vuole piccoli, a taglia unica, rannicchiati, imploranti, pronti a leccare la mano che impugna la frusta. Va ritorto contro di esso l’imperativo di mezzo secolo fa: vietato vietare senza autorità, autorevolezza né tempra morale.

Il moralismo progressista raddrizza il legno storto della natura umana, crede di sapere tutto, giudica e decide per tutti dimenticando la parabola di Gesù. “Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. (Matteo, 7,2-5). Ci vuole nichilisti e terrorizzati dal nulla. Offre, in cambio di obbedienza e silenzio dell’anima, un’inutile protezione. Il suo ridicolo vanto è aver creato “specialisti senza spirito, sensualisti senza cuore; nullità che immaginano di avere raggiunto un livello di civiltà mai raggiunto prima “(Max Weber).

 

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