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lunedì 2 novembre 2020

Alessandro De Angelis x HuffPost - Elogio dell'impotenza. L'affannata rincorsa di Conte, in un piano inclinato di dpcm usa e getta verso il lockdown

 

ANSA

Il bollettino di guerra di lunedì 2 novembre recita così: “In ragione di queste sopravvenute evenienze (l’aumento dei contagi, ndr), si è reso necessario un nuovo corpus di misure restrittive. Per questo ho chiesto di poter anticipare già ad oggi queste mie comunicazioni affinché il Parlamento possa esprimersi prima del nuovo provvedimento”. Così Giuseppe Conte alla Camera, per illustrare il 23esimo dpcm dall’inizio della pandemia, quarto dopo le baldorie estive, meno di tre settimane da quello del 13 ottobre che prevedeva solo l’obbligo universale delle mascherine, prima dell’alata discussione sulle palestre della settimana successiva e sui bar solo giovedì scorso. Giovedì scorso, non un’eternità fa, quando la curva dei contagi non era cosi dissimile da oggi.

È la fotografia di una affannata rincorsa degli eventi, in questo piano inclinato di provvedimenti “usa e getta”, accompagnato dalla sensazione che ogni atto sia già superato dai fatti. Un lento scivolamento verso la misura più estrema, il lockdown, che nessuno, non solo l’Italia, si può permettere, ma che rischia di essere l’unica soluzione in un quadro ancor più estremo.

Si parva licet componere magnis, Churchill, paragone che andò di moda in una fase di questa crisi, alla Camera dei Comuni, proprio nell’ora più buia, osò. Perché è nella fase più drammatica che un leader comprende che non bastano i numeretti e i report ministeriali ed è lecito, oltre che necessario, scartare rispetto all’ordinario. Paragone ingeneroso, forse troppo. Però è davvero troppo poco questo copione già visto, in base al quale il premier va in Parlamento a cose grosso modo fatte, se non fosse che si deve attendere l’ultima lite con le Regioni per sapere se il coprifuoco è alle 21 come pare o alle 18, e in attesa del prossimo provvedimento che muterà ancora una volta l’orario, tra un’ordinanza di Musumeci, un’intemerata di De Luca e un’improvvida dichiarazione di Toti. 

 

La spiegazione è affidata non a un discorso di verità, ma a un elenco di numeri, tamponi, gli indici Rt e ai “21 parametri”, gelido riflesso burocratico che disvela l’assenza di una visione, anima, uno straccio di messaggio da dare al paese al di là di una comunicazione prefettizia su ciò che è consentito e ciò che non è consentito. Un po’ di politica, insomma. Anche l’appello all’opposizione, quella tensione unitaria auspicata e invocata dal capo dello Stato, si riduce a una comunicazione di servizio piuttosto scarna. Questa: “Ho prospettato ai leader dell’opposizione un tavolo di confronto con il governo. Al momento questa proposta è stata rifiutata, se ci fossero ripensamenti la proposta del governo permane immutata”.

Parole che sollecitano la voglia di rispolverare i vecchi manuali, dove si spiegava che “l’unità” non è una trovata retorica, ma un fatto politico e culturale, una paziente costruzione, che si costruisce partendo dall’ammissione dei propri limiti, perché solo ammettendo le proprie responsabilità si può costruire un rapporto diverso con gli altri, rendendone evidente, come nel caso dell’opposizione nostrana, la chiusura strumentale dentro una rendita di opposizione. E anche la contraddizione dei federalisti nostrani a la carte, che riscoprono il centralismo in tempi di pandemia quando le regioni devono assumersi le responsabilità.

Invece, come spesso accade, il cosiddetto nuovo che avanza assomiglia tanto alla vecchia politica per cui le colpe sono sempre del destino cinico e baro, non delle scelte soggettive. E allora sarà colpa di confusione di calendario se il 2 novembre, giorno dei morti vengono annunciate con una certa enfasi misure che andavano annunciate il 2 giugno, giorno della festa della Repubblica, come i tracciamenti e l’accordo con i medici di base.

Ecco, come spesso succede, tutti i nodi arrivano al pettine di un equilibrio in cui il Governo è troppo debole per avere una visione nazionale e troppo forte per essere sostituito, complice anche il vuoto politico delle opposizioni. È dentro questa condizione paralizzante che il rapporto con le Regioni è precipitato nella confusione istituzionale in cui non si capisce il chi e il come si decide. Viene fatto adesso quel che si doveva fare a marzo, quando si chiuse l’Italia invece di procedere per lockdown mirati perché oggi “chiudere” è impopolare, e i governatori, soprattutto i fan dell’autonomia, riscoprono il centralismo. Il cosiddetto modello italiano è diventato la paralisi di sistema

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