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mercoledì 26 agosto 2020

Pietro Salvatori x Huffington Post - Referendum, i ribelli del No

 Agf

Partito per partito, nome per nome, tutti quelli che si oppongono ai diktat dei capi.


C’è una questione tutta di Palazzo, o forse no, quella per cui come sgranando un rosario man mano che ci si avvicina alla data del referendum sul taglio dei parlamentari il fronte compatto del Sì perde un pezzetto dopo l’altro, con le fila del No che si ingrossano, che fanno rumore anche se son soprattutto perché in dissenso con i leader, con la linea del partito, che a sentire le segreterie centrali dovrebbero tutti essere granitici sostenitori della sforbiciata.

Il povero Nicola Zingaretti viene sommerso da commenti tra l’irridente e l’indignato quando su Facebook pubblica un estratto della sua intervista sul Corriere della sera, in cui dice Sì, ma prima la legge elettorale in uno dei due rami del Parlamento, che già di per sé sarebbe una posizione deboluccia e per di più non si capisce bene cosa succeda in caso contrario

. Sarebbe bastata l’ultima tribuna elettorale andata in onda nel pomeriggio Rai la scorsa settimana, nella quale a due esponenti per il No si sono contrapposti due scranni vuoti, destinati a esponenti di Pd e M5s, a capire che l’aria nel paese continua a brandire le forbici, anche se via via con entusiasmo calante, mentre in maggioranza va in scena uno psicodramma.

In attesa di una Direzione del Nazareno che si preannuncia dirimente, come tutte le Direzioni che poi non lo sono, un buon pezzo dei Dem fa spallucce. E campagna per il no. Matteo Orfini non ha mai nascosto la sua contrarietà, e la pattuglia dei Giovani turchi lo segue convintamente, da Giuditta Pini a Fausto Raciti, da Francesco Verducci a Chiara Gribaudo. Gli fanno compagnia i senatori Vincenzo D’Arienzo e Tommaso Nannicini (che ha dato vita al comitato “Democratici per il No”), come anche le onorevoli Vincenza Bruno Bossio e Angela Schirò. Laura Boldrini, già presidente della Camera, è dello stesso avviso, e con lei tutti gli ex compagni di Sinistra italiana, capitanati da Nicola Fratoianni, da subito attestatisi sulla ridotta. “Vediamo che succede quando ci riuniamo ai primi di settembre - chiede un fautore del No che non vuole ancora scoprire la carte - ma come me, in disaccordo ma in silenzio, c’è almeno mezzo partito, compreso un ministro e esponenti di governo”.

Se nel campo Democratico il totonome è esercizio che avvince i peones, nel Movimento 5 stelle si rasenta la caccia alle streghe. Già, perché anche da quelle parti si avvertono scricchiolii e scartamenti di lato. Ma la testa è bassa, e si cerca di rimanere fuori portata dei radar, forse per evitare il trattamento ricevuto da Andrea Colletti. Il deputato alla seconda legislatura fa campagna solitaria per il No, kamikaze sulla portaerei del grillismo, falcidiato dalla contrarea dei commenti che lo invitano, edulcoriamo, a levarsi dalle scatole se non vuole votare uno dei dogmi del partito, mentre lui ostinato non molla: “Questa riforma è stata pensata poco e male”. In pochi hanno avuto il coraggio di seguirlo, tra questi la collega Elisa Siragusa, che non si è persa in sofismi: “Ridurre la rappresentanza parlamentare per risparmiare un caffè all’anno non ha senso”. Con lei la sarda Maria Lapia che spiega “da giurista” che la riforma ”è un taglio alla rappresentanza, con Regioni che saranno fortemente penalizzate. Una riforma realizzata senza motivazioni strutturate”. Sardo anche Andrea Vallascas, che condivide le ragioni del No, mentre Doriana Sarli e Jessica Costanzo sarebbero fortemente dubbiose. Al Senato dubbi segnalati anche per Mattia Crucioli, mentre sul fronte del No secco sarebbe Tiziana Drago, “ma almeno altri tre senatori 5 stelle mi hanno assicurato che voteranno No”, dice uno dei promotori del referendum.

Italia viva è tra i partiti meno convinti della crociata, e in chiaro si sono già espressi la senatrice Laura Garavini e i deputati Massimo Ungaro e Gianfranco Librandi. Chi convinto non è per niente è Forza Italia. Qui l’elenco dei sostenitori del No potrebbe superare quello avverso: c’è la capogruppo a Palazzo Madama Anna Maria Bernini, i senatori Lucio Malan e Giuseppe Moles. Spostandosi a Montecitorio l’elenco si allunga: Renato Brunetta, Simone Baldelli, Giorgio Mulè, Deborah Bergamini, Renata Polverini. Il promotore del referendum Andrea Cangini aggiunge: “Noi parliamo anche con i colleghi di Lega e Fratelli d’Italia. C’è una larghissima maggioranza per il no, lo vedono come un errore politico, come un’occasione persa, ma lì prevale la disciplina di partito”. Nel Carroccio ha rotto il silenzio con un’intervista a Huffpost l’influente Claudio Borghi, per ora in solitaria. In molti accreditano anche un Matteo Salvini poco convinto della strada intrapresa, praticamente tutti segnalano un Giancarlo Giorgetti inabissatosi, “perché se parlasse lui verrebbe fuori un bel casino”.

In area meloniana lo scorso 20 agosto Guido Crosetto twittava così: “Il referendum si sta caricando di significati superiori al taglio del numero dei parlamentari. Quasi fosse una linea di demarcazione tra due modi diversi di considerare, la Politica, le Istituzioni, lo Stato. Forse anche chi ha votato la legge dovrebbe ripensarci con calma”. Oltre non è andato, anche se lo scorso settembre rivolgeva un appello agli estensori della sforbiciata: “Vi prego, fermatevi a riflettere. Senza casacche, senza interesse personale”. Un altro big del partito a nutrire forti perplessità sarebbe Raffaele Fitto, ma non è il solo, anzi. Un sottobosco che stenta a innalzarsi perché da quelle parti gli ordini di scuderia e la fedeltà alla linea sono ancora una cosa seria, forse anche fin troppo seria.

Un rosario di distinguo al quale sono pronti ad aggiungersi altri grani. Forse troppo poco per cambiare l’inerzia per il Sì nel paese. Di sicuro abbastanza per capire come un fronte monolitico non esiste e non è mai esistito. Nemmeno quando il 90% di un Parlamento plaudente schiacciava il pulsante del Sì alla riforma, timoroso di essere travolto dai ruggiti dell’anticasta.

 

 

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