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venerdì 12 giugno 2020

MAURIZIO BLONDET - “Stati Generali” – Insulto a un (ex) popolo




   


Accettare che Conte chiami “Stati Generali” il raduno che ha indetto  il pugliese con la sua junta,  è segno insieme di impostura, di ignoranza profonda di cultura politica, per tacere della cultura generale.
Gli Stati Generali che Luigi XVI chiamò nel 1789,  erano la convocazione di un Parlamento;  il contrario esatto  di quello “convocato” dal  piccolo Ceausescu pugliese fra gli applausi mediatici, partitici  e l’approvazione del Colle :    che è un ricevimento ad inviti, senza alcun mandato deliberativo, e  nemmeno consultivo.
Gli Stati Generali si chiamavano così perché erano la chiamata dei tre ceti (clero, nobiltà, terzo stato) ai  quali il governo doveva chiedere aumenti delle imposte per risanare le sue finanze disastrose.  Non erano stati convocati da 170 anni, perché se ne conosceva  la tendenza – tradizionale  – antagonista rispetto all’esecutivo,   la forza della sua legittimità che limitava le prerogative regie....
I delegati  degli Stati Generali erano infatti eletti per voto  generale, ancorché per ceto e  con particolarità a volte cervellotiche: nel clero ad esempio i monaci ebbero un voto per ogni convento, mentre i canonici uno per ogni gruppo di dieci; e quest’assurdità non veniva, come si può credere, dalla tradizione medievale; al contrario, era  una novità:  “il regolamento del 24 gennaio  emanato dal Consiglio (regale) che sconvolse l’ordinaria procedura  di convocazione per sostituirla con un sistema complicato che diede ad ogni partito l’impressione di essere danneggiato” (Gaxotte).
Ma tuttavia, il guardasigilli del re, Barentin, istruì i funzionari locali di “non permettersi in alcun modo di intervenire per forzare la libera scelta ai votanti”.  I 1100 e passa rappresentanti che vennero a Versailles  ad aprile, erano dunque stati davvero liberamente  eletti, circoscrizione per circoscrizione;  e coscienti  di essere davvero “rappresentanti” ,  consapevoli della forza di tale  legittimità.
Solo che nel parlamento così convocato,  così nuovo, si votava per ceto e non per testa: ogni ceto si riuniva a parte; tre voti, uno per ogni “stato”. Poiché clero e  nobili – che erano anche quelli “privilegiati”, godenti di esenzioni medievali fiscali,  avevano  comuni interessi e potevano mettere in minoranza il Terzo Stato, i delegati di questo – notai, avvocati di provincia, Robespierre, il grandioso Mirabeau   –  chiesero subito di votare “per testa” (il loro numero era pari a quello dei rappresentanti de due stati primi) ; gli altri tirarono in lungo, in discussioni concludenti.
“Il 10 giugno il Terzo Stato, stanco di chiedere il voto per testa e la verifica in comune dei poteri (ossia la riunione plenaria di tutti i rappresentanti), si proclamò Assemblea Nazionale; il clero s’erano unito (a debole maggioranza) al movimento;   il 20  trovata chiusa e guardata dai soldati la sala delle deliberazioni, si adunò in quella destinata al gioco della pallacorda, e giurò di non sciogliersi prima d’aver votato la Costituzione.  Il re mandò un debole ordine, di tornare a riunirsi per “stato”.  Mirabeau, a nome della Costituente appena creata, rifiutò; poco dopo si unirono ai ribelli 47 aristocratici  capeggiati dal duca d’Orléans”.:  ormai la ribellione aveva la forza della  legittimità di rappresentare l’intera nazione. Mirabeau, il genio politico,  voleva salvare la monarchia, rendendola costituzionale. Ovviamente la corte non capì, e andò incontro al suo destino.

Obeso, butterato, dominava l’assemblea con la sua voce tonante e il suo acuto senso delle soluzioni  politiche da adottare. A Robespierre  disse un giorno: Giovanotto,  non prendiamo l’esaltazione dei princìpi per la  sublimità dei principii”.

Il potere parlamentare passò da  Mirabeau, “che non s’era mai dato il diritto di ritardare la sua azione pubblica per preservare la sua onestah privata”,   al portere dell’Onestah onestah,  dell’Incorruttibile per eccellenza, “alla sua metafisica e ai suoi inutili crimini”  nati dalla mediocrità “morale”.
Oggi, in Italia, con gli “stati  generali”, un ex-popolo senza dignità civile  si lascia espropriare dei suoi diritti politici,  da imbelle   baratta  la forza della sua legittimità per paura  di una malattia in enorme parte immaginaria, si lascia insultare da aedi che  prescrivono alla “opposizione” di unirsi a quel ricevimento ad inviti, che dovrà “dare delle idee”.
Violazione più radicale delle istituzioni democratiche non posso immaginare, ed  è in corso impunemente. In qualche modo,  sotto i nostri occhi, avviene il contrario del giuramento della Pallacorda  del 1789.
E’ l’applicazione del  principio orteghiano:  il barbaro interno non civilizzato  vive nella civiltà come se fosse la natura primigenia,   che gli regala i suoi frutti  senza coltivo; non capisce che i benefici di essa  – la  tecnica, la medicina, il diritto,  le forme della politica –  sono il risultato di una storia, di una crescita di cultura nei secoli: storia che l’ex popolo non conosce e di cui si sente estraneo, come ogni vero extracomunitario.  Questo dicono l’abbattimento delle statue in altre parti del mondo, dove i neo-barbari mantengono almeno l’energia fisica per farlo: non apparteniamo a questa civiltà e alle sue conquiste duramente guadagnate col sangue.
Ma “nello storia, è  la vitalità delle nazioni che trionfa, non la perfezione formale degli Stati” (Ortega y Gasset).   Si tratta  di vedere se i rivoltosio vegani e Antifa sapranno fare la querta rivoluzione anglosassone. Perché  ha ragione Meyssan a vedere che “la cultura anglosassone ha provocato tre guerre civili [3]:
– la prima guerra civile inglese,  quella di Cromwell, che  portò a decapitare il primo re  in Europa, Carlo I (1642-1651);
– la seconda guerra civile inglese, o Guerra d’Indipendenza americana (1775-1783);
– la terza guerra civile anglosassone, o Guerra di secessione americana (1861-1865), con 600 mila morti  e non sarebbe finita, se “il generale Lee, non si fosse rifiutato di  continuare la guerriglia dalle montagne, scegliendo l’unità nazionale”
In Italia, un ex popolo di tatuati   aspiranti alla movida del sabato , non sa nemmeno che cos’è il meraviglioso artefatto chiamato “civiltà”, in cui vive; non si sente dunque impegnato alla sua manutenzione, non prova solidarietà né responsabilità per  la sua continuità. Senza carattere e senza volontà, lo  sganghera  mentre lo consuma e lo rovina,  si incretinisce, né studia né lavora e spera nel reddito  parassitario di cittadinanza,  nelle elargizioni dei Ricchi di Stato che lo svendono agli stranieri.    Elargizioni che presto finiranno, essendo a debito, pagate in una valuta troppo forte per chi non se la guadagna.
Fra pochi anni, l’italiano come lo conosciamo,  abitante in abituri tribali, tatuato e con orecchini,  perennemente affamato, idiota,  sarà la dimostrazione perfetta che i selvaggi non sono dei primitivi, ma dei  degenerati – degradati, scesi al disotto del livello di antiche civiltà cui, un tempo appartenevano.---

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