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giovedì 16 aprile 2020

Alessandro De Angelis x Huffington Pot - Qualcosa si è rotto...

Giuseppe Conte, attending a press conference at Chigi Palace in Rome, Italy, 10 April


Quella sul Mes è una tregua apparente. Una crisi politica strisciante incombe sull'emergenza. I 5 stelle temono la manovra Vittorio Colao per disarcionare Conte. Al Nazareno si evoca la parola "voto" per il governo che ricostruirà il Paese.


Perché è chiaro che è solo una tregua apparente, quella raggiunta sul Mes: il classico tentativo di rinvio in vista del Consiglio europeo, finché poi in Parlamento arriverà l’ora del giudizio. Ecco perché serpeggia una certa inquietudine, mal celata nei ragionamenti non ufficiali di parecchi ministri del Pd: “Conte – dice uno di loro - prova a farla marcire finché riesce, ma il problema è che questo sta diventando un metodo e così marciamo tutti, di non decisione in non decisione”...


Quel che sta accadendo è che, per la prima volta da agosto, qualcosa di profondo si è incrinato nel rapporto tra il Partito democratico e il presidente del Consiglio. Gli indicatori di ciò sono nell’umore plumbeo di Franceschini. O nei spettri e nei sospetti che stanno dietro alcune dichiarazioni di Vito Crimi, insolitamente dure verso l’alleato. E cioè che sia partita la manovra per disarcionare l’attuale inquilino di palazzo Chigi. Qualcuno, tra i Cinque stelle, vede prendere forma di una trama per arrivare al “governo Colao”, altri non capiscono, un po’ tutti vedono come carico di implicazioni lo smarcamento di Berlusconi, proprio sul Mes: un modo per dire “io ci sono”, in vista di equilibri futuri.
Non c’è dubbio che la vicenda europea ha avuto l’effetto di un detonatore in un governo che, paradossi della storia, in Europa è nato di fronte alla minaccia sovranista e ora sull’Europa certifica una crisi politica di fondo. Ma è solo il detonatore di un malessere più profondo, legato alla consapevolezza che qualcosa non sta funzionando, tra una conferenza stampa alla Chavez, così l’ha definita il Frankfurter Allgemaine Zeitung, e l’orgia di task force e comitati che ha rallentato ancora più il processo decisionale.

È per questo che ai piani alti del Nazareno, e questa è davvero una notizia, è tornata di moda una parola audace, in questa fase. La parola: “voto”. Anche se più di un ministro è stato invitato a non porre il tema, soprattutto nella settimana del Consiglio europeo. Però il ragionamento è tornato: “Può essere questo governo a ricostruire l’Italia, o la ricostruzione, come dopo la guerra, deve passare attraverso la volontà popolare?”. Dietro questo quesito, la cui risposta evidentemente è “no”, c’è l’idea di andare, diciamo così, “oltre Conte”, senza andare “contro Conte”. Il che richiede, oltre a una certa abilità politica, quantomeno due presupposti, che banali non solo. Il primo è che la guerra sia finita, perché è difficile solo ipotizzare un’eventualità del genere in un momento in cui tutte le elezioni sono state rinviate e sono vietati gli assembramenti, causa virus. Il secondo è una legge elettorale proporzionale, che rompa lo schema della coalizione con un candidato premier: ognuno si fa la sua campagna, poi in Parlamento nasce il governo, e si presume che nel nuovo Parlamento il partito di maggioranza relativa sia il Pd, non più i Cinque stelle nemmeno un eventuale e tanto chiacchierato partito di Conte. E chissà se non ci sia stato anche questo argomento, dietro lo smarcamento di Berlusconi e nelle tante telefonate che oggi ha ricevuto Gianni Letta con l’occasione dei auguri per il suo compleanno. In parecchi sospirano, a mo’ di auspicio: “Se si potesse votare a settembre… Col proporzionale”, prima della manovra, certi che questa situazione senza precedenti archivi tutti i precedenti di una finestra elettorale mai utilizzata.
Insomma, se si riuscirà a convivere col virus, senza aspettare il vaccino, per riaprire fabbriche e scuole, perché non ripristinare anche una agibilità democratica, why not? Più che un piano, strategia, linea, è per ora una suggestione che tuttavia racconta di una crisi politica strisciante, che già incombe sull’emergenza, prima ancora che si formalizzi. Detta in modo un po’ tranchant, rivela al tempo stesso come il Pd si senta in una trappola, tra un governo che non funziona e un Parlamento che non consente margini di manovra. Chi ha certa consuetudine col segretario dice: “Nicola non farà mai un governo di emergenza con Salvini, in un Parlamento con Di Maio e Renzi. Altro che populismo, una cosa così apre le porte all’ignoto”.
Il problema di questo ragionamento è che ha un presupposto. E cioè che la politica sia ancora in grado di guidare, governando la crisi, risolvendola, e immaginando uno sbocco. E chissà che alla fine non abbia ragione quella vecchia volpe di Pier Ferdinando Casini, che va ripetendo: “Sono tutte chiacchiere. Qualcuno dovrà avvertire Conte e gli altri che, tra un mese, se vorranno uscire di casa, Draghi è la soluzione anche per loro. Non hanno ancora capito cosa sarà il paese tra un mese o due”. C’è poco da fare, se il governo dovesse mai funzionare, a quel punto il presidente del Consiglio diventa un eroe nazionale, difficile da disarcionare, se non ce la fa, le rovine cadono su tutti. E a quel punto sarà l’emergenza a imporre delle scelte. 

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