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giovedì 2 aprile 2020

Alessandro De Angelis x Huffington post - Proroga senza verità


Conferenza

Conte, fedele al suo format, annuncia la chiusura fino a Pasquetta, mettendo già in conto la prossima. E rimuove il flop Inps, che disvela il vero nodo: l'arretratezza strutturale del Paese e l'impossibilità di alternative alla serrata prolungata.



C’è un “detto” e un “non detto”, in questa ennesima conferenza stampa serale del presidente del Consiglio, per annunciare, a dieci giorni dal precedente, un quinto dpcm, che proroga il lockdown totale fino al 13 aprile. Conferenza stampa diventata ormai un “format” in cui il premier, in versione “demiurgo” che tranquillizza il paese, prolunga, quasi senza dare l’impressione di farlo, evitando drammatizzazioni e toni crudi. E mette in conto già il prossimo prolungamento dopo il 13, tra una decina di giorni, senza dare l’impressione di averlo messo nel conto....

In questa linea di sacrifici annunciati col contagocce c’è la preoccupazione che gli italiani possano non tenere a livello psicologico. E, forse, al tempo stesso la paura di compiere un’operazione verità che, con la sua crudezza e la sua ferocia, potrebbe intaccare un consenso molto gratificante. Chissà. Machiavelli al Principe diceva che una “crudeltà” bisogna farla tutta insieme e subito, è il bene che va distribuito un po’ alla volta. A palazzo Chigi, invece, si ritiene che la dolorosa ma necessaria “crudeltà” di rinunciare alla libertà per arginare il contagio vada somministrata poco a poco, con approssimazioni successive e con una responsabilità da condividere, o meglio da appaltare, agli esperti. Quel “comitato tecnico-scientifico” nominato più di una volta durante la conferenza stampa, quasi a sottolineare uno stato di permanente cessione di sovranità.
In fondo è un’esigenza “narrativa”, che nella sostanza poco aggiunge a ciò che il ministro Speranza aveva già annunciato in Parlamento. Anzi, stando al merito delle argomentazioni e dei contenuti, il ministro della Salute, in Aula, era stato più dettagliato. Questa esigenza la spiega anche il “non detto”. È tutto in una parola, che resta innominata. La parola Inps: il clamoroso tilt del perno dell’assistenza sociale del paese, alla sua prima prova significativa in questa crisi, collassato di fronte all’elevato numero degli accessi. E, al tempo stesso, una giustificazione che rivela una clamorosa inefficienza e una disarmante impotenza: un pezzo centrale del sistema sociale chiuso per manutenzione a causa di un presunto attacco hacker, come se fosse imprevedibile l’assalto al sito da parte di persone da un mese chiuse in casa.
A voler essere maliziosi, si potrebbe immaginare quanto invece il tema avrebbe monopolizzato la comunicazione serale del premier se l’Inps avesse funzionato come un orologio: il “modello italiano”, il miracolo delle domande accolte con prontezza, i seicento euro dati agli autonomi. È tutto così, in questo format uguale a se stesso come un deja vu: ciò che non va bene si rimuove. Così come si rimuove una rigorosa analisi dei dati, anch’essa lasciata ai tecnici nella conferenza delle sei: ieri erano più alti i morti, per cui si parlava di flessione del contagio, oggi più alti i contagi, con i decessi che calano, per cui è scomparsa dal lessico la parola picco.
Il picco dell’Inps squarcia invece impietosamente il velo di Maya costruito attorno a questo gioco di specchi. Nel senso che certamente non sappiamo quando finirà la crisi sanitaria, ma già si capisce che la crisi sociale sarà una via crucis, con i deboli più esposti e abbandonati a se stessi. La verità è che in questo dramma il paese è arrivato non solo con la politica sull’orlo di una crisi di sistema, ma anche con una arretratezza strutturale, sedimentata in decenni di disinvoltura. Un paese inefficiente, medievalizzato, raccontato dal collasso dell’Inps e dall’inchiesta di Report, che in un paese normale sarebbe stato l’oggetto della discussione pubblica per giorni.
È un’arretratezza che rende del tutto astratta e teorica la discussione su una riapertura “selettiva” e sul “modello giapponese” o “coreano”, paesi dove non si impallano app e big data. E dove un modello alternativo alla chiusura totale è possibile perché ci sono sia i dispositivi di sicurezza tradizionali come mascherine e tute, sia quelli medici come i test e tamponi, sia quelli tecnologici. Immaginare, qui ed ora, quel modello è come competere con la Samsung usando i telefoni a gettoni. Che poi una crisi possa essere, come nel dopoguerra, una grande occasione per la modernizzazione del paese, è un altro discorso, magari un obiettivo. Ma la guerra si fa con i soldati che si hanno. È anche questo il “non detto” di questa discussione sul “come” riaprire: l’inevitabilità della chiusura per una sorta di impraticabilità di campo, con il drammatico corollario che magari funziona per l’emergenza sanitaria, ma ogni settimana che passa si rende più difficile la ripartenza e la ricostruzione, al limite di comprometterla. Una morsa del diavolo, dovuta all’assenza di alternative.

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